Myriam
Un amore che trabocca - L'amore in famiglia alla luce delle nozze di Cana (Gv 2,1-12)
Per capire il miracolo di Cana è opportuno ricordare che in questo episodio c’è come una inclusione, cioè uno stretto collegamento con il prologo (Gv 1,1-18). La inclusione è suggerita dalle due parole, presenti sia qui come nel prologo: archè e dòxa, «principio» e «gloria»; il segno operato a Cana è l’inizio, il principio dei segni operati da Gesù e lì egli rivela ai discepoli la sua gloria, permette loro di contemplarla.
C’è poi in questo racconto il tema dell’«ora», così importante nel quarto vangelo. Questo tema è sottolineato non solo dalle parole di Gesù alla madre («Non è ancora giunta la mia ora»), ma anche da quelle rivolte da Gesù ai servi («attingete ora»: nyn) e da quelle rivolte dal maestro di tavola a Gesù («tu hai conservato fino ad ora il vino buono»: hèos àrti).
A livello cronologico troviamo una espressione cronologica all’inizio: «il terzo giorno». In Gv 1,29.35.43 abbiamo per tre volte l’espressione «il giorno dopo». Quindi prima di questo evento sono passati quattro giorni. L’evangelista si è dato la pena di registrare con tanta cura la successione dei giorni per indicare che la festa delle nozze di Cana ha avuto luogo il sesto giorno a partire dall’incontro iniziale di Gesù con i suoi discepoli.
Ricordando che il vangelo secondo Giovanni inizia con le parole «In principio», come il libro della Genesi, viene spontaneo pensare al racconto della creazione del mondo che ebbe il suo culmine nel sesto giorno. Il sesto giorno Dio creò l’uomo maschio e femmina, li benedisse perché diventassero fecondi e riempissero la terra (Gen 1,27-28). La tradizione ebraica scorgeva in questo passo l’istituzione del matrimonio. A Cana hanno luogo proprio le nozze che fanno pensare a un nuovo matrimonio.
Questo sesto giorno, poi, è anche simbolo dell'alleanza. Secondo la tradizione giudaica, il dono della legge sul Sinai sarebbe avvenuto nel sesto giorno.
Inoltre in Es 19,10 si dice che il Signore il “terzo giorno” promette la manifestazione la sua gloria – che sarà descritta in 19,16ss – e che i figli di Israele crederanno “anche in te”, cioè in Mosè. E il racconto delle nozze di Cana inizia con l'indicazione del “terzo giorno” e termina dicendo che Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero a lui.
Si noti anche che nei Vangeli «il terzo giorno» è il giorno della risurrezione di Cristo. È il giorno nel quale Gesù ha manifestato in pienezza la sua gloria. Qui si compie ciò che a Cana ha avuto inizio.
Il matrimonio è avvenuto «il terzo giorno»: questa annotazione cronologica ci dice che qui c’è un anticipo della pasqua di Gesù. Qui egli inizia a manifestare la sua gloria, il suo amore per l’uomo. La gloria di Gesù è che l’uomo viva. E la gioia è il segno della presenza di Gesù. Chi lo accoglie vive nella gioia.
Una festa di matrimonio durava circa una settimana: la gente portava da mangiare e festeggiavano nella casa dello sposo/a. È facile pensare che Gesù, che abitava a Nazareth, a pochi chilometri da Cana, venga invitato, insieme con Maria, ad una festa di nozze. Tenendo conto che Cana e Nazareth erano al tempo dei paesini molto piccoli è facile che ci sia stata una certa conoscenza reciproca tra le persone.
Leggiamo ora attentamente il testo.
“Il terzo giorno ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù” (v. 1). Noi saremmo pronti a dire: c’era Maria; ma Giovanni non dice questo. Egli dice che c’era “la madre di Gesù”. È un’espressione che indica il valore simbolico di questa presenza. È la madre che ha la missione di avere questo Figlio (Gv 2,1.3.5.12). Maria sarà nominata quattro volte anche al Calvario, sempre con il suo titolo di madre di Gesù (Gv 19,25.26a.26b.27). In questo modo l’evangelista sottolinea ciò che di primordiale c’è fra Gesù e Maria: la maternità di Maria garantisce che Gesù, il Figlio di Dio, è uno di noi.
Allo stesso tempo questa maternità è chiamata a trasformarsi: divenire madre dei discepoli, madre della Chiesa: «donna, ecco tuo figlio»! Un passaggio necessario, qui anticipato nell’intervento di Maria in favore degli sposi.
Questo matrimonio avviene a Cana. Il verbo ebraico “cana” vuol dire “fondare, creare”; così Giovanni ci suggerisce che in Gesù che si manifesta in questo paesino abbiamo la “fondazione” sulla quale deve basarsi la nostra vita. Tra l'altro si noti l'apertura universalistica del segno che Gesù compie a Cana. La Galilea è infatti il distretto delle genti, per cui già qui è anticipata la destinazione a tutti popoli dell'opera di Gesù.
“Venuto a mancare il vino...” (v. 3). Il vino è l’elemento essenziale non solo della festa di nozze, ma simbolicamente lo è anche dell'alleanza (di cui la torah da osservare ne è il segno), del rapporto amoroso tra Dio e il suo popolo, della sua abbondante benedizione; viceversa, la mancanza di vino, causata dall’infedeltà di Israele, era considerata una sciagura (cfr Gl 2,19; Am 9; Is 25; Os 2). La mancanza di vino dice che non c'è più comunione con Dio. L’intervento della Madre è una intercessione di salvezza.
“non hanno vino”. La semplice constatazione di Maria è insieme richiesta e attesa. Si noti che Maria non dice: “Non hanno più vino” (come si legge nella traduzione CEI del 1974), ossia non chiede a Gesù che provveda al vino materiale che è venuto a mancare. Chiede il vino nuovo che solo il Messia, Gesù suo Figlio, può donare. Non c'è comunione con Dio. È questo vino nuovo – simbolo dell’Eucaristia, cioè del dono della vita di Gesù fino a versare il suo sangue per noi – che ristabilisce la comunione dell'umanità peccatrice con Dio. È questo il vino del quale si deve sentire la mancanza, anche se il vino normale scorresse in abbondanza.
La risposta di Gesù a sua Madre (“Che c’è tra me e te?”) non ha niente di irriverente. È una domanda. Troviamo tale espressione 6 volte nell'AT ebraico[1], una volta nell'AT dei Settanta[2], 5 volte nel NT[3], a prescindere dal nostro brano. Tale espressione mostra un rapporto tra il soggetto che parla e un altro soggetto indicato, che al momento subisce un cambiamento[4]. Sussiste tra Gesù e Maria un rapporto consolidato. Essa è la madre di Gesù nel senso della sua maternità fisica, quella di Betlehem, e nel senso di una maternità morale, quella realizzata e maturata a Nazareth. Ella è la persona che è stata più a lungo vicina a Gesù con l'attenzione attiva e desiderosa di comprendere: “conservava tutte queste parole elaborandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Questo rapporto di base subisce ora un cambiamento, subentra qualcosa di nuovo. Quale questa novità? La possiamo comprendere dai due indizi che, sommati insieme, porteranno a identificarla.
Il primo indizio è l'appellativo “donna” (ghyné) con il quale Gesù chiama sua madre. Gesù la chiamerà con questo appellativo ancora una volta, dall’alto della croce. Prima di morire Gesù affiderà la Chiesa, nella persona di Giovanni, alla ‘donna’, sua madre e viceversa (Gv 19,26). Maria è la ‘donna’ annunciata misteriosamente nella ‘donna’ di Gen 3,15 (il protovangelo). Dalla stirpe della donna verrà la salvezza. Il racconto giovanneo lega in questa maniera la ‘donna’ della promessa divina, con la ‘donna’ della croce. Maria è così collocata in modo inscindibile accanto all’opera redentrice del Figlio. Maria avrà la missione di una nuova maternità riguardante i nuovi fratelli di Gesù: dovrà fare crescere in loro i tratti tipici di Cristo. Ed è con questa missione che a partire proprio dall'ora di Gesù, “il discepolo la prese nella sua casa”.
Inoltre la “la donna” è anche figura collettiva dell'Israele credente, della Chiesa-Sposa (cfr. Ap 12,1-6) di cui Maria è il membro eccellente.
Il secondo indizio è dato dalle seguenti parole di Gesù: “Non è ancora giunta la mia ora”. Con il termine ‘ora’ l’evangelista Giovanni intende il momento drammatico della croce. A differenza degli altri evangelisti, Giovanni pone nell’ora della croce la manifestazione della gloria di Gesù, quando inizia ad essere innalzato verso il cielo. Nelle nozze di Cana, quindi, Gesù anticipa in qualche modo il momento manifestativo della sua gloria (cfr. v. 11: «manifestò la sua gloria»).
Con l’espressione “Non è ancora giunta la mia ora” Gesù si rivolge a Maria considerandola non più dal punto di vista dei legami familiari. La relazione familiare con Gesù è messa da parte. E di fatto Maria rinuncia a rivolgersi ancora a Gesù in forza del suo ruolo di madre, per divenire madre dei discepoli del Signore. Vocazione che, come detto, si rivelerà pienamente sotto la croce.
La frase “Fate quello che egli vi dirà”, che richiama la formula usata da Israele al Sinai (“Quello che il Signore ha detto noi lo faremo”), sottolinea la sovranità di Gesù: è a lui che il cristiano deve obbedire, allo stesso modo con cui lui obbedisce al Padre. È da notare che, in fin dei conti, Maria rivolgendosi ai servi si rifà alla sua stessa esperienza, quella dell’obbedienza alla Parola, invitandoli a fare altrettanto. L’aiuto che dà nasce anzitutto dall’esperienza che lei ha fatto per prima.
È da notare anche che queste sono le sue ultime parole in questo vangelo e, in quanto tali, suonano quasi come un testamento spirituale, acquistando il valore di lascito per ogni lettore futuro del vangelo e per ogni credente. Maria non ha un messaggio suo, ma rinvia sempre alle parole di Gesù, “l'unico mediatore tra Dio e gli uomini” (1Tm 2,5), rivelazione definitiva di Dio all'umanità.
La scena successiva ruota attorno alle idrie di pietra. Queste sono vuote. Probabilmente sono state utilizzate dai partecipanti della festa per la loro purificazione. A questa pratica rituale subentrerà poi la nuova, vera purificazione, proprio nella persona di Gesù. Non una purificazione esteriore, ma quella del cuore.
Si dice poi che sono in numero di 6. Sei come il sesto giorno. Perché tale numero? Evidentemente oltre ad essere il numero dell’uomo, lo è anche della quotidianità. E questo è importante perché i matrimoni si sfasciano non tanto per i momenti di festa – come invece sembra avvenire in questo racconto evangelico – ma per il vissuto quotidiano, fatto di routine e di abitudini.
Sotto questo aspetto troviamo in internet diversi suggerimenti da parte di psicologi e consulenti familiari per mantenere sana la relazione coniugale. Per esempio:
Mantenere una comunicazione e un confronto. Per conoscersi, per affrontare i momenti di difficoltà e i vari passaggi della vita è fondamentale saper esprimere i propri bisogni, le proprie idee, quello che ci piace e non ci piace, ricordando che il partner non può leggerci nella mente. Vivere la quotidianità nella speranza che l’altro capisca da solo di cosa ho bisogno, non farà altro che portarci a sperimentare un costante senso di frustrazione. È quindi bene comunicare esplicitamente cosa si desidera. Comunicare porta con sé che dall’altra parte ci sia ascolto, comprensione e disponibilità ad accogliere il punto di vista dell’altro, solo così potrà davvero esserci un confronto, uno scambio di idee e quindi una crescita del singolo e della coppia.
Condividere passioni ed esperienze. All’interno di una relazione è importante trascorrere momenti insieme fuori casa, creare occasioni per evadere dalla quotidianità, condividere interessi e hobby che permettano di divertirsi, passare del tempo insieme e aumentare la complicità di coppia.
Coltivare la propria indipendenza. Così come è importante dedicare del tempo per fare esperienze insieme, lo è altrettanto dedicare del tempo a sé stessi come individui, al di là della coppia. Stare insieme non significa dover trascorrere tutti i momenti liberi con il partner, al contrario è importante coltivare i propri interessi, le proprie amicizie e relazioni sociali, dedicare dei momenti soltanto a sé anche solo per guardarsi dentro, per mettersi in discussione e non dare all’altro la responsabilità della nostra felicità. Questo sarà utile per il proprio benessere personale e per il benessere della coppia.
Non dare per scontato il rapporto. Spesso la quotidianità e la routine portano a dare per scontato l’altro, vengono a mancare attenzioni e gesti di affetto che fanno sentire il partner considerato e valorizzato, soprattutto nel caso di una relazione stabile e duratura. È invece importante mantenere nel tempo quei gesti che dimostrano il proprio amore verso l’altro, perché l’amore è un sentimento che va alimentato e coltivato con impegno e pazienza.
Sostenersi a vicenda. È importante far sentire al partner la propria presenza e il proprio supporto nelle scelte e nei momenti importanti ma anche nella quotidianità. Questo non significa essere sempre d’accordo su tutto, ma saper esserci per l’altro nonostante le differenze individuali.
Avere dei progetti comuni. Portare avanti un progetto comune, pensarsi e vedersi nel futuro con l’altra persona, spinge entrambi verso la stessa direzione e permette di avere degli obiettivi comuni, di impegnarsi e investire energie in qualcosa in cui si crede, superando le eventuali difficoltà insieme.
Coltivare l’intimità di coppia. Non solo a livello sessuale e quindi da un punto di vista fisico, ma anche a livello emotivo, perché l’intimità è strettamente connessa al grado di condivisione, fiducia e confidenza verso l’altro[5].
A questi consigli potremmo aggiungere il perdono (che non sempre è indicato dagli psicologi).
Si tratta certamente di consigli saggi, umani, che non vanno scartati. Perché, in fondo, il vangelo ci dice che il vino – quindi la gioia di coppia – ci viene dato da Gesù. Ma noi – come i servi – dobbiamo versare dentro le giare – ecco il nostro impegno – l’acqua. Lo facciamo non per nostra iniziativa, ma perché motivati dalla sua parola. Ecco qui la grande differenza con una coppia non credente: per noi è importante lasciarci illuminare quotidianamente dalla parola di Gesù. Sia come singoli (momenti di preghiera), sia in certi momenti come coppia (ad esempio la domenica).
Si noti anche che il testo mette in risalto anche la capacità totale delle giare: ciascuna contiene due o tre barili, circa 100 litri, per un totale quindi di 600 litri.
Infine si noti che Giovanni precisa che le giare erano “di pietra”. Questo elemento fisico richiama le tavole della legge, come pure il cuore di pietra nella predicazione dei profeti. Questi avevano profetizzato che la nuova alleanza non sarà più su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del cuore. Le idrie sono quindi simbolo del cuore di pietra, dell'incapacità umana di incontrare Dio, anche attraverso tutti i riti, tutti i lavaggi di mani che non mettono in comunione con Dio. Difatti le idrie sono 6, numero che indica l'imperfezione, la non completezza, non riescono a raggiungere la finalità dell'autentica purificazione.
Gesù si rivolge ai servi e comanda: “Riempite d'acqua le giare” (v. 7). Gesù comanda di fare una cosa per nulla straordinaria. Gesù opera il miracolo quando si obbedisce a lui facendo bene quello che quotidianamente si è chiamati a fare. Ci chiede – come ha fatto Maria – di ascoltare, meditare e vivere la sua Parola. Come singoli e come coppia.
E i servi obbediscono, fino in fondo: “le riempirono fino all’orlo”. È l'immagine della pienezza, della totalità.
L’abbondanza di quest’acqua che si tramuterà in vino richiama la linea profetica che da Amos giunge fino a Geremia: si tratta del vino della gioia escatologica che è versato abbondante nelle coppe dei credenti (cfr. Am 9,13-14; Os 14,7; Ger 31,12). Nei testi apocrifi viene ripresa questa tradizione e ampliata a dismisura: ogni vite avrà cento rami; ogni ramo, mille grappoli; ogni grappolo, mille acini; ogni acino produrrà 460 litri di vino! (cfr. Ireneo).
Gesù dice loro di nuovo: “ora attingete…” (v. 8). L’acqua non si era trasformata ancora in vino… Perché obbedire a questo secondo comando se già l’obbedienza al primo non ha prodotto alcun evento straordinario che risolvesse il problema della mancanza di vino? E poi c’è il rischio della brutta figura davanti al padrone che, di fronte all’acqua da loro portata, come avrebbe reagito? L’obbedienza alla parola di Gesù si fa più difficile. Esige un’adesione incondizionata. Non dobbiamo – come famiglie cristiane – temere di essere diversi, di andare controcorrente.
“... e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono” (v. 8). Anche qui i servi obbediscono prontamente. Obbediscono alla parola.
Qui mi piace fare un’annotazione: nella misura nella quale impariamo ad ascoltare e ad obbedire alla Parola del Signore, noi stessi diventiamo capaci anche ad ascoltare l’altro e a cogliere in lui l’espressione della volontà di Dio. Il dialogo coniugale si fa così anche espressione di ciò che il Signore vuole dire alla coppia attraverso l’altro. L’ascolto della Parola di Dio favorisce anche la qualità della comunicazione coniugale; così si passa da una comunicazione riguardante prevalentemente un proposito immediato ed effimero (per esempio, che qualcuno mi compri un bene o concordi un servizio), dove l’interesse è incentrato in me, ad una comunicazione che riguarda il “noi” di coppia; si passa dalle esigenze immediate ad un interesse per la vita intima e definitiva della vita di coppia.
Trovo interessante che in un ambito ben diverso – quello della vita monastica – San Benedetto nella Regola, subito dopo aver parlato dell’importanza dell’ascolto della Parola di Dio, parla anche dell'ascolto degli altri. L'abate deve “ascoltare il consiglio dei fratelli e poi rifletterci per proprio conto” (RB 3,2). Benedetto richiede quindi che l'abate ascolti i suoi fratelli. E deve aspettarsi che Dio spesso “riveli al più giovane la soluzione migliore” (RB 3,3). Così Dio ci parla attraverso le persone. E quando un monaco straniero viene al monastero e ci critica in umiltà e amore, l'abate deve ascoltare attentamente e considerare con saggezza “se il Signore non lo abbia forse mandato proprio per questo motivo” (RB 61,4).
Tornando al nostro testo evangelico, si noti che per designare questi servitori il testo greco usa la parola “diaconi” e non “servi”. Sono quindi coloro che si prestano a collaborare all’opera di Gesù, sono i discepoli, la cui scelta di vita si qualifica con l’obbedienza nella fede. Tra questi naturalmente emerge Maria, che per prima ha compreso la nuova diakonia. Nel mistero dell’alleanza diventa la sposa del Signore, che nel banchetto messianico è il vero sposo. Non per nulla gli sposi non compaiono nella scena, e dove è citato lo sposo (v. 9) sappiamo che l’evangelista implicitamente parla di Gesù.
La terza scena è di rivelazione. Il capo-convito “non sapeva di dove venisse [il vino] (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua)” (v. 9). Sono proprio i servitori a possedere la “sapienza”, cioè la conoscenza che quel vino proviene dall’obbedienza alla parola di Gesù.
Qui il capo–tavola, immagine dei capi di Israele, dice allo sposo cioè a Gesù: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino” (v. 10)[6]. Con la presenza di Gesù l’alleanza con Dio è migliorata, in Lui che dona lo Spirito Santo è diventata il vino buono. Non per nulla l’evangelista Giovanni contempla in quel crocifisso lo Sposo che, dal costato trafitto, effonderà acqua e sangue – lo Spirito Santo e i sacramenti -. Ricordiamo come san Paolo ci dice che la legge dell’alleanza sinaitica ci dice cosa dobbiamo fare, ma non ci dà la forza per farlo.
“Hai conservato il vino buono. Il verbo conservare nel vangelo di Giovanni è sempre in relazione con il termine “parola”: “conservate le mie parole”. Nel capitolo 15, quando Giovanni presenta il discorso della vite, Gesù, che si paragona alla vera vite, dice: “Voi siete puri, purificati, per la parola che vi ho annunziato”. Questa frase detta in un contesto di vite, di grappoli, di uva vuol dire che il vino di Cana è anzitutto la parola di Gesù, che agisce con potenza con la forza dello Spirito Santo in chi l’ascolta e la mette in pratica…
Le considerazioni dell’evangelista sono preziosissime. Il ‘segno’ di Cana non è solo da considerarsi come il ‘primo’ dei segni a livello cronologico, ma anche il ‘principe’ (arché = inizio) o il prototipo dei segni. Gli altri ‘segni’ vanno letti alla luce di questa salvezza ‘abbondantissima’ e ‘migliore’.
Attraverso questo segno Gesù manifesta la sua gloria e “i suoi discepoli credettero in lui”. Il termine “credettero” è un aoristo ingressivo, che indica il primo passo di fede e di accettazione da parte dei discepoli di Gesù come Messia.
La conclusione del brano: “Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni” (v. 12). Ci aspetteremmo uno spostamento di Gesù a Nazareth, la sua città di origine. Invece Gesù – come leggiamo in Mt 9,1, aveva scelto Cafarnao come la “sua città”. E Gesù si reca in tale città non da solo: che con lui ci sia la madre, i sui fratelli e i discepoli è particolarmente significativo. Si ha infatti la prima cerchia di Gesù, il primo nucleo che ruota intorno a lui.
La posizione di Maria nella Chiesa non è quindi occasionale, né marginale. Se già nella dinamica del racconto di Cana si deve all'attenzione di Maria e al suo intervento la realizzazione del segno (il suo intervento offre a Gesù l'occasione di anticipare la sua ora), la madre Bethlehem e di Nazareth avrà una nuova maternità da svolgere nella Chiesa. Dovrà generare e far crescere i tratti di Cristo nei suoi nuovi fratelli.
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[1] Gdc 11,12; 2Sam 16,10; 19,23; 1Re 17,18, 2Re 3,13; 2Cron 35,21.
[2] 1Esd 1,26.
[3] Mt 8,29; Mc 1,24; 5,7; Lc 4,34; Lc 8,28.
[4] Quando il giudice Jefte apprende che è in atto un'invasione da parte del re degli ammoniti, realizza che il rapporto tranquillo di prima è cambiato e denuncia con forza questo cambiamento: «Che c'è tra me e te perché tu mi abbia mosso guerra e tu sia venuto a invadere la mia terra?» (Gdc 11,12). E quando, in un momento particolarmente drammatico, Davide è costretto a fuggire da Gerusalemme, sul monte degli ulivi un certo Semei lo insulta dicendogli che ha meritato la sciagura che subisce perché è stato un sanguinario. A questo punto i “figli di Zeruià” insorgono contro Semei, ma Davide li blocca: «Che c'è tra me e voi, figli di Zeruià? Se egli maledice e se il Signore gli dice: 'Maledici David', chi potrebbe dire: 'perché fai così?'”» (2Sam 16,10). Il rapporto usuale tra Davide re e questi suoi sudditi comportava una loro reazione di difesa nei riguardi del re. C'è però in questo rapporto qualcosa di nuovo: dato che è il Signore stesso che, tramite Semei, rimprovera Davide, quelle iniziative che in altri tempi sarebbero state normali e doverose, appaiono adesso fuori posto e rischiano addirittura di contrapporsi a Dio.
Quando in Mt 8,29 e paralleli (Mc 1,24; Lc 4,34) Gesù caccia i demoni, gli indemoniati esclamano: «che c'è tra noi e te, figlio di Dio? Sei venuto a tormentarci prima del tempo?». Il rapporto di Gesù il mondo del demoniaco è quello di un'antitesi completa che comporta a piena disattivazione dei demoni. La variazione che tale rapporto subisce, la novità che si fa sentire e disturba, è un anticipo nel tempo della sua esecuzione.
Le altre ricorrenze, analizzate minutamente, portano tutte allo stesso risultato.
[5] https://www.psicologiasana.it/terapia-di-coppia/e-vissero-felici-e-contenti-le-buone-abitudini-per-stare-bene-in-coppia/
[6] Questa affermazione del capo-convito però non va interpretata come regola generale, perché esistono alcune testimonianze che ci danno conferma dell’esatto contrario. La frase, comunque, intende mettere in risalto il vino particolarmente buono che viene offerto, secondo il maestro di tavola, nel momento più inaspettato, a sorpresa, al di là delle esigenze contingenti; la quantità e la qualità di vino elargita supera infatti di gran lunga la richiesta della circostanza.
Solennità di tutti i santi
In questa solennità di tutti i santi il Vangelo che la liturgia ci propone è quello delle beatitudini (Mt 5,1-12a). Questo è già profondamente significativo: ci fa infatti capire che la santità è legata alla gioia. Non si può essere santi senza provare la beatitudine di chi si è conformato a Gesù, il beato per eccellenza.
Mi piace ricordare - come ci ha detto papa Francesco nell'esortazione Gaudete et exultate - che la chiamata alla santità riguarda tutti, «che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche a te: "Siate santi, perché io sono santo" (Lv 11,44; 1 Pt 1,16). Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza: "Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste"» (n. 2). E lo ribadisce con forza: «Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali.
Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5,22-23).
Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza
che procede dall’amore del Signore, «come una sposa si adorna di gioielli" (Is 61,10)» (Gaudete, nn. 14-15).
Viene poi ribadito il legame tra santità e gioia. Scrive papa Francesco: «La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine» (Gaudete, n. 64). I santi hanno vissuto controcorrente rispetto allo stile di vita proposto dal mondo, cioè hanno vissuto secondo lo stile evangelico delle beatitudini. «... il mondo ci porta verso un altro stile di vita. Le Beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio» (Gaudete, n. 65).
L'atteggiamento fondamentale di tutte le beatitudini - di chi è mite, pacifico, di sa piangere con chi soffre, di chi opera la giustizia, di chi rimane saldo a Cristo anche nella persecuzione - è la povertà di spirito, come ci viene indicato nella prima beatitudine. Di chi ha fatto di Cristo la vera ricchezza, davanti al quale le altre ricchezze sono un nulla. «Il Vangelo ci invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la sicurezza della nostra vita. Normalmente il ricco si sente sicuro con le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso della sua vita sulla terra si sgretola. Gesù stesso ce
l’ha detto nella parabola del ricco stolto, parlando di quell’uomo sicuro di sé che, come uno sciocco, non pensava che poteva morire quello stesso giorno (cfr Lc 12,16-21).
Le ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si priva dei beni più grandi. Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità.
Essere poveri nel cuore, questo è santità» (Gaudete, n. 67-70). Allora chi è povero nel cuore non si lamenta delle fatiche, continua a costruire la pace, si impegna nel dialogo, nel gettare ponti, è vicino a chi soffre, sa dare parole di conforto, si impegna a promuovere un mondo più giusto, non si lamenta nemmeno nelle persecuzioni... pur di rimanere unito a Cristo, la sua unica ricchezza.
La bellezza di Maria, la «serva del Signore»
La bellezza di Maria secondo la Sacra Scrittura
I Vangeli non ci indicano nulla sulla bellezza della Madre di Gesù Cristo, oltre alla sua totale grande umiltà e alla sua totale purezza verginale, che sono bellezze morali e spirituali. Sulla sua bellezza fisica, a priori, nulla...
La bellezza di Maria consiste in primo luogo nello splendore assoluto che proviene dalla pienezza della grazia in Lei, pienezza che lo stesso Arcangelo Gabriele ha salutato e che esprime in maniera così mirabile San Louis-Marie Grignion de Monfort, con queste parole: «Dio, il Padre, ha fatto un insieme di tutte le acque, che ha chiamato mare; ha fatto un insieme di tutte le sue grazie, che ha chiamato Maria»... Una pienezza di grazia che la rende “più bella di tutte le signore che conosco”, affermava Bernadette Soubirous, nel 1854, al Commissario Jacquomet, similmente a tutti coloro che hanno avuto il privilegio inaudito di vedere “la Bella Signora” (cfr. le veggenti di La Salette)...
Ma oltre al dono della pienezza di grazia, la bellezza di Maria è considerare anche come risposta a tale dono, alla sua docilità alla grazia, per mezzo della quale si è lasciata configurare a Cristo, divenendo così l’«opera d’arte» di Dio. L’essenza di Maria è come un materiale malleabile a disposizione dell’agire divino; «si deve vedere nella vita di Maria il prototipo di ciò che l’Ars Dei può fare d’una argilla umana che non vi si oppone»[1]. Von Balthasar sottolinea l’esteticità della figura di Maria; anche sul piano naturale «l’immagine di Maria è inattaccabile; per gli stessi increduli ha il valore di una bellezza intangibile, anche quando la si comprende non come un’immagine di fede, ma solo come un simbolo augusto e di una portata semplicemente umana»[2].
Per papa Benedetto XVI, che spesso ha invitato i cristiani a parlare di Bellezza e a percorrere la Via pulchritudinis, Maria è la Stella splendente di luce e di bellezza, che annuncia e anticipa il nostro futuro, la condizione definitiva a cui Dio, Padre ricco di misericordia, ci chiama. «I Padri e i Dottori della Chiesa, facendosi eco anche del comune sentire dei fedeli e riflettendo su ciò che la liturgia celebrava, hanno proclamato il singolare privilegio di Maria e hanno illustrato la sua luminosa bellezza»[3].
Molto significativa è anche la via suggerita da Paolo VI: «Accessibile a tutti, anche alle anime più semplici, è la via della Bellezza che ci induce alla dottrina misteriosa, meravigliosa, stupenda della Vergine di Nazareth. Maria è la creatura tota pulchra, è lo speculum sine macula, è l’ideale supremo di perfezione che in ogni tempo gli artisti hanno cercato di riprodurre nelle loro opere; è la Donna vestita di sole (Ap 12,1), nella quale i raggi purissimi della bellezza umana si incontrano con quelli sovrani, ma accessibili, della bellezza soprannaturale»[4].
La bellezza di Maria – che la tradizione cristiana acclama come tota pulchra – tutta Bella (Ct 4,7) – coincide con la sua piena santità, mentre il simbolo dello specchio si riferisce a Sap 7,26, ove si afferma che la Sapienza è «uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e immagine della sua bontà». Chiaro il riferimento alla immacolatezza della Vergine, che le permette di riflettere sul mondo la luce della Sapienza Incarnata, in tutta la sua Bellezza. Anche San Giovanni apostolo nella «Donna vestita di Sole» dell’Apocalisse fa ricorso ad un simbolo cosmico di bellezza: un richiamo a Maria aurora della redenzione.
Per Agostino d’Ippona la Madre di Dio è la Donna che ridà «dignità alla terra» (dignitas terrae)[5]. Questo attributo di Maria può essere tradotto in vari modi: vanto della terra, fiore della terra, splendore della terra, profumo della terra o, letteralmente, «dignità della terra». Maria è la gloria, il vanto di tutta la terra, perché Madre di Dio, perché Madre Vergine, perché immune da ogni peccato, perché nuova Eva[6]. Ed in particolare è Madre della Bellezza, «di quella bellezza che è splendore della Bontà e della Verità. Perciò Maria è bella: è bella allorché con cuore umile (bonitas) e con parola vera (veritas) accoglie la volontà di Dio e si lascia possedere dallo Spirito di pace»[7].
Maria rivela il mistero della «cooperazione» della creatura con Dio: «ecce ancilla Domini» (Lc 1,38); l’obbedienza implica l’attenzione costante e l’impegno di tutte le forze morali: «questa attesa vigilante, questa disponibilità attiva è la creta umida, nella quale soltanto può imprimersi la figura di Cristo»[8].
Sia in Agostino d’Ippona che in tutti i Padri della Chiesa con l’incarnazione del Verbo in Maria tutta la terra viene inondata di bellezza, poiché il Figlio di Dio «nacque da Spirito Santo e da Maria Vergine»[9]. «Una sorgente (...) sgorgava dal suolo e irrigava tutta la faccia della terra»[10]; Agostino vede nella fonte lo Spirito Santo. Da notare che il Vescovo Agostino usa il verbo irrigare, che significa non solo bagnare il terreno, ma bagnare in pienezza, per ricordare il dono dello Spirito all’umanità, che ha irrigato in modo particolare il terreno accogliente del cuore di Maria.
L’annunciazione dell’angelo a Maria
Sin dall’antichità l’annunciazione di Maria Vergine venne chiamata «festa della Radice» poiché, come dice il profeta Isaia, «un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1). Maria credette alle parole dell’angelo e quel che credette si avverò. Maria «piena di fede ha concepito Cristo prima nel cuore che nel suo corpo»[11]; questo significa prima di tutto che la maternità divina è preparata dalla fede di Maria e si compie in virtù di un consenso che è atto di fede. In questo atto di fede, di ubbidienza alla volontà di Dio e di umiltà della Vergine, i cristiani di tutto il mondo possono contemplare in lei una grande Bellezza, quella che precede di gran lunga tutte le altre creature celesti e terrestri.
Soffermiamoci ora proprio ad approfondire questo atto di fede di Maria. In risposta all’annuncio dell’angelo Maria risponde con una domanda di chiarimento - «come avverrà questo?» (Lc 1,34) - sul modo in cui ella avrebbe potuto collaborare alla realizzazione della volontà divina appena manifestatale da Gabriele. Per cui in Maria non c’è alcun dubbio sulla veridicità delle parole dell’angelo. Noi diamo spesso per scontato che nell’annunciazione ci sia stata un’evidenza della manifestazione angelica di fronte alla quale è impossibile dubitare che si tratti di una manifestazione divina, per cui è inevitabile non accogliere le parole dell’angelo come parole che manifestano la volontà divina. Ma non è proprio così. Infatti nel vangelo di legge: «Entrando da (presso) di lei” (v. 28). A differenza di ciò che avviene a Zaccaria nel tempio l'evangelista non dice che si ha l'apparizione dell'angelo (“gli apparve un angelo...”: 1,11), ma che egli “entrò”. Entrò dove? Forse volutamente Luca evita di precisare “in casa sua” per alludere alla possibilità di una manifestazione divina nel cuore di Maria. Dunque un’esperienza spirituale nell’interiorità di Maria, più che una manifestazione esteriore ed evidente. Il che accentuerebbe la capacità di discernimento di Maria; un «sì» pieno, totale, ad una volontà divina che si manifesta nell’interiorità e che la Vergine, docile allo Spirito Santo, sa cogliere pienamente.
Inoltre Maria non dubita dell’azione “impossibile” di Dio, cioè che una vergine generi! E, per aggiunta, che Dio non avrebbe dissolto la sua verginità (cfr. Lc 1,34), ma avrebbe realizzato il suo progetto storico-salvifico proprio attraverso di essa. Giustamente sant’Agostino vede nella verginità di Maria il segno della fede totalizzante della Vergine.
Maria chiama se stessa “serva” perché è totalmente disposta ad obbedire alla parola impossibile di Dio, lascia spazio a Lui, non fa nulla da sé se non offrirgli la propria disponibilità, permettere che Egli agisca in lei. E in lei la Parola agisce talmente da vivere, crescere ed essere donata a tutti gli uomini.
«Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19)
Maria non solo è stata docile allo Spirito nell’accogliere la volontà divina manifesta, ma è stata anche docile, nell’oscurità della fede, ad accogliere gli eventi nella sua vita – anche quelli che sembravano contraddire le promesse dell’angelo riguardo a Cristo: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre»: Lc 1,31-32 – meditandoli nel suo cuore. La sua fede non vacillava nella certezza che il Signore è fedele, che Egli opera per vie che non sono le vie degli uomini. Così con questa fede meditativa Maria ha dovuto sostenere “lo scandalo della mangiatoia”, la fuga in Egitto, la perdita e il ritrovamento di Gesù nel tempio, i trent’anni di vita nascosta di Gesù nei quali nulla di appariscente sembrava accadere, l’inizio della sua missione pubblica che lo porterà presto alle prime opposizioni, conflittualità che lo porterà alla croce sotto la quale Maria sta come “donna-sposa” unita allo Sposo in contemplazione e totale offerta della sua vita al Padre per la redenzione dell’umanità.
Nel Vangelo di Luca troviamo un altro passo nel quale si parla dell’importanza di saper custodire nel cuore, è il passo finale della spiegazione della parabola del seme. Gesù conclude la sua spiegazione dicendo che il seme caduto «sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza» (Lc 8,15).
Il cuore di Maria è per noi il modello di come, nella fede, va accolta e custodita la Parola.
Maria è rimasta capace di riesprimere in tutta la sua vita quell’«eccomi sono la serva del Signore».
Secondo Fil 2,6, la decisione di Gesù Cristo di assumere la forma esistenziale del «servo» del Signore ha comportato per lui di non considerare come possesso degno di essere stimato e gelosamente salvaguardato (harpagmòn) la propria condizione divina. E la lettera agli Ebrei precisa che l’intenzione fondamentale di Gesù Cristo, al momento del suo ingresso nel mondo (cfr. 10,5), era di «fare la volontà del Padre» (vv. 7.9). Si può dunque osservare che all’«Ecco, io vengo a fare la tua volontà», che fin dall’Incarnazione anima tutta la vicenda terrena di Cristo, «servo del Signore» (Eb 10,9), in sintonia abbiamo l’«Avvenga per me secondo la tua parola» (cfr. Lc 1,38) che sintetizza – almeno dall’annunciazione in poi - l’intera vita della serva del Signore.
Maria sotto la croce: la «serva» configurata al «Servo»
Ed è in questa prospettiva, cioè nell’«Eccomi» di Maria, che vogliamo ora contemplarla sotto la croce come colei che in tutto è associata – senza alcuna lamentela, anzi con totale adesione di fede – all’opera del Figlio, del «servo del Signore».
Gesù vede accanto a sé la Madre e quel discepolo che mediante la sua presenza gli dice la sua fedeltà. E perciò dà compimento a una sua parola: «Non vi lascerò orfani» (14,18), ben sapendo che sono orfani non solo se egli manca loro, ma anche se sono privi di una madre. Per questo si rivolge alla Madre e le dice: «Donna, ecco tuo figlio». Il primo atto di Gesù è quello di affidare i propri discepoli alla Madre che, qui come a Cana, vede nella sua funzione di donna. Maria ai piedi della croce con-soffre con il Figlio ed è al compiersi dell’ora del Figlio suo che essa diventa Madre del nuovo popolo di Dio, della Chiesa di Dio. In essa si realizza quanto disse Isaia: «Nasce forse un paese in un giorno?... Eppure Sion, appena sentiti i dolori, ha partorito i figli» (66,8).
Sotto la croce contempliamo la bellezza trasfigurata di una Madre sofferente che genera i suoi figli in unione perfetta con lo Sposo che dà la vita. L’ora di Gesù è anche l’ora della Madre. Quell’ora di cui l’evangelista Giovanni ci ha parlato nell’episodio di Cana è dunque giunta per entrambi. Accanto a Maria c’era «il discepolo che Gesù amava», il discepolo che ha potuto vivere la sua più nera giornata non nella solitudine mortale, ma sorretto dalla fede di «colei che ha creduto» (Lc 1,45) e continuava a credere. Anche dopo la morte di Gesù. Benché fosse stata trapassata dalla spada che trafigge l’anima (cfr.Lc 2,35), continuava a credere che, pur deposto il corpo di suo figlio nel sepolcro, il Maestro è il Signore della vita.
La bellezza di Maria nella gloria
Nel libro dell’Apocalisse troviamo la figura della donna vestita di sole, figura – in quanto sposa legata a Dio dal vincolo nuziale (l’alleanza) e madre che genera figli – del nuovo popolo di Dio, dei salvati, ma anche di Maria, membro eccellente della Chiesa ora nella gloria.
È «vestita». Attraverso tutta l’Apocalisse si snoda la tematica del vestito della sposa. Esso è tessuto dalla fidanzata nella stagione del tempo – nel tempo della sia configurazione come serva al Servo - ed è indossato dalla sposa nel giorno delle nozze dell’Agnello. Tali nozze sono iniziate con l’Agnello intronizzato dal Padre e Maria assunta nella gloria.
È «vestita di sole». Dio l’ha rivestita di sole, o forse meglio: «avvolta della luce del sole»[12]. Il significato di questa affermazione è duplice:
a) il sole rappresenta il vertice della creazione del cosmo nell’ambito delle cose, rappresenta perciò un punto alto nell’attività creatrice di Dio. «Vestita di sole» significa che Dio l’ha rivestita con i migliori doni della nuova creazione. La donna risplende di luce, con il volto del «simile a Figlio d'uomo» (1,16), e partecipa anticipatamente del fulgore che illuminerà la città santa del mondo nuovo (cfr. 21,23; 22,5).
b) inoltre nell’Antico Testamento, in modo particolare nei salmi, il sole come massimo astro, come sorgente di luce e di vita, è l’immagine di Dio stesso. Non è casuale che anche Gesù abbia insegnato che il Padre celeste «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,45). Inoltre, nel segno celeste della trasfigurazione di Cristo, il suo volto «brillò come il sole» (Mt 17,2). Allo stesso modo il profeta dell’Apocalisse dichiara di aver contemplato il volto del Risorto sfolgorante «come il sole quando splende in tutta la sua forza» (Ap 1,16). Maria dunque è rivestita della gloria di Cristo risorto. Ed è figura del popolo vestito di Dio, ammantato della gloria di Dio, come se Dio lo vestisse di se stesso dopo averlo configurato a Cristo.
Ha la «luna sotto i suoi piedi». Gli antichi calendari erano tutti lunari. La luna era l’astro che misurava il trascorrere del tempo. Un famoso testo del Siracide collega con la luna il calendario delle feste e il nome dei mesi (cfr. Sir 43,6-8). Il fatto che la luna sia “sotto i suoi piedi” [in greco il termine indica “sotto, rimanendo in contatto” quindi i piedi poggiano sulla luna] significa che la donna – popolo è in contatto con il tempo ma allo stesso tempo lo trascende; è in contatto con la storia, ma non è riducibile, racchiudibile in essa. E siccome il tempo è il luogo del tracciato dell’alleanza tra Dio e l’uomo ciò significa che questa donna, rimanendo in contatto con il tempo e con la storia, è segno della realizzazione vertiginosa dell’alleanza, quale il tempo non ha mai visto e quale nella storia non si è mai data.
Ma non solo. Infatti se la luna segna i mesi e le stagioni, e con ciò determina la fecondità e la vita ad ogni soglia, allora la Donna che si erge sulla luna è signora – pur subordinata al Signore – del volgere dei mesi e degli anni, degli eventi e della storia. Partecipa cioè – come donna - alla stessa signoria del Signore, che conduce la storia verso la meta.
«Sul capo una corona di dodici stelle». È la corona (stefanos) della vittoria. Questa donna vittoriosa è in stretta relazione con il popolo di Dio, che sarà un popolo vittorioso.
«Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto». Il suo parto è prossimo perché già grida. Urla nel partorire Colui che ha dentro, il Figlio che poco dopo Giovanni presenterà come nato. Abbiamo qui l’immagine di Maria – e della Chiesa – che non può esimersi da tale travagliato parto affinché Cristo nasca nel mondo e sia generato nei credenti. Anche San Paolo usa l’immagine del parto nella lettera ai Galati: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco (ōdínō) nel dolore, finché non sia formato Cristo in voi!» (Gal 4,19). Anche nella gloria Maria non può non intercedere per i credenti che vivono nella storia, non può non esercitare la sua funzione materna perché in essi maturi la conformazione a Cristo, la forma di Cristo.
La bellezza di Maria secondo alcuni veggenti
Numerosi veggenti si sono espressi sulla bellezza di Maria. Prenderemo qui in considerazione solo alcune apparizioni spesso tacitamente approvate – se non addirittura favorite – dalla Chiesa.
San Giacomo il Maggiore, Apostolo
Il 20 gennaio del 41 d.C. a Giacomo il Maggiore apparve Maria troneggiante su un pilastro (pilar) d’alabastro. Era stato Gesù stesso a chiedere a Colei che l’ha generato di intervenire sul corso del fiume Ebro, a Caesaraugusta (l’odierna Saragozza) in Spagna[13], per confortare l’Apostolo. Infatti Giacomo era incupito dai deludenti frutti della sua predicazione in terra iberica; sembra che fosse riuscito a convertire solo sette persone con le quali ogni sera pregava. La Vergine Maria le viene in soccorso, bella, anzi tôb me’od (= bellissima), materna, solenne, incoraggiante, radiosa, serena.
Proprio in quel luogo verrà elevato un grandioso tempio le cui fondamenta risalgono all’Apostolo stesso che – superato ormai ogni abbattimento interiore – costruirà la prima edicola al mondo a suo perpetuo ricordo e ringraziamento.
Si noti che in questa apparizione abbiamo di fatto un caso di bilocazione (la prima?). Infatti la vergine Maria era ancora viva a Gerusalemme o a Efeso e, secondo la veggente Maria de Agreda aveva «cinquantaquattro anni, tre mesi e venticinque ore»[14].
Alberico, cofondatore di Cîteaux
Sant’Alberico (? – 1108) il 21 marzo 1098, nel fitto di una foresta della celebre abbazia borgognona dove ebbe origine l’Ordine Cistercense, venne gratificato ripetutamente dalla visione della bellissima e fulgidissima Nostra Signora di Cîteaux. Da lei ebbe la promessa che lo avrebbe in ogni tempo e in ogni modo assistito e l’assicurazione che l’afflusso di nuove vocazioni si sarebbe intensificato esponenzialmente. Alberico, dopo un’estasi, in suo onore volle modificare la tonaca dei confratelli: non più nera, ma candida (cioè del colore “della gioia e della letizia”).
Ermanno Giuseppe
Ermanno Giuseppe di Colonia (1160-1241), innamoratissimo fin da fanciullo della Madonna, le si rivolgeva sempre chiamandola Rosa. Un giorno con l’innocente spontaneità tipica dei bimbi, regalò una mela alla statua di Maria, che animatasi, sorridente e grata, l’accettò immediatamente. Divenuto sacerdote tra i Canonici Regolari Premostratensi, nel 1190, durante una notte in cui pregava con fervore in chiesa, la Santa Vergine, insieme ad altre due meravigliose creature angeliche, gli apparve d’improvviso cogliendolo di sorpresa. La Regina era di un’inenarrabile bellezza; pure il suo vestito era di uno splendore e di una foggia d’insuperabile eleganza, rifulgente di colori variegati. L’angelo prese la mano destra di Ermanno e la pose in quella della Santissima dicendogli: «ti consegno questa Vergine come sposa, e tu perciò ti chiamerai Giuseppe».
Alano de la Roche, domenicano
Ad Alano de la Roche a Parigi nel 1465, mentre in una chiesa domenicana stava recitando il Rosario piuttosto freddamente e meccanicamente, Nostra Signora gli apparve all’improvviso accompagnata da un corteo di vergini. Egli rimase sconvolto dalla bellezza della Madonna: «la sua bellezza sembrava raggiungere i confini del possibile… La sua presenza spandeva un profumo così inebriante, la soavità esalava da tutta la sua persona e c’era nell’accento della sua voce e nelle sue parole un tale fascino che nulla al mondo può renderne l’idea precisa».
Altre apparizioni mariane
La Vergine Maria si manifestò nella sua bellezza anche in diverse altre apparizioni. Ne ricordiamo alcune:
- a Saint-Étienne-le-Laus dove apparve dal 1664 al 1718 alla pastorella Benoîte Rencurel ed era molto bella, bella da svenire;
- a La Salette nel 1846 dove apparve ai due pastorelli Mélanie e Maximin come una “bella signora” avvolta da una luce luminosa, seduta in lacrime con il volto tra le mani;
- a Lourdes nel 1958 Bernardette vide nella nicchia della grotta «una piccola signorina, giovane e alta quanto me. Aveva una tunica bianca, un lungo velo anch’esso bianco sul capo, una cintura azzurra e una rosa gialla sui piedi nudi. Era di colore giallo pure la corona del rosario che teneva in mano (…) mi sorrideva con aria dolce e buona». Il 16 luglio segna il termine delle apparizioni. Verso sera Bernardette non è circondata dalla solita folla. L’accompagna solo una zia. Le due coetanee si sorridono dolcemente a vicenda. Bernardette rivela alla giovane parente: «Mai l’avevo vista così bella!». A suor Eléonore Cassagnes confida: «così bella che quando la si è vista una volta, si ha fretta di morire per rivederla».
- a Pontmain nel 1871 apparve a quattro bambini, che la descrissero come una donna vestita di blu, tempestata di stelle e con un velo nero;
- a Fatima. Se nell’Apocalisse il “segno grandioso” che appare nell’immensità celeste consiste nella «donna vestita di sole» (Ap 12,1), a Fatima Maria supera la raffigurazione dell’ultimo libro della Bibbia perché il suo personale splendore sorpassa quello dell’astro celeste. Infatti – come ce la descrive Lucia, Maria «emanava luce più chiara e intensa di quella di un cristallo pieno di limpida acqua, attraversata dai raggi più ardenti del sole». E nell’ultima apparizione del 13 ottobre 1917 la Madonna, accomiatandosi dai pastorelli, «apre le mani, le converge ai raggi del sole, e, mentre si solleva, la sua non lascia di proiettarsi sul disco luminoso». Era dunque «più splendente» dell’incandescente del sole! Bellezza che stride spaventosamente con la visione mostruosa dell’inferno del 13 luglio, visione così paurosa che costringe Lucia a emettere un gemino, un «ahi!». Per la salvezza degli uomini Dio ha deciso di instaurare la devozione al Purissimo Cuore di Maria.
- a Banneux, uno sperduto villaggio del Belgio, nel 1933 la Vergine appare ben otto volte ad una bambina, Mariette Beco, che così la descrive nella prima apparizione: «Una bella Signora, un po’ china verso sinistra, un lungo abito bianco con uno scialle azzurro e sul capo portava un velo bianco trasparente, le mani giunte, un grande alone luminoso intorno a Lei, vestito bianco, cintura azzurra…». La Vergine si definì “Vergine dei poveri” e indicò una sorgente d’acqua come fonte di guarigione e sollievo per i malati. Chiese la costruzione di una piccola cappella.
- Il primo novembre 1937, festa liturgica di Tutti i Santi, nel paese di Heede (Bassa Sassonia, Germania), al confine con l’Olanda, in un villaggio senza vicende storicamente tramandabili, la Vergine Maria appare a quattro bambine che stavano uscendo dalla chiesa parrocchiale: la dodicenne Maria Ganseforth e la sorella Grete, undicenne; Anna Shulte di dodici anni e Susi Bruns di tredici. La Vergine, di una bellezza sconvolgente, tiene in braccio un Bimbo-tutto-sorriso. La stupenda Signora ritornerà, a mani giunte, completamente assorta in preghiera, il 2 novembre; il 5 novembre (terza apparizione) si ripresenta elevata su una nuvoletta bianco-azzurra, incorniciata da un alone luminescente di forma ovale. Il 9 novembre (quarta apparizione) la Regina è particolarmente mesta, ma luminosissima. La Madonna continuerà ad apparire alle bambine per circa cento volte, fino al 3 novembre 1940, quando Ella benedice le sue “care bambine”, esortandole a conservarsi «buone e fedeli a Dio», nonché a pregare sovente e con piacere il S. Rosario.
- Ad Asterdam il 13 ottobre – giorno dell’ultima apparizione a Fatima – ad una preadolescente di nome Ida Peederman la Vergine appare. In quel giorno – e per i seguenti altri due sabati – la fanciulla vede una Signora d’una bellezza indescrivibile immersa in uno sfavillio luminoso ineffabile. Nostra Signora non parla, ma sorride.
Nel giorno dell’Annunciazione del 1945 (25 marzo), dopo tanti anni, Nostra Signora ritorna a trovarla. Le visite e i relativi messaggi in tutto saranno cinquantasei. Dureranno fino al 31 maggio 1959. Quando Ida le chiede il nome, si sente rispondere: la «Signora di tutti i popoli». E chiede che la Chiesa proclami un nuovo dogma: Madre Corredentrice, Mediatrice e Avvocata.
- A Medjugorie - in attesa di un giudizio della Chiesa – la Vergine sarebbe apparsa come “una meravigliosa ragazza”… che è bella perché ama.
IN SINTESI, la bellezza di Maria che si manifesta in tutte queste apparizioni ai veggenti ci rimanda a quella glorificazione unica e raggiante – superiore a quella di tutti i beati – di cui la Vergine a gode in cielo quale momento conclusivo del suo cammino terreno di conformazione come serva al Servo, progredendo di gloria in gloria (cfr. 2Cor 3,18), verso cioè un maggiore splendore o una maggiore perfezione.
Abbiamo già visto che anche nella vita terrena Maria era interiormente bella perché si è dedicata in modo completo al Figlio di Dio in docilità all’azione dello Spirito Santo che ha continuato ad agire in lei, configurando tutta se stessa alla bellezza crocifiggente di Cristo – una bellezza direi “oscura” – e consentendole di pregustare già, con la sua risurrezione, la bellezza glorificante accanto al Figlio risorto.
Ora in cielo la sua bellezza e la sua gloria sono fonte di luce, consolazione e speranza per noi fedeli che siamo ancora in cammino verso Dio. È annuncio di una bellezza che ci attende verso la quale, «di gloria in gloria… trasformati dallo Spirito» (2Cor 3,1-18) tendiamo di giorno in giorno camminando – con la sua materna intercessione – nella via dell’amore.
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[1] S. De Fiores, Maria, Centro di Cultura Mariana, Roma 1991, p. 359.
[2] Cf H. Urs Von Balthasar, La gloire et la croix. Les aspects esthétiques de la revelation, I: Apparition, Paris – Aubier 1965, p. 474-475.
[3] Cf Benedetto XVI, XV seduta pubblica delle Pontefice Accademie, (Roma 16 dicembre 2010).
[4] Cf Paolo VI, Allocuzione ai rappresentanti al VII congresso mariologico internazionale, Libreria Vaticana, Roma 16.05.1975.
[5] Cf De Gen. c. Man. 2,24,37: PL 34,216, NBA IX/1, 170.
[6] Cf Sant’Agostino, Maria, Dignitas Terrae, Vol. 12, a cura di O. Campagna, Città Nuova, Roma 1995, p. 31.
[7] Cf A. Gouhier, L’approche de Marie selon la Via pulchritudinis et la Via veritatis, in «Études mariales» 32-33, (1975), p. 70-80.
[8] Cf H. Urs Von Balthasar, La gloire et la croix. Les aspects esthétiques de la revelation, I: Apparition, Paris – Aubier 1965, p. 477
[9] Cf Serm. 214,6: PL 38,1069, NBA XXXII/1 (184-229), 227.
[10] Cf De Gen. c. Man. 2,24,37: PL 34,216, NBA IX/1, 171.
[11] Cf Agostino, Serm. 215,4: PL 38,1074, NBA XXXII/1 (184-229), 241.
[12] Il verbo periballomai significa «indosso / mi vesto di», ma la luce più che vestito è alone luminoso, e una traduzione migliore potrebbe essere: «circonfusa / avvolta (della luce) del sole».
[13] La permanenza non leggendaria dell’Apostolo Maggiore in terra iberica è confermata dalle visioni della Beata Anna Katharina Emmerick (1774-1824).
[14] R. Laurentin, F.M. Deboise, Indagine su Maria. Le rivelazioni dei mistici sulla vita della Madonna, Mondadori, Milano 2011, p. 150.