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Perché accostarci al sacramento della Riconciliazione?

Sappiamo che non è la prima volta che il sacramento della Riconciliazione subisce e affronta crisi profonde. Oggi, in particolare, nel tempo del relativismo e della confusione del bene come male e viceversa, noi ci accostiamo al sacramento della Riconciliazione perché siamo persone di fede, cioè persone che si lasciano illuminare dalla verità del Vangelo, e quindi sanno riconoscere il proprio peccato per quello che è. Ricordiamoci che il sacramento della Riconciliazione è dono del Risorto: “Gesù disse loro: ‘Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’. Detto questo alitò su di loro e disse loro: ‘Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,21-23). Sappiamo che il perdono è il segno più visibile dell’amore del Padre, che Gesù ha voluto rivelare in tutta la sua vita. Ora questo perdono è offerto ad ogni uomo di ogni tempo mediante il sacramento della Riconciliazione.

Accoglie questo dono del Risorto chi, dunque, sa fare verità nella propria vita, cioè sa riconoscere che – in contrapposizione con l’illusione di essere un “giusto”, rischio che Gesù stesso ci mette in guardia nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10-14) - sono un peccatore.  Tale umile riconoscimento è già principio di libertà; perché riconoscendo che certe mie azioni indirizzano la mia vita verso il fallimento (“peccare” etimologicamente vuol dire “prendere male la mira”, cioè “mancare il bersaglio”), e che con esse ho compiuto del male verso gli altri / verso la terra, ricorro con fede a Colui che ha vinto il peccato. Allora posso dire con San Paolo: “Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori. Io sono il primo dei peccatori, ma proprio per questo Dio ha avuto misericordia di me. Perché Gesù Cristo mostrasse in me, per primo, tutta la sua sapienza per dare un esempio a tutti quelli che in futuro crederanno in lui e riceveranno la vita che viene da Dio” (1Tm 1,12-26).

L’amore di Dio per me è condizione indispensabile per riconoscere il mio peccato. Ciò è evidente nella parabola sopra citata: il fariseo non supplica Dio, né ha bisogno di ascoltarlo; parla solo a se stesso e si ritrova solo con i suoi meriti e le sue pretese. In altre parole: più è vivo il dialogo con Dio e fedele l’ascolto della sua parola-progetto, più acuto sarà il senso del mio peccato e la costatazione che le sue vie non sono le mie vie, né i suoi pensieri i miei progetti (cfr. Is 55,8). Di fronte alla luce scopriamo il nostro peccato (cfr. immagine del vetro illuminato dalla luce), diveniamo capaci di leggere in profondità nel nostro cuore e d’intuire cosa si nasconde anche dietro le sue “buone azioni”. Ecco perché i santi quanto più si sono avvicinati a Dio tanto più avevano consapevolezza di essere peccatori.

Il sacramento della Riconciliazione è un momento di grazia per riprendere il nostro cammino, consapevoli che – come ci ricorda papa Francesco nella Gaudete et exultate – ognuno per la sua via è chiamato alla santità (cfr. GE 10). Perché la santità è un cammino di chi vive le beatitudini, e tra queste al centro ce ne sono due: “beati i misericordiosi” e “beati i puri di cuore”. Come a dire: è misericordioso chi ha sperimentato la misericordia di Dio; è puro di cuore colui che vigila sul proprio cuore, e quindi agisce con mitezza, opera la pace intorno a sé, si impegna a favore della giustizia, anche al costo di sopportare nel nome di Cristo la persecuzione (le ultime due beatitudini), con retta intenzione.

Inoltre questo cammino di santità non è solitario, ma in comunione con i fratelli nella fede (Chiesa).

 

Dall’esperienza della misericordia divina
al divenire strumenti di misericordia

 

Conoscenza esperienziale dell’amore del Padre ed incontro con il Risorto

Il perdono è anzitutto il “luogo” nel quale facciamo conoscenza in modo esperienziale del vero volto del Padre. Non è solo una coscienza razionale, di ciò che leggo nel Vangelo, ma di un vero e proprio incontro con il Dio misericordioso. Gesù ci ha parlato del Padre come colui che fa festa in cielo. Ha paragonato la gioia del Padre a quella del pastore buono che ritrova la pecora smarrita, aggiungendo che il Padre stesso gode molto più per un peccatore che si scopre avvolto da questa misericordia, che non per i 99 giusti che s’illudono della loro giustizia e credono, beati loro!, d’aver bisogno solo ogni tanto del perdono di Dio. Il perdono consente a Dio di manifestare la pienezza della sua paternità, e all’uomo di sentirsene figlio.

Da quest’esperienza della paternità di Dio e dell’incontro con la misericordia divina rivelataci in pienezza da Gesù, non può non scaturire la gioia. Ricordiamo – ad esempio – l’esperienza dell’incontro personale di Zaccheo (Lc 19,1-10) con il volto misericordioso del Signore che chiama proprio lui: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Ed ecco la risposta di Zaccheo: “In fretta scese e lo accolse pieno di gioia”. La gioia del perdono è come la luce: se la si coglie direttamente dal sole, allora se ne comprende l’inarrestabile potenza, se ne intuisce la rara preziosità e se ne gode profondamente.

Allo stesso tempo è un’esperienza del Risorto. Nell’incontro con lui egli ci dona la sua pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27). È questa l’esperienza degli apostoli che, incontrando il Risorto nel giorno di Pasqua, non si sentono rimproverati per averlo abbandonato e rinnegato, ma piuttosto egli, ponendosi al loro centro (“si fermò in mezzo a loro”), ricomponendo l’unità “stando” tra loro, comunica la sua shalom. Il triplice augurio, due volte nella prima e una nell’apparizione seguente a Tommaso riunito insieme con gli altri nel Cenacolo (20,19-29), indica la pienezza di ogni benedizione messianica. Il Risorto è la pace stessa, accogliere Lui è accogliere la somma dei beni messianici. Ed è questa l’esperienza dell’incontro con il Risorto nel sacramento della Riconciliazione.

Giustamente il CCC così si esprime: “In coloro che ricevono il sacramento della Penitenza con cuore contrito e in una disposizione religiosa, ne conseguono la pace e la serenità della coscienza insieme a una vivissima consolazione dello spirito” (n. 1468).

Questa esperienza spirituale della riconciliazione ha anche degli effetti psicologici. Vediamo quali.

 

Gli effetti psicologici del sacramento della Riconciliazione[1]

1. Riconciliati con noi stessi

Il primo effetto psicologico del perdono divino è la riconciliazione con noi stessi. Non è vera quella riconciliazione con il Padre che non passi attraverso quella con il proprio io, con la nostra immagine attuale, di persone che cercano con fatica umile e paziente di compiere il progetto del Padre ma pure constatano di esserne distanti, e ce la mettono tutta a fare meglio che possono, ma senza illudersi d’esser giunti alla perfezione. Non siamo perfetti, ma se realmente lo vogliamo diventare dobbiamo cominciare con il lasciare ogni illusione di poter giungere alla perfezione con le nostre forze. Siamo solo viandanti, non gente arrivata; persone di buona volontà, non eroi; uomini deboli, tutt’altro che impeccabili.

La riconciliazione con Dio rimane sempre un messaggio efficace di stima e di fiducia: Egli riconciliandoci si fida di noi e ci rende nuovamente degni del suo amore.

2. Riconciliati con la vita

- Gioia di vivere. Senza esprimere giudizi sommari né generalizzare indebitamente lo dobbiamo ammettere: a volte non diamo una testimonianza di gioia. Indaffarati e tesi, o preoccupati e troppo seri, dimentichiamo che questo è il nostro primo apostolato, rischiando di apparire (o essere?) più impegnati che contenti. Perché? Se andiamo un po’ oltre le solite - e pur legittime - spiegazioni (tanto lavoro, difficoltà d’apostolato, un certo culto della «serietà» religiosa, ecc.), possiamo trovare una ragione più profonda e personale: una sorta di inimicizia, quasi rabbia, verso la vita.

«La vita non è stata buona con me, da essa ho ricevuto più dolori che gioie... Non sono stato abbastanza compreso dagli amici, o aiutato dalla comunità... Ho anche sbagliato e realizzato poco, ma neanche ho ricevuto quel granché nella mia esistenza...». Sono frasi di persone credenti o consacrate al Dio della vita, ma in rotta con la vita. Certamente non si può pretendere di consolare con le solite pillole pseudo-rassicuratorie (tipo «c’è chi sta peggio di te» o «bisogna accontentarsi, qualche guaio è successo a tutti»), e neppure con la pillola «escatologica» dell’al-di-là che non ha niente in comune con l’al-di-qua («coraggio, la gioia non è di questo mondo, godremo solo nell’altro, dove finalmente sarà fatta giustizia!»). No, una certa gioia di vivere fa già parte del Regno quaggiù. Ed è gioia vera, frutto d’una percezione realistica della vita e, più in particolare, d’una esperienza di salvezza e di perdono. Quel perdono che ci riconcilia con la vita. Vediamo perché.

- Integrazione del bene. C’è tanta gente che non riesce ad accorgersi e godere della propria realtà positiva! La ragione è questa: noi siamo più spaventati dal male che non attratti dal bene; lo spavento richiama l’attenzione concentrandola tutta lì, sul negativo, e distraendola dalla percezione del positivo. Il risultato è una distorsione percettiva: vediamo solo e soprattutto il nostro male, le nostre debolezze, incidenti e responsabilità morali; finché alla fine tutto ci appare nero e ci arrabbiamo con la vita. Oppure, preferiamo non pensarci più: meglio dimenticare e ignorare... Qualcuno ci riesce, ma i più riescono solo a cancellare il bene presente nella loro storia: non lo vedono più o lo sottovalutano.

Così il bene viene come sepolto, è un capitale non goduto. Il perdono che ci viene dal Padre ci riconcilia con la nostra storia, non solo con Dio; ci fa scoprire non semplicemente il nostro male, ma anche il nostro bene; è festa, non solo penitenza, perché ci libera dentro dalla paura d’aver sbagliato tutto, di trascinarci dietro un passato che sarebbe meglio dimenticare, d’esser dei falliti perché deboli e attratti dal male[2].

La misericordia del Padre ricupera questo passato, ci dona occhi nuovi perché sappiamo vederlo nella sua realtà, senza deformazioni pessimiste e letture parziali. Ci fa capire che quanto è successo non è da buttar via né da dimenticare. Nel cuore del nostro passato c’è una presenza di Dio da riscoprire e un suo progetto da decifrare, presenza o progetto che passano anche attraverso il nostro male e suscitano il bene. Nella vita d’ogni uomo esiste questo bene. Un bene fatto e, soprattutto, un bene ricevuto...

La scoperta dell’amore che va oltre la giustizia (così abbiamo definito il perdono) è scoperta d’una gratuità che abbraccia tutta la vita.

- “Gratuitamente avete ricevuto…” (Mt 10,8). Come in una sinfonia esiste un motivo centrale, che dà unità e originalità all’opera, e torna e si ripete in vari modi, con diversi strumenti e armonizzazioni, con modulazioni e variazioni che ne abbelliscono e arricchiscono il fraseggio ma sempre entro un preciso tema musicale, così è il perdono per noi: è il motivo centrale della nostra vita, o il ritornello del nostro salmo responsoriale.

Sperimentarlo con tutto il cuore e tutta l’anima vuol dire accorgersi che questo amore che va oltre il nostro merito ci è già venuto incontro tante altre volte in svariati modi e attraverso molte persone. La «festa» del perdono rompe l’incanto di quella esaltante e mortificante mentalità pagana che ci vuol far vedere la vita come conquista, gli eventi come una lotta, gli altri come rivali, noi stessi come soggetti - più o meno fortunati, ma sempre protagonisti - del nostro destino; e ci fa scoprire la vita come dono, gli eventi come sacramento quotidiano di gratuità, gli altri come mediazione d’una paternità provvidente, e noi come esseri che hanno ricevuto tutto quel che hanno e che sono.

L’incontro con la misericordia che ci apre quindi gli occhi del cuore e della mente attivando in noi un corrispondente modo di percepire la realtà. Infatti se il perdono è conoscere l’Amore, la riconciliazione con la vita sarà un continuo ritrovare e riconoscerne i segni. E allora la nostra storia ci appare sempre più come un grande contenitore, o una meravigliosa sinfonia - di bontà, tenerezza, misericordia, gratuità, comprensione... - che tante, tantissime persone, strumenti d’una volontà buona, hanno usato nei nostri confronti fin dal primo giorno della nostra vita, senza che avessimo fatto nulla per meritarlo, forse senza che ce ne siamo mai accorti, spesso senza che neppure ci scomodassimo a ringraziare. No, non abbiamo davvero alcun diritto di lamentarci della vita. Le nostre lagne sarebbero una nota terribilmente stonata!

- “…gratuitamente date”. La logica delle parole di Gesù è di una evidenza assoluta: se gratuitamente abbiamo ricevuto, è normale che diamo con la stessa gratuità, senza sentirci eroi, anzi, con la certezza che per quanto diamo non pareggeremo mai il conto con quello che abbiamo ricevuto.

A questo riguardo ricordiamo l’episodio evangelico di Mt 18,21-35, quando Pietro chiede a Gesù: “Quante volte devo perdonare?” – E, credendo, di esagerare, aggiunge: “Fino a sette volte?”. Gesù risponde: “Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”, cioè sempre. Ed illustra la dinamica del “perdonato” che diviene a sua volta “perdonatore” con una parabola, quella del re che si è messo a fare i conti con i suoi dipendenti e il primo, che doveva essere un governatore di province, gli doveva una cifra enorme: 10.000 talenti[3]. Ciò significa che era stato proprio un amministratore disonesto se, dovendo al re una somma così ingente, non aveva di che pagare perché se l’era dilapidata. Il re allora ordina che venga venduto schiavo insieme a tutti i suoi beni. Gesù utilizza i termini economici per esprimere questa enormità insolubile: deve una cifra che non può pagare neanche se gli vendono tutto, neanche se lui e la sua famiglia vengono venduti come schiavi. A quel punto il debitore si inginocchia e chiede pietà e il re condona il debito immenso. Ma costui, uscito fuori, trova un suo collega che gli doveva cento denari - cioè una somma ridicola se confrontata con quanto gli è stato condonato - e pretende che paghi, minacciandolo di metterlo in prigione se non paga subito. A quel punto la situazione torna indietro e colui che aveva ricevuto il condono viene richiamato dal re che gli dice: “Non dovevi tu perdonare come io ho perdonato a te?”. È una parabola, cioè un’immagine, un racconto che serve a provocare l’ascoltatore. Il punto focale del racconto sta nel “come”: colui che è stato perdonato doveva essere in un atteggiamento di entusiasmo, di gioia, di contentezza tale da abbracciare il suo debitore e rinunciare ad esigere il credito. Il problema è appunto quello della relazione con gli altri nella comunità, relazione che nasce dall’esperienza del perdono. Io sono stato perdonato, nel senso che mi è stato dato un bene immenso che io non meritavo assolutamente: ciò che Dio ha dato a me è infinitamente superiore a quello che io posso dare ad un altro, proprio perché il condono che mi è offerto dal Signore nel mio incontro di grazia nel Battesimo – rinnovato nel sacramento della Riconciliazione – supera ogni possibilità e, avendo la coscienza di aver ricevuto tanto, sarebbe normale una mia risposta ultragenerosa.

Purtroppo la nostra logica non è sempre questa, soprattutto se non siamo ancora abbastanza convinti d’aver ricevuto tutto in dono. Così crediamo d’avere «il diritto a un compenso per ogni sforzo, per ogni lavoro, ogni sofferenza e desiderio. Ogni volta che facciamo uno sforzo e che l’equivalente non ci torna sotto forma d’un frutto visibile, ci sentiamo come derubati. Se facciamo del bene ci attendiamo la riconoscenza della persona beneficata... Tutte le volte che qualcosa è uscito da noi, abbiamo assolutamente bisogno che almeno l’equivalente ritorni in noi e, poiché ne abbiamo bisogno, crediamo d’averne diritto» (S. Weil).

La nostra vita diventa allora un dare interessato e misurato, un pretendere meschino e insaziabile, un frenetico vantar diritti (immaginari), un diffidare degli altri e un presumere di sé; in breve, una vita non riconciliata, che genera solo tristezza e rabbia, falsi eroi o vittime risentite.

Ma non dipende principalmente da cattiveria o tirchieria particolari: chi non dà gratuitamente è solo uno che ha una percezione molto povera della vita, piena di paure e di sospetti. Un individuo non riconciliato difficilmente sarà persona riconciliante. In realtà a nessuno viene naturale donare senza aspettarsi alcuna ricompensa e con totale disinteresse: lo può fare solo chi ha sperimentato la gratuità straordinaria d’un amore che lo ha creato, redento, riconciliato. Questo amore è il perdono.

 

Beati i puri di cuore
Lo Spirito Santo ci rende capaci di relazioni nuove

 

È importante agire con un cuore puro. Perché solo chi agisce con intenzioni pure – ossia senza quella ricerca di sé, a volte anche narcisistica, che ancora può inquinare il nostro servizio ai fratelli – può sperimentare la gioia delle beatitudini. Tale gioia, infatti, nasce dall’abnegazione, del dono sincero e generoso di sé. La gioia, infatti, è il risultato inaspettato dell’amore: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Paradosso molto vero: la gioia si trova quando non la si cerca, quando si è dimentichi di sé e si vive con libertà interiore i propri servizi per amore. La gioia, quindi, non può essere raggiunta in modo diretto. Oggi, come sappiamo, c’è una grande ricerca di gioia, ma paradossalmente chi cerca di ottenerla per sé, mediante il possesso egoistico dei beni, il piacere del godimento, il potere e ogni altra autoaffermazione sulle cose e sui beni creati, si ritrova, alla fine, con in cuore vuoto.

La gioia del credente, quindi, esige un cammino di purificazione del cuore. E, a questo riguardo, per esplicitare il legame del sacramento della Riconciliazione con le Beatitudini, mi sembra illuminante ricorrere a quello che Gesù ci insegna nel Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti (ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα)…” (Mt 6,12).

È molto interessante il fatto che Matteo non adopera esplicitamente la parola “peccato”, ma parli di “debito” (ὀφειλήματα). Non è solo un fatto lessicale; la ragione è più profonda, perché il concetto di debito indica un dovere ed è problematico quando non c’è la possibilità di assolvere a tale dovere, quando l’entità da restituire supera le mie forze economiche. Se mi ero dimenticato il portafoglio e un amico mi presta cinquanta euro ho un debito con lui, però è un debito irrilevante, poiché appena ricevo lo stipendio gli restituisco tale somma. Il problema si presenta quando la restituzione è più impegnativa. Ad esempio, ho comprato un appartamento e ho fatto un mutuo molto grande, mi sono impegnato facendo i conti con quello che avevo e con quello che potevo guadagnare. Poi succede l’imprevisto: perdo il posto di lavoro. A questo punto mi resta il grosso debito e non ho più la possibilità di pagarlo. Perdo la casa? Come faccio a pagarlo? Questo è un debito grosso ed è un problema, devo e non posso, mi gioco la vita.

Il problema, quindi, che vuole evidenziare la richiesta “rimetti a noi i nostri debiti” è proprio il contrasto fra “devo” e “non posso”. Il debito allora diventa un’immagine per indicare il peccato sotto una prospettiva molto interessante che merita attenzione. In genere noi siamo abituati a presentare il peccato come una cosa “in più” - l’immagine classica è quella della macchia - il peccato è un’azione, è un fare sbagliato, è un comportamento errato, è “la macchia” che ha contaminato la mia vita. Ma la macchia è un elemento che si aggiunge al vestito: il vestito è pulito ma a un certo momento arriva qualcosa in più che lo macchia, e se si interviene bisogna farlo togliendo quel di più che ha sporcato l’abito. Allora, i peccati che ho sono le azioni che ho commesso in modo sbagliato, sono un qualcosa in più che ho fatto, che ho posto indebitamente nella mia vita e che devo provvedere ad eliminare. L’immagine del debito invece non va in questa direzione: il debito è qualcosa “che non c’è”, da parte mia, io devo fare qualcosa che non riesco a fare. Il problema del debito è una mia incapacità, una mia impossibilità, semmai è un vuoto, è una mancanza, è una privazione, è una situazione di impotenza: quindi non è “un più” ma è “un meno”.

“Rimettere il debito” quindi non significa semplicemente cancellare qualcosa che c’è in più, ma è dare la possibilità di fare quello che si deve. Se io mi trovo in quella situazione drammatica di chi aveva contratto un mutuo molto grosso che non riesce più a pagare, per risolvere il problema devo trovare qualcuno che mi dia quella somma.

Il peccato viene presentato quindi nell’ottica della mancanza, dell’incapacità. Se riprendiamo l’immagine del vestito, dovremmo dire che il peccato, piuttosto che a una macchia, somiglia ad uno strappo e forse, ancora meglio, ad una consunzione del tessuto, per cui ad un certo momento diventa trasparente e poi il tessuto si lascia andare e si crea il buco, un buco grosso. A questo punto non si tratta semplicemente di togliere qualcosa perché il tessuto si è rovinato, non c’è più, c’è il vuoto e l’intervento è molto più difficile: non si tratta di smacchiare, si tratta di ricostruire, di aggiungere qualcosa, di riempire il vuoto, di rifare il tessuto.

La richiesta al Signore, al Padre nostro che è nei cieli, di rimettere i nostri peccati riguarda proprio questa opera di creazione dell’uomo nuovo già annunciata dai profeti (cfr. Ez 11,19; 36,25). Non è tanto un’operazione di pulizia quanto piuttosto un intervento di ri-creazione, di nuova creazione: è il con-dono o il per-dono inteso come “grande regalo”, “iper-dono”, è un “super- regalo” che supera il vuoto e il limite e costruisce quella capacità che io personalmente non ho.

Per approfondire questa tematica ci potrebbe essere di utilità rileggere l’episodio evangelico riportato in Lc 7,36-50: una donna peccatrice entra durante un banchetto in casa di un fariseo, bagna con le proprie lacrime i piedi di Gesù e poi li asciuga con i capelli. In quella scena il fariseo, di nome Simone, pensa fra sé: “Gesù non è un profeta; mi aveva dato una buona impressione, ma, in realtà, si lascia toccare da una donna del genere. Se fosse un profeta saprebbe che razza di donna è, e l’avrebbe mandata via”. Simone si trova a disagio, non si aspettava l’intrusione di questo personaggio che gli fa fare brutta figura, ma non osa mandarla via. Dovrebbe essere Gesù a mandarla via: il fatto che la lasci fare non è un segno positivo nei suoi confronti. E mentre sta rimuginando a queste cose, Gesù lo interpella dopo avergli raccontato la storia dei due debitori verso un unico debitore (vv. 41-42), che vedono condonato il loro debito, come se fosse proprio di attualità. Gesù, con l’arte del narratore tipica di chi narra parabole, pone la domanda che serve a provocare l’ascoltatore affinché sia proprio lui a dare la risposta, a formulare il giudizio senza sapere che si sta giudicando. La parabola serve a questo, a far emettere un giudizio disinteressato, perché quando uno è compromesso in un problema vede le cose dalla propria parte; quando invece ragiona in modo obiettivo, al di sopra delle parti, riesce a intuire più facilmente la verità. Simone infatti risponde chiaramente dicendo: “Penso che amerà di più colui a cui è stato perdonato di più”. E Gesù: “Hai detto bene. Vedi questa donna? Lei è la protagonista di questa parabola insieme con te, ma colei che ha amato di più è proprio lei non tu. Le sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato; colui invece a cui si perdona poco ama poco”.

Evidentemente con queste parole finali Gesù non ci incita a peccare per poi sperimentare la misericordia divina; piuttosto ci sta facendo notare che è determinante la coscienza del proprio peccato, del proprio vuoto, della propria incapacità. Quando, infatti, abbiamo il coraggio di guardarci bene dentro e di conoscerci sul serio, di fare un approfondimento della nostra psiche, delle nostre motivazioni profonde, se non rimaniamo in superficie ritenendo che siamo buoni come siamo, se riusciamo veramente ad esaminare il lato oscuro di noi stessi,  troviamo che ancora – insieme alla buona volontà alimentata anche dall’azione dello Spirito –  ci sono ancora atteggiamenti del nostro istinto, delle nostre inclinazioni che hanno una radice negativa; aspetti negativi che fanno parte proprio di noi e non riusciamo a superare. Vorremmo, ma non possiamo, perché sono più forti di noi. Questa è la realtà del peccato – o, meglio, quella “inclinazione al peccato che la tradizione chiama concupiscenza” (CCC 1426) – che non riusciamo ad estirpare e che continuiamo ogni giorno a lottare.

Nello stesso vangelo troviamo un altro episodio nel quale Gesù utilizza le parole “debitori” e  “debito” per parlare del peccato. È quello di Pietro in Mt 18,21-35, di cui abbiamo già parlato sopra (cfr. vv. 24.25.27,29.31.32).

Tutti i santi hanno preso coscienza di questa realtà profonda; consapevolezza che è aumentata tanto più si avvicinavano a Dio. Alla luce del sole divino hanno visto tutte questa realtà negativa, profonda, che solo Dio può vincere. Ecco perché – pensando in particolare a San Giovanni della Croce – è necessario l’intervento purificatore di Dio.

Allora, quando Gesù nella parabola parla dell’amore di colui al quale è stato condonato di più, sta anche parlando dello Spirito Santo come causa e fine del perdono: l’amore di Dio che ci condona il debito è la causa del perdono, e il fine del perdono è l’amore riconoscente del dono ricevuto. Ed è lo Spirito Santo, amore di Dio, a trasformare il nostro cuore. Quando chiediamo al Signore che rimetta i nostri debiti, quando facciamo nostra l’invocazione del salmista: “Crea in me, o Dio, un cuore puro” (Sal 50,12), implicitamente chiediamo lo Spirito Santo creatore, chiediamo che Lui, che ha creato i nostri cuori, li rinnovi con il suo Spirito. Spirito che scende su di noi nel sacramento della Riconciliazione.

A questo punto può emergere un’obiezione. I santi hanno sperimentato in altri momenti, al di fuori del sacramento, la purificazione divina che – utilizzando la terminologia di San Giovanni della Croce  – possiamo chiamare “notte dei sensi” e “notte dello spirito”. È vero. Ma è altrettanto vero che i sacramenti sono i canali di grazia ordinari che il Signore ha voluto. Accostarsi con fede al sacramento della Riconciliazione, come pure anche all’Eucarestia, non significa accogliere la possibilità di una ri-creazione da parte dello Spirito? O, se preferiamo – in collegamento con la beatitudine – una trasformazione in profondità del cuore[4].

Riguardo a ciò desidero citare alcuni testi significativi.

- Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia (2/12/1984) così scrive: “Il ricorso frequente al sacramento - a cui sono tenute alcune categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua celebrazione diventa per loro ‘l'occasione e lo stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello Spirito’ (Ordo Paenitentiae, 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtù terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse del peccato” (n. 32).

- Il Catechismo della Chiesa Cattolica raccomanda: “Sebbene non sia strettamente necessaria, la confessione delle colpe quotidiane (peccati veniali) è tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa. In effetti, la confessione regolare dei peccati veniali ci aiuta a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito” (CCC 1458).

- Infine nel Rito della Penitenza ritorna più volte il “cuore nuovo”: nella Parola di Dio (Ez 11,19-20: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro”) e nella 6 a preghiera del penitente prima dell’assoluzione che recita così: “Signore Gesù, che sanavi gli infermi e aprivi gli occhi ai ciechi, tu che assolvesti la donna peccatrice,  e confermasti Pietro nel tuo amore, perdona tutti i miei peccati, e crea in me un cuore nuovo, perché io possa vivere in perfetta unione con i fratelli e annunziare a tutti la salvezza”; ugualmente nella 8a formula il penitente dice: “Signore Gesù Cristo, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, riconciliami con il Padre nella grazia dello Spirito Santo; lavami nel tuo sangue da ogni peccato  e fa’ di me un uomo nuovo per la lode della tua gloria”.

Questa grazia terapeutica del sacramento della Riconciliazione, inoltre, è in rapporto anche con la frequenza con la quale ci accostiamo al sacramento. Ricordiamo che la confessione frequente è una pratica raccomandata dal Magistero della Chiesa. Così, ad esempio, nella Mystici Corporis di Pio XII (29.06.1943) si legge: “Noi ci teniamo a raccomandare vivamente questo pio uso, introdotto dalla Chiesa sotto l’impulso dello Spirito Santo, della confessione frequente, che aumenta la vera conoscenza di sé, favorisce l’umiltà cristiana, tende a sradicare le cattive abitudini, combatte la negligenza spirituale e la tiepidezza, purifica la coscienza, fortifica la volontà, si presta alla direzione spirituale, e, per l’effetto proprio del sacramento, aumenta la grazia”. Paolo VI nella Gaudete in domino (9 maggio 1975), così afferma: “Sulla scia della migliore tradizione spirituale, noi ricordiamo ai fedeli e ai loro pastori che l’accusa delle colpe gravi è necessaria, e che la confessione frequente è una sorgente privilegiata di santità, di pace e di gioia” (Gaudete in Domino, 9 maggio 1975).

Infine poche righe sopra abbiamo citato il n. 32 della Reconciliatio et paenitentia di Giovanni Paolo II dove si parla dei frutti del “ricorso frequente al sacramento”.

 

Riconciliati con la Chiesa, in comunione con i santi

 

Il perdono ci riconcilia con la Chiesa. Ricordiamo la bella immagine paolina del Corpo mistico: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo…Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (cfr 1Cor 10,12.17). Questa immagine di Chiesa è molto importante, perché ci ricorda che non ci salviamo da soli. Tutto il nostro cammino spirituale, per quanto esiga il nostro impegno, ha bisogno dei fratelli. Se il peccato incrina o infrange la comunione fraterna, il sacramento della Riconciliazione ristabilisce o rinsalda il nostro legame con quello dei santi, cioè dei battezzati (cfr. At 9,13.32.41; Rm 8,27; 1Cor 6,1) e, come insegna il CCC, «ristabilito o rinsaldato nella comunione dei santi, il peccatore viene fortificato dallo scambio dei beni spirituali tra tutte le membra vive del corpo di Cristo, siano esse ancora nella condizione di pellegrini o siano già nella patria celeste» (n. 1469; cfr. anche n. 947)[5].

Il CCC ci offre alcune indicazioni più concrete:

• “La comunione nella fede. La fede dei fedeli è la fede della Chiesa ricevuta dagli Apostoli, tesoro di vita che si accresce mentre viene condiviso” (n. 949).• “La comunione dei carismi. Nella comunione della Chiesa, lo Spirito Santo dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali per l'edificazione della Chiesa Ora «’a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune’ (1Cor12,7)” (n. 951).• “La comunione dei sacramenti. Il frutto di tutti i sacramenti appartiene così a tutti i fedeli, i quali per mezzo dei sacramenti stessi, come altrettante arterie misteriose, sono uniti e incorporati in Cristo” (952).• “La comunione della carità. Nella comunione dei santi ‘nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso’ (Rm14,7). ‘Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte’ (1Cor12,26-27). «‘La carità non cerca il proprio interesse’ (1Cor 13,5). Il più piccolo dei nostri atti compiuto nella carità ha ripercussioni benefiche per tutti, in forza di questa solidarietà con tutti gli uomini, vivi o morti, solidarietà che si fonda sulla comunione dei santi. Ogni peccato nuoce a questa comunione” (n. 953).

Questo è un dono meraviglioso. Papa Francesco ha definito la comunione dei santi “una verità tra le più consolanti della nostra fede, poiché ci ricorda che non siamo soli ma esiste una comunione di vita tra tutti coloro che appartengono a Cristo. Una comunione che nasce dalla fede…”[6]. Non posso quindi salvarmi da solo; ho bisogno dei fratelli e della grazia che Dio mi dona attraverso questa mediazione. Ecco perché è importante l’appartenenza alla Chiesa, al “corpo mistico di Cristo” al quale sono riammesso con il sacramento della Riconciliazione.

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[1] Cfr. A. Cencini, Vivere riconciliati. Aspetti psicologici, EDB, Bologna 1986, 69-77.

[2] In questa prospettiva possiamo capire il suggerimento della confessio laudis dell’allora Card. M. Martini, vissuta all’interno della Riconciliazione: “… propongo il colloquio penitenziale, cioè un dialogo fatto con il sacerdote, nel quale cerco di vivere il momento della riconciliazione in una maniera più ampia rispetto alla confessione breve che elenca semplicemente le mancanze; tale allargamento è previsto, fra l'altro, dal nuovo Ordo Poenitentiae. Si inizia il colloquio con la lettura di una pagina biblica, con un Salmo, così da porsi in un'atmosfera di verità davanti al Signore. Segue quindi un triplice momento: confessio laudis, confessio vitae, confessio fidei”. E così spiega la confessio laudis: “La confessio laudis risponde alla domanda: dall'ultima confessione, quali sono le cose per cui sento di dover maggiormente ringraziare Dio che mi è stato vicino? Iniziare con il ringraziamento e la lode mette la nostra vita nel giusto quadro ed è molto importante far emergere i doni che il Signore ci ha fatto” (13.02.2011).

[3] Il talento era l’unità di misura più grande del tempo. Esso equivaleva a 6.000 denari, cioè al salario di 6.000 giornate lavorative di allora (cfr. Mt 20,2: un denaro al giorno è la somma che il padrone della vigna dà agli operai chiamati a giornata).

[4] Nel Contributo della CEI alla VI assemblea del Sinodo dei vescovi (15/01/1984) al n. 33, che ha per titolo: “Per un approfondimento dottrinale”, si legge: “Una prima richiesta è rivolta a meglio evidenziare la dinamica trinitaria nel dono della riconciliazione. In particolare si osserva che occorre mettere più in luce la funzione dello Spirito nella remissione dei peccati, nella creazione del cuore nuovo e nella ricostruzione del rapporto con Dio e con i fratelli”. Poco più avanti nel medesimo documento si insiste anche sull’importanza della Parola di Dio, “forza di salvezza per la nascita del ‘cuore nuovo’” (n. 37).

[5] Cf. Lumen Gentium 48-50.

[6] Udienza generale del mercoledì (30.10.2013).

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