I passi nel cuore - 1. dall'avarizia al dono

Beati i poveri in spirito

dall’avarizia al dono

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Chi sono i poveri in spirito

Gesù annuncia che la felicità, la gioia, è possibile nel già della nostra vita («Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3), e non solo del futuro. E «la parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine» (GE 64).

Ma chi sono i “poveri in spirito”? Sono gli 'anawim, i fedeli osservanti e devoti, spesso emarginati e disprezzati. Un esempio di essi nel Vangelo: la povera vedova di cui lui solo si accorge.

Seduto di fronte al tesoro, (Gesù) osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una povera vedova, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,41-44).

Gesù chiama a sé i discepoli. Stanno guardando altro. Forse stanno ancora pensando a ciò che Gesù aveva appena detto contro i maestri della legge: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere» (Mc 12,39-40). Sono falsi maestri di vita! Questi «Hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6,2.5.16).

Chi è invece il vero maestro? È chiaro, è Gesù. Ma egli stesso, seduto come maestro, ci addita quella povera vedova. Vuole che impariamo la lezione ultima. Quella donna per lui è una vera maestra di vita, è espressione del Vangelo che Gesù ha proclamato.

«Tutti hanno gettato parte del loro superfluo – spiega Gesù -… lei invece…». Questa donna consegna tutta se stessa in quello che dà. A questa donna non è rimasto niente se non il Signore; non ha altra ricchezza se non Lui. Come Gesù darà tutto se stesso per amore degli uomini, questa donna dà tutta se stessa per amore di Dio.

Un appunto: si noti qui il duplice comandamento – amore per Dio (espresso dalla donna) e amore per gli uomini (espresso dal dono di Gesù) che Gesù, poco prima, aveva dato come risposta alla domanda dello scriba: «Qual è il primo di tutto i comandamenti?» (cfr. Mc 12,28-32).

Mi piace pensare che la povera vedova ha vissuto non solo il primo comandamento, ma anche il secondo. Le due monetine – particolare precisato dall’evangelista – forse rappresentano proprio questo. Chi ama autenticamente il Signore come un povero, facendo di Lui il proprio tesoro, ama anche i fratelli.

Chi ha viaggiato nei paesi del terzo e quarto mondo sa bene che ci sono tanti poveri – ricchi di fede e di amore per il Signore – che vivono con gioia e sanno condividere con semplicità quello che hanno. Anche loro sono degli autentici maestri. E forse ce ne sono anche vicino a noi, nei “santi della porta accanto” (cfr. GE 6-9). Ma degli uni e degli altri c’è il rischio di non vederli perché guardiamo da un’altra parte. Quale? All’illusione della ricchezza.

 

L’illusione della ricchezza

Di essa Gesù ci mette in guardia:

«Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, beni e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Così è di chi accumula per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,14b-21).

«Stolto!» – chiama Gesù quest’uomo. Ma perché, al contrario dell’insegnamento del Maestro, uno dei simboli più radicati nell’immaginario dell’uomo moderno è l’associazione tra felicità e ricchezza, con i suoi molteplici derivati (consumismo, potere, accumulo)?[1] Perché dobbiamo guardare oltre l’apparenza.

Si noti che i ricchi, ai quali il mondo spesso guarda come persone riuscite e felici, spesso non si rendono conto di aver aperto un baratro nel quale essi stessi rischiano di precipitare. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001, dopo aver mostrato come gran parte della ricchezza negli Usa sia concentrata nelle mani dell’% della popolazione, commenta: «Gli appartenenti al primo 1 per cento hanno le case più belle, l’istruzione migliore, i dottori più bravi e lo stile di vita più piacevole, ma c’è una cosa che i soldi non sembrano aver comprato: la comprensione che il loro destino è legato a quello dell’altro 99 per cento di esistenze. Come mostra la storia, questo è qualcosa che il primo 1 per cento alla fine capisce. Spesso, tuttavia, lo impara troppo tardi»[2].

L’idea che la felicità sia associata a guadagnare e ad avere sempre di più porta a un aumento di stress e infelicità, a una disumanizzazione e perdita della propria dignità, perché genera quella che è stata chiamata «la corsa dei topi». Robert Kiyosaki, un imprenditore statunitense, per descrivere questo meccanismo riprende appunto l’immagine del topo che corre sulla ruota di una gabbia non arrivando mai da nessuna parte: allo stesso punto di arrivo conduce lo sforzo di chi mira a uno status di benessere posto sempre un passo più avanti di quanto realizzato. Più si guadagna e più ci si sente indigenti. L’immagine suggerisce anche il degrado inquietante a cui l’essere umano finisce per prestarsi, fino a diventare una cavia ammaestrata. Solo alla fine della vita si rende conto di aver sprecato le proprie energie ed essere stato privato dei propri sogni.

 

Le conseguenze dell’avarizia

Le conseguenze della perversione dell’avarizia – cioè dello scambiare il fine (la ricerca della felicità) con i mezzi (il denaro) – sono le seguenti.

• La perdita del senso del gratuito e dunque il senso dell’esistere. Si pensi ad es. alla reazione di Giuda di fronte allo spreco di profumo operato dalla donna nei confronti di Gesù (cfr. Gv 12,5); ogni cosa viene valutata per ciò che se ne può ricavare («trecento denari» precisa Giuda), e ogni altro elemento, relazionale o affettivo, passa inosservato. “Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12,8). Sembra con ciò intendere che si può incontrare Gesù solo nella gratuità e nell’amore, due realtà che sfuggono alla comprensione dell’avaro, perché nascono dallo stupore, dalla constatazione dell’essere nei termini di un dono offerto con generosità a fondo perduto, suscitando sentimenti esattamente opposti all’avarizia. L’amore e la gratuità suppongono infatti l’assenza di lucro, di un tornaconto personale.• All’avaro – come abbiamo visto nella parabola dell’uomo ricco - sfugge il senso della contingenza di ciò che ha, non si accorge che le cose che ha accumulato non gli appartengono veramente, e difatti dovrà lasciarle ad altri; riprendendo una parabola del vangelo, quella dell’amministratore disonesto (cfr. Lc 16,1-13), ognuno è soltanto amministratore di ciò che gli è stato affidato affinché possa fare del bene ad altri, e questo bene diventa l’unica ricchezza che gli appartenga veramente, l’unica ricchezza che non può essere rubata o andare perduta.• La paura e il senso di insicurezza. Il denaro, ben lungi dal rassicurare, quando diventa fine in se stesso aumenta le paure: la paura di perdere ciò che si è guadagnato, la paura che un rivale si aggiudichi prima quell’affare bramato, che balzi innanzi nella scala sociale rendendo vana la fatica di una vita...... Per un curioso meccanismo psicologico, quando si cerca un’eccessiva sicurezza, che il denaro dovrebbe assicurare, si ottiene il risultato esattamente contrario, l’ansia e l’insicurezza si diffondono e prosperano con sempre maggiore intensità. E questo è esattamente lo stato d’animo caratteristico degli avari:

«Essi sono sempre nell’agitazione e la loro anima non ha riposo. La premura di possedere ciò che ancora non hanno fa sí che considerino nulla quello che hanno già. Da un lato, tramano nell’apprensione di perdere ciò che già hanno accumulato e, dall’altro, lavorano per possedere altre cose, il che vuol dire nuovi motivi di paura»[3].

I padri sottolineano spesso l’angoscia mortale che assilla l’avaro, considerata come una serpe che si morde la coda; più possiede e più viene posseduto da ciò che lo spinge ad accumulare, e cioè l’ansia e la paura[4].

La tristezza. Essa è legata alla delusione di non poter mai trovare pienamente quello che brama, ma di sentirsi sempre più indigente: «Come il mare non è mai senza flutti e senza onde, allo stesso modo l’avaro non è mai senza tristezza»[5]. C’è una sorta di strano masochismo in questo vizio, in quanto ciò che si ritiene essere l’unica fonte di felicità, rende in realtà angosciati, fino a rovinarsi la vita: «Non solo gli avari si privano della gioia di ciò che hanno e di ciò che non osano usare a loro piacimento, ma anche di quello di cui non sono mai sazi e hanno sempre sete: vi può essere qualcosa di più penoso?»[6].• Disturbi psicologici e psicosomatici. Il conto che l’avarizia presenta alla vita di chi la coltiva è pesante: nevrosi, incapacità di staccare dal lavoro, di riposarsi, scomparsa di qualunque interesse che sia privo di “interessi”, disturbi del sonno.• Asocialità. Crisi dei legami matrimoniali e familiari in genere, perdita delle amicizie. C’è un legame stretto tra avarizia e antisocialità: l’avaro si trova a suo agio solo in compagnia delle sue cose, le uniche di cui può fidarsi: «L’immagine è quella di un personaggio triste, solitario, abbandonato dagli amici, poco loquace, sempre sospettoso, spesso brusco e arrogante, nel migliore dei casi maleducato»[7], perché l’avarizia abbruttisce l’animo, rende grossolani, superficiali, spenti, infelici, soli, in una parola disumani. La solitudine dell’avaro si mostra anche nella sua tendenza all’invidia delle cose altrui, che gli appaiono come più belle e desiderabili delle proprie. E dunque in tal modo l’avaro non è mai soddisfatto di ciò che ha.

Il frutto conclusivo che riassume tutta la sua esistenza è la polvere, la distruzione di ciò che ha di più caro. Il denaro, avendo preso il posto di Dio, si rivela per quel che è: un nulla che ha annientato tutto il suo essere. Della vita di un avaro infatti non si può dire nulla al di fuori delle cose da lui accumulate: esse sono state la sua vita.

 

«C’è più gioia nel donare che nel ricevere!» (At 20,35)

La felicità, come insegna Gesù, ha una dimensione relazionale e affettiva. Essa è indispensabile per la felicità proprio perché, a differenza della logica della ricchezza, dove tutto ha un prezzo, essa appartiene alla categoria del gratuito. Facciamo due esempi.

• La Hochschild, docente di socilologia a Berkely, aveva intrapreso una ricerca sui limiti del commerciabile con un esperimento, e in modo particolare le conseguenze del monetarizzare anche le prestazioni umane che normalmente vengono svolte tra persone che si vogliono bene, come il viaggiare insieme, il partecipare alle feste, il massaggiare in modo dolce, l’occuparsi di faccende domestiche, ecc. È chiaro che i risultati di tale ricerca hanno messo in luce la perdita dei sentimenti, di quella dimensione romantica e un po’ ingenua che caratterizza l’innamorato e che rimane una delle esperienze più belle e irripetibili della vita: il meraviglioso intreccio dell’amore, con i due partner che si prendono cura l’uno dell’altro, si amano e sono legati spiritualmente, viene ridotto a una prestazione a pagamento, meccanizzata e senza sentimento. Le cose più belle non hanno prezzo, anche se sono in commercio.

Delle conseguenze di questa monetarizzazione la Hochschild se ne accorse in modo lucido anche dalla reazione di sua figlia, quando scoprì che la sua festa di compleanno in realtà era stata allestita da una persona pagata dalla madre. La delusione sul suo volto era più eloquente di ogni discorso. Per quanto l’organizzazione fosse impeccabile, era artificiale, senza cuore; in essa si erano smarriti, insieme ai sentimenti, anche le persone: «”Capii in quel momento di aver oltrepassato il limite” […], il limite di aver varcato il confine del commerciabile tracciato dalla figlia»[8]. E il limite è la disponibilità a perdere tempo, a fondo perduto, con le persone che amiamo.

• Il secondo esempio lo traiamo dalla ricerca condotta dall’équipe della British University of Columbia (Usa) che ha mostrato che non esiste alcuna relazione tra i soldi spesi per se stessi e la gioia di vivere. Al contrario, alla fine si avverte tristezza. Quando invece si compra qualcosa per gli altri, ci si sente più felici di prima. E, questo, indipendentemente dal reddito percepito.

I ricercatori hanno tentato di testare questa differenza fornendo una somma di denaro (5.000 dollari ca.) a 16 impiegati, chiedendo loro quanto si sentissero felici (in un’ipotetica “scala della felicità”) un mese prima di ricevere la somma, e poi un mese e due mesi dopo averla spesa. Coloro che si sentivano più felici, non solo rispetto al resto del gruppo ma anche in rapporto al periodo precedente, erano coloro che avevano impiegato i soldi per fare contenti altri. «Il modo in cui il bonus veniva speso influiva sul grado di felicità di chi lo riceveva in misura maggiore dell’entità del bonus stesso»[9]. Non contenti, gli autori dello studio hanno svolto la stessa indagine su 46 studenti, con i medesimi risultati: la somma ricevuta, per quanto modesta (dai 5 ai 20 dollari), rendeva più felice il suo possessore quando veniva utilizzata per i bisogni altrui.

Donare rende felici. Perché si è felici quando ci si propone di fare felici gli altri. Poveri o ricchi, non fa differenza. Capita, anzi, che i poveri siano più generosi dei ricchi. Strano, ma vero: nel Vangelo i gesti generosi vengono da chi sembra non contare nulla, come nel brano della peccatrice perdonata (cfr. Lc 7,36-50), chi è ricco è più riluttante a donare, spesso dà il superfluo, di malavoglia, e facendolo pesare.

Gesù, guardando le offerte gettate nel tesoro del tempio, fa notare che chi è povero, chi non pretende di possedere e riconosce con gratitudine che ciò che riceve è dono, può veramente donare, anzi diventa dono.

 

L’arte di ridere di sé

Un frutto non molto evidente, forse, ma proprio dei poveri: il saper ridere di sé.

«Arte difficile, che non s’insegna in nessuna università. Arte imprescindibile se si vuole sfuggire a quei due grandi demoni della vita umana: quello che ci incita ad adorare noi stessi e quello che ci spinge a odiarci dall’interno del nostro stesso cuore. […]

Adorare sé stessi è una faccenda piacevole. E sebbene ne siano più tentati i cosiddetti uomini pubblici (i quali, dato che passano metà della vita su pulpiti, cattedre, piattaforme o piedistalli, hanno la facile tendenza a dimenticare la loro effettiva statura), coglie anche coloro che obiettivamente hanno ben pochi motivi per quell’auto-adorazione.

Peggio ancora quelli che odiano sé stessi. Sono milioni. Persone che non si perdonano di non avere realizzato tutti i loro sogni, persone che sono deluse di sé e trasformano quella delusione in amarezza e permalosità.

Per quanto si tenda a credere il contrario, non è affatto facile amare umilmente sé stessi, accettarsi come si è, lottare per essere quanto più possibile migliori, ma sapendo sempre che raggiungeremo questo miglioramento restando brutti come siamo, grassi come siamo e non più brillanti di quello che siamo. Nel comandarci di amare il prossimo come noi stessi, Dio ci ha comandato anche di amare noi stessi come il prossimo»[10].

In primo luogo il sentimento profondo, basilare, il più costante: il povero nell’anima sente che né si adora né si odia, ma ama umilmente sé stesso, si accetta per com’è e lotta per migliorare (cuore idealista) senza smettere di essere com’è e di accettarsi con spirito, senza arrabbiarsi e senza inasprirsi (testa di umorista semiscettico). Come diceva il curato di campagna di Bernanos alla fine della sua vita: «Sono riconciliato con me stesso, con questa povera spoglia»[11]. In secondo luogo, descrive lo sguardo: il povero in spirito ha uno sguardo compassionevole verso le persone, come quello dei genitori verso i loro piccini, e spoglio verso le cose.

Anche la Sacra Scrittura invita il credente a imparare a ridere di sé stesso, perché non deve avere paura delle proprie debolezze e miserie; lo libera dalla preoccupazione di apparire migliore di quello che è; lo libera anche dal giudizio degli altri, che tanto fa soffrire e impedisce di sorridere delle proprie piccinerie, mettendosi un vestito troppo stretto, che non consente di respirare. L’umorismo diventa così un segno di libertà e di verità verso sé stessi, perché si è consapevoli che la propria stima viene da un Altro[12].

Riesci a ridere delle tue abitudini, del tuo comportamento, delle tue stranezze? Sai riconoscere le tue incoerenze per sorriderne con lucidità e benevolenza?

 

Persone di fede

«Dio – dice san Giacomo – ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi mediante la fede» (Gc 2,5). Il Regno rappresenta, nella beatitudine, l'offerta della grazia, la povertà in spirito la risposta di fede dei poveri e dei piccoli. «È come se Gesù dicesse: Beati voi poveri «perché avete creduto»[13].

In questa prospettiva Maria è il modello sublime di questa beatitudine. È la beata perché è la credente. Beatitudine espressa da Elisabetta (Lc 1,45), ma anche da Maria stessa nel Magnificat («D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»: Lc 1,48). Se fede vuol dire accogliere dinamicamente il Dio di Gesù Cristo nella propria vita e lasciarsi coinvolgere nel suo mistero di sofferenza, morte, resurrezione e gloria, Maria certamente è stata una singolare donna di fede. Nel suo itinerario di fede, che ha conosciuto anche le “notti”, Maria ha sempre guardato al Figlio, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).

 

Povertà di sé, adorazione e preghiera

Tra la povertà in spirito e l’adorazione del Padre esiste una relazione splendida e feconda. Infatti rispetto al nostro Padre creatore, che ci ha dato la vita e ci sostiene in essa, siamo, per così dire, sempre «materialmente» poveri. Ma è una scelta libera, sotto il profilo spirituale, quella di riconoscerci creature e adorarlo con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze. Povera nell’anima è la Madonna che traduce il sentimento della sua piccolezza e del dovere tutto a Dio in pura lode, in adorazione piena di gioia e in desiderio di dare gloria al Signore.

Nell’adorazione del Padre, e del Figlio che ha inviato nel mondo, avviene il Regno. Quando si santifica il suo nome, il Regno dei cieli si apre e viene tra noi stabilendosi come volontà che dirige e ordina le azioni di coloro che lo accolgono liberamente. E in aggiunta ci dà il pane, ci perdona, ci libera dalle tentazioni e da ogni male. Quel Regno che è come celato, sotterraneo, velato, nascosto, si apre ed entra in vigore, assume valore, realtà, là dove qualcuno sceglie la povertà spirituale, là dove qualcuno sceglie di non afferrare ma di dare, di non auto-adorarsi ma di adorare il Padre, là dove qualcuno sceglie di non voler possedere né dominare né accampare diritti ma condivide, si spoglia, serve, ama.

La preghiera al Padre – anche quando è preghiera di domanda – è sempre vissuta nell’atteggiamento del povero che non ostenta se stesso, né moltiplica le parole, come fanno i pagani, per essere ascoltato; entrato nella cella del proprio cuore si rivolge con fiducia al Tu, consapevole che Egli «sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,8).

 

___ NOTE ____

[1] Anche quando il sogno della felicità non si realizza, rimane la convinzione che si tratti comunque del male minore. Come nota Woody Allen, «il denaro non dà la felicità, figuriamoci la miseria».

[2] J. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Torino, Einaudi, 2014, 453.

[3] San Giovanni Crisostomo, Commento al vangelo di Matteo, LXXXI, 4.

[4] Cf. San Gregorio Magno, Moralia, XV, 19

[5] San Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XVI, 21.

[6] San Giovanni Crisostomo, Omelie su 1 Corinzi, XXII, 5.

[7] C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000, 120.

[8] A. Russell Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, Bologna, il Mulino 2006, 55-58.

[9] E.W. Dunn – L. B. Akin et Al., «Prosocial Spending and Well-Being: Cross-Cultural Evidence for a Psychological Universal», in Journal of Personality and Social Psychology, n. 104, 2013, 635-652.

[10] J.L. MARTIN DESCALZO, «El arte de reírse de sí mismo», in Razones para la esperanza, Sociedad de educación Atenas, Madrid 1991, 80-81.

[11] G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1965, 272.

[12] R. POUDIER, L’umorismo nella Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996.

[13] Cfr. R. Cantalamessa, Le beatitudini evangeliche. Otto gradi verso la felicità, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, 15-16.

Ultima modifica il 12 Marzo 2019

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