Il Verbo si fece carne per ciascuno di noi: quale grande amore! In evidenza

1. Perché il Figlio eterno si è fatto carne?

Nel prologo del Vangelo di Giovanni troviamo una meditazione teologica sull’incarnazione del Verbo eterno. Al v. 14 leggiamo: «Il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi». Nel linguaggio biblico il termine carne indica tutto l’uomo nel suo aspetto terreno, in quanto storico, debole e mortale. In questo senso Giovanni afferma con forza la reale umanità assunta da Cristo con l’incarnazione. In questo modo il Verbo eterno, assumendo la carne umana, fa esperienza della fragilità della nostra esistenza di creature: fame, sete, fatiche, dolori…
Subito si impone una domanda: perché il Verbo si è fatto carne? Qui ci viene in aiuto lo stupendo e illuminante inno di san Paolo che leggiamo nella lettera agli Efesini:
«Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d'amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato» (Ef 1,3-6).
La benedizione divina sta già nel fatto che, da tutta l'eternità, Dio ci ha scelti, ciascuno personalmente!
Questa affermazione è estremamente importante. Si tratta di comprendere – né più né meno – perché noi uomini ci troviamo su questa Terra.  Noi esistiamo, fin dall’eternità nella mente di Dio, in un grande progetto che Dio ha custodito in se stesso e che ha deciso di attuare e di rivelare «nella pienezza dei tempi» (cfr Ef 1,10). Le nostre vite qui non sono frutto del caso, ma rispondono ad un disegno di benevolenza eterna di Dio. In Dio noi siamo voluti e pensati, con la nostra irripetibile identità, già da sempre: Egli ci contempla dall’inizio dei tempi.
Questa vertiginosa prospettiva sulla nostra esistenza umana subito fa sorgere una domanda: «Qual è lo scopo ultimo di questo disegno misterioso?». Ci ha scelti – continua San Paolo - per essere figli adottivi in Cristo. Tutti abbiamo la vocazione alla filiazione adottiva; da tutta l'eternità Dio ci ha pensato e ci ha creato per essere figli suoi. La nostra creaturalità è elevata alla vita divina, all’essere realmente figli nel Figlio!
Noi siamo quindi figli di Dio in tutta verità, perché abbiamo già ricevuto nel sacramento del Battesimo lo stesso «Spirito del Figlio», lo Spirito Santo che da sempre il Figlio possiede e costituisce il suo rapporto unico con il Padre. Noi siamo per grazia ciò che il Figlio è per natura!
Continuando la lettura della Lettera agli Efesini, al v. 10 troviamo un’altra affermazione molto importante: il disegno salvifico di Dio, «il mistero della sua volontà» (Ef 1,9), è espresso con un termine caratteristico: «ricapitolare in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri» (cfr Ef 1,10). Ciò significa che nel grande disegno della creazione e della storia Cristo si leva come centro dell’intero cammino del mondo, asse portante di tutto, che attira a Sé l’intera realtà, per condurre tutto alla pienezza voluta da Dio. Quest’opera di ricapitolazione di Cristo che si attua nella storia troverà compimento nella pienezza escatologica, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28).
In teologia ci sono state due posizioni riguardanti la finalità o motivo dell’incarnazione: quella redentiva secondo la quale l’incarnazione è un “rimedio del peccato”, e quella perfettiva, come abbiamo letto nella lettera agli Efesini, secondo la quale Cristo ha in se stesso, indipendentemente dalla caduta iniziale, il compito di condurre dinamicamente al suo compimento la storia dell’uomo e del cosmo.
Capiamo che non si dà opposizione tra finalità redentiva e perfettiva dell’incarnazione, dal momento che l’evento creazione e incarnazione sono integrate nell’unico piano di salvezza dell’umanità e del cosmo in Cristo. Ne consegue che il Figlio di Dio è diventato uomo non soltanto a causa dei peccati commessi dall’uomo, ma soprattutto per portare a compimento la creazione.

Contempliamo l’incarnazione e la natività nel vangelo di Luca
Da questo alta visione teologica e spirituale sulla finalità dell’incarnazione di Cristo passiamo ora a contemplare l’incarnazione e la natività come ci viene presentata nella stupenda pagina del Vangelo di Luca, cap 2, vv. 1-7. Leggiamo il testo.
«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'alloggio».
In questi versetti iniziali Luca si premura di collocare Gesù all’interno di un quadro storico ben concreto. Gesù, dunque, non è nato nell'imprecisato “una volta” del mito. Egli appartiene ad un tempo esattamente databile e ad un ambiente geografico esattamente indicato. «La fede è legata a questa realtà concreta, anche se poi, in virtù della Risurrezione, lo spazio temporale e geografico viene superato e il 'precedere in Galilea' (cfr. Mt 28,7) da parte del Signore introduce nella vastità aperta dell'intera umanità (cfr. Mt 28,16ss)»1.
In Luca, inoltre, questo riferimento storico ha anche una valenza teologica. Infatti si legge: «... Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra» (v. 1). Cesare è posto nel ruolo di destinatore universale; egli intende censire la totalità («tutta la terra») del mondo abitato (oikumenen). Tutto il potere è incentrato su di lui, ignorando che quel che è al di fuori della sua presa. Di fronte a questa volontà di dominio “universale” da parte di Cesare Augusto, nella storia, un universale portatore di salvezza (Gesù) può entrare nel mondo.
Si noti che la presentazione che Luca fa di Cesare Augusto non è affatto una manomissione storica in vista del significato teologico. Infatti l'epigrafe di Pirene risalente all'anno 9 a.C. ci fa capire come Augusto voleva essere visto e compreso: il mondo intero sarebbe andato in rovina senza di lui; “La provvidenza – si legge in tale stele – che divinamente dispone la nostra vita ha colmato quest'uomo, per la salvezza degli uomini, di tali doni da mandarlo a noi e alle generazioni future come salvatore (sōtér)”2. Dunque Augusto si ritiene un salvatore dell'umanità; egli avrebbe suscitato una svolta nel mondo, avrebbe introdotto un nuovo tempo. Allora è chiaro che Luca ci pone di fronte ad un confronto: chi è il vero salvatore? Cesare Augusto o il bambino che nasce a Betlemme?
C'è poi un particolare molto significativo: «il 'salvatore' ha portato al mondo soprattutto la pace. Egli stesso ha fatto rappresentare questa sua missione di portatore di pace in forma monumentale e per tutti i tempi nell'Ara Pacis Augusti... »3. In effetti Cesare Augusto col suo dominio ha pacificato l'impero che ha conosciuto sicurezza giuridica e benessere per circa duecentocinquanta anni. Ma si tratta della pax romana basata sì su accordi politici, ma soprattutto sulle armi. Ben diversa è la pace che Gesù è venuto a portare e che come Risorto donerà ai suoi (cfr. Lc 24,36). È una pace fondata sulla vittoria del peccato. Interessa l'uomo nella profondità del suo essere. La storia dell'umanità è una storia di violenza a causa del peccato. Basti leggere le prime pagine della Genesi per constatare che dal primo peccato c'è stato un proliferare del male a tal punto che tutta la terra «era piena di violenza» (Gen 6,13); il racconto eziologico del diluvio esprime come l'uomo nella storia distrugge se stesso a causa della violenza. Tutta la storia d'Israele sarà intrisa dalla violenza. E Dio, che viene a stringere un'alleanza con il suo popolo e le rimane fedele nonostante il peccato, è disposto ad accogliere anche le immagini che l'uomo violento ha proiettato in lui: quella di un Dio violento, che castiga e punisce duramente – anche utilizzando come strumento la guerra - Israele infedele per richiamarlo alla fedeltà all'alleanza. Oltre a portare la vera pace sulla terra – quella che proclamano gli angeli al v. 14 – Gesù ci rivela anche il vero volto di Dio.
«Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nàzaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme» (vv. 3). Il viaggio che Giuseppe, qui presentato con il ruolo di figlio di Davide, e quindi portatore della promessa messianica, “sale” in Giudea, per raggiungere la “sua” città (cfr. v. 3)4. È quindi un viaggio in “salita”: da Nazareth (luogo basso), punto di partenza, egli sale in direzione di Gerusalemme (luogo alto per la sua altezza e per la sua importanza di capitale e di unico luogo di culto). Si tratta della seconda delle quattro salite che punteggiano i primi due capitoli di Luca: la visitazione (nelle colline di Giuda), la salita di Giuseppe con Maria incinta, le due salite a Gerusalemme (quella circoncisione al Tempio e, 33 giorni dopo, la presentazione di Gesù) che chiuderanno il vangelo dell'infanzia (cfr. 2,21-52). Il viaggio di Giuseppe - che porta con sé Maria incinta – anticipa il viaggio che Gesù stesso da adulto farà e che il vangelo di Luca ci presenta. Una “salita”, dunque, non solo topografica, ma anche teologica. Una salita che si concluderà con la passione e morte di Gesù.
Giuseppe sale per raggiungere “la sua città”. L'espressione “città di Davide” è strana, perché la locuzione, usata una cinquantina di volte nella Sacra Scrittura, indica Gerusalemme, la capitale. Luca elimina subito l'ambiguità precisando: “chiamata Betlemme”. Evidentemente mediante l'uso di tale locuzione l'evangelista ci dà un messaggio teologico: Gesù è collegato alle umili origini di Davide a Betlemme piuttosto che alla gloria regale di Gerusalemme; la povertà nella quale nasce è segno di una regalità che assume i tratti della povertà – quella assunta per amore dell'umanità5 -, e del servizio (quello di essere pastore – come lo aveva fatto il giovane Davide prima dell’elevazione alla regalità - che dà la vita per le pecore), a differenza dei re di questo mondo (e di Davide stesso).
Con questa salita a Betlemme si avvera la profezia di Michea: «E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele» (Mi 5,1). È vero che Luca non cita espressamente tale profeta, ma l'abbondanza di termini e temi comuni esprime un chiaro riferimento dell'evangelista ad essa.
Giuseppe, dunque, sale «con Maria sua sposa che era incinta» (v. 5). Giuseppe è congiunto a Maria, congiunto al Messia in gestazione. Il censimento riguarderà dunque due persone e ben presto tre, cioè anche il bambino Gesù che nascerà a Betlemme. Vediamo così compiersi il programma, che era stato posto nell'annuncio dell'angelo a Maria: «Il Signore gli darà il trono di Davide, suo padre» (1,32). Questo oracolo era un'eco della profezia messianica di Natan (2Sam 7,12-17). L'ironia del racconto sta nel fatto che il censimento, cui Gesù si sottomette passivamente (“per essere censito”: 2,5), manifesta la sua qualifica regale e sovrana di Messia. Dio si serve del potere cieco di Augusto (grande manipolatore delle popolazioni) per autenticare il Re-Messia. Luca non aveva fino ad ora manifestato in che modo Gesù, che era figlio di Giuseppe (in senso “legale”, come invece ben ci dice Matteo in 1,18-25), poteva ben meritare il titolo di figlio di Davide. Ma ora la cosa è chiara6. Egli sarà il re davidico «il cui regno non avrà fine» (Lc 1,33).
Gesù nasce e viene posto in una mangiatoia perché «non c’era posto per loro nel katàlyma» (v.7). Che cosa è questo katàlyma? Anzitutto è da escludere l'albergo: infatti per parlare d'un albergo o locanda dove si paga Luca adopera il termine pandokeion (cfr. Lc 10,34). Cos'è allora? Si tratta della sala ospitale di soggiorno, la “camera alta”, quella che sarà prestata anche per l'ultima cena (anche Lc 22,11 è un katalyma). Probabilmente la casa (in Mt 2,11 dove si dice espressamente che i magi entrano nella «casa») è quella dei parenti che ospitava Giuseppe e Maria7; forse era ormai sovraffollata, e comunque la stanza di soggiorno non era certo il luogo opportuno per una partoriente; così ai due giovani sposi venne offerto un luogo separato e discreto, attiguo alla casa che li ospitava, senz’altro povero. Si trattava, probabilmente, del piccolo vano che faceva da ripostiglio e da piccola stalla per l’asino8. Ciò spiegherebbe la presenza della mangiatoia.
C'è da chiedersi: di chi è quella casa? L'evangelista non lo dice. Coi suggerisce che dev’essere la casa del mio cuore. C'è posto in essa per Gesù?
Si noti che, sebbene non c'è stato un rifiuto esplicito da parte dei parenti di Giuseppe, questa nascita in questo luogo umile viene letta come una prefigurazione del futuro di Gesù. «La meditazione, nella fede, di tali parole ha trovato in questa affermazione un parallelismo interiore con la parola, ricca di contenuto profondo, del Prologo di Giovanni: “Venne fra i suoi, e i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11). Per il Salvatore del mondo, per Colui, in vista del quale tutte le cose sono state create (cfr. Col 1,16), non c'è posto. “Le volpi hanno le loro tane egli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Colui che è stato crocifisso fuori della porta della città (cfr. Eb 13,12) è anche nato fuori della porta della città.
Questo deve farci pensare, deve rimandarci al rovesciamento di valori che vi è nella figura di Gesù Cristo, nel suo messaggio. Fin dalla nascita Egli non appartiene a quell'ambiente che, secondo il mondo, è importante e potente. Ma proprio quest'uomo irrilevante e senza potere si svela come il veramente Potente, come Colui dal quale, alla fine, dipende tutto»
Si noti anche che Gesù viene posto in una mangiatoia. Ciò che viene posto in essa è per essere mangiato. Gesù si darà come pane di vita per la salvezza degli uomini. Il peccato era cominciato con il mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male con la brama di diventare come Dio; la cura di questo mangiare sarà proprio l'eucarestia. La croce – l'albero della vita – permette di mangiare il frutto della vita. L'eucaristia è l'antidoto, il farmaco dell'immortalità. I discepoli ora possono mangiare, senza bramosia, ricevendo tutto come dono il frutto dell'albero della vita, con rendimento di grazie.
Non per nulla Gesù nasce a Betlemme, che significa “casa del pane”. Nasce là dove c'è la casa del pane. È lui il Pane da mangiare che si dona.
Si noti, infine, ad una lettura attenta, lo stretto parallelismo tra la nascita di Gesù e la sua morte. A Gesù morto viene prestata una tomba, come alla nascita viene offerto a Gesù un luogo provvisorio. Con l’oscurità Gesù viene deposto nel sepolcro e nell’oscurità (cfr. il v. 8) Gesù nasce. Gesù viene ‘avvolto’ e ‘deposto’ nel sepolcro (Lc 23,53) e alla nascita Gesù viene ‘avvolto’ e ‘deposto’ nella mangiatoia10. Il Signore, dunque, nasce per morire: nelle pieghe del racconto della nascita il credente già legge la morte in croce del Messia. Se, dunque, Gesù muore per amore nostro (cfr. Rm 5,8: «Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»), per amore nostro il Verbo di Dio si è incarnato11. Ma, allo stesso tempo, il credente vede anche la Risurrezione: Maria «partorì il suo figlio primogenito» (v. 7): egli viene chiamato “primogenito” (e non “unigenito”, né tanto meno bléfos, cioè “infante” o “bambino”, come invece si legge in 2,12.16) perché egli è il primo di una moltitudine di figli12. Per la sua obbedienza al Padre, infatti, per mezzo del Battesimo siamo morti e risorti con Lui, siamo diventati figli nel Figlio.
Nella lettera ai Colossesi questo pensiero viene ancora allargato: Cristo viene chiamato il «primogenito di tutta la creazione» (1,15) e il «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (1,18). «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui» (1,16). «Egli è principio» (1,18). Il concetto della primogenitura acquisisce una dimensione cosmica: egli è principio e termine della nuova creazione, che ha preso inizio con la Risurrezione.
Infine la mangiatoia rimanda – come abbiamo detto – agli animali, per i quali essa è il luogo del nutrimento. Nel Vangelo non si parla qui di animali. Ma la meditazione guidata dalla fede, leggendo l'Antico e il Nuovo Testamento ha ben presto colmato questa lacuna rinviando a Is 1,3: «Il bue conosce il suo proprietario e l'asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Questi due animali posti nel presepe rappresentano l'umanità che, davanti al Bambino, davanti all'umile comparsa di Dio nella stalla, arriva alla conoscenza e, nella povertà di tale nascita, riceve l'epifania che ora a tutti insegna a vedere13.

Con l’augurio che ciascuno di noi possa essere illuminato da questa luce divina, auguro a tutti un Santo Natale!

Padre Michele, omv  - Rettore del Santuario - 

 
 
 

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