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«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»

Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra” (Lc 23,44). La morte di Gesù è descritta dall’evangelista con una valenza cosmica. Anzitutto si parla di tenebra in pieno mezzogiorno, che ricorda le tenebre iniziali di quando Dio creò il mondo. Quindi la tenebra è simbolo del caos originario nel quale il mondo ricade alla morte di Gesù perché si è allontanato dal Dio della vita. E come nel caos originario lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, così ora lo Spirito farà una nuova creazione.

Questa tenebra ha anche un altro significato: richiama le tenebre d’Egitto, la morte dei primogeniti. La morte di Gesù, primogenito del Padre, è l’inizio del mondo nuovo, il mondo pasquale, liberato da ogni schiavitù.

Si squarcia il velo del tempio (cfr v. 45). Il velo del tempio separava Dio dal resto che non è Dio, e quindi anche dall’uomo. Il santo dei santi è il luogo della presenza della “gloria” (dove “gloria” significa “peso”: è il luogo nel quale pesa la presenza divina). La Gloria ha squarciato tutto col suo peso per accogliere il ritorno del Figlio a “casa”. Se pensiamo alla parabola del figlio prodigo, o della pecora perduta, o del buon samaritano, la ricerca finalmente si compie: nella carne di Gesù c’è il ritorno a casa di tutti i figli perduti.

Inoltre questo “squarcio” del velo del tempio pone fine alla vecchia economia: Dio non ha più veli, lo si contempla nel volto del Figlio. Ed è una economia che non è più riservata a Israele, ma che è offerta a tutti, a tutti i lontani.

Gesù grida a gran voce. È eccezionale questo grido per uno che muore in croce. Nelle tenebre risuona la voce divina. È la voce potente del Verbo, che fa nuove tutte le cose (Ap 21,5). Cosa grida? Marco e Matteo non lo dicono. Luca sì.

Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Gesù cita il Sal 31 (30),2.6. È un salmo di fiducia, con cui prega un orante che chiede di essere liberato dai propri nemici e dalle loro insidie, dal loro disprezzo, dalle loro calunnie. Il salmo aveva come invocazione “Dio”, “JHWH” o “Signore”. Gesù la sostituisce con “Padre”. Nella sua vita terrena aveva sempre chiamato “Abbà” il Padre celeste, espressione che, come sappiamo, significa “papà”: era il vocabolo familiare usato dai figli per rivolgersi al loro padre. Nel momento della morte, Gesù può non solo mormorare ma gridare “Abbà” con tutta la forza della sua anima filiale. Il grido manifesta lo slancio filiale che trabocca e riconosce la bontà del Padre.

Segue l’abbandono fiducioso al Padre: “nelle tue mani affido il mio spirito”. Lo spirito in Gesù altro non è che lo Spirito Santo. Grazie all’azione dello Spirito il Figlio di Dio ha preso carne nel grembo di Maria (cfr. Lc 1,35). Lo Spirito discende su di lui in forma corporea al momento del Battesimo accompagnando con questa visione la voce che dal cielo lo proclama Figlio di Dio (cfr. Lc 3,22). Con questa pienezza di presenza in lui dello Spirito e da questi guidato, Gesù va ad affrontare la prova delle tentazioni demoniache (cfr. Lc 4,1) e, vinto il demonio è con la potenza dello Spirito che inizia il suo ministero in Galilea (cfr. Lc 4,14). Si può affermare che tutta la vita terrena Gesù costituisce un tempo in cui lo Spirito riposa solo su di lui. Gesù è ben consapevole di ciò e lo esprime in particolare nella sinagoga di Nazareth, quando applica a sé le parole del profeta: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18ab; cfr. Is 61,1). Ora Gesù riconsegna Padre lo Spirito. La sua morte non è più la perdita della vita ma l’affidare la vita alla sorgente della vita. È il ritorno al Padre. È il ritorno a casa. Tutto il vangelo è la rivelazione della paternità di Dio, attraverso quanto il Figlio ha detto e fatto in ricerca dei figli perduti. Si consegna al Padre e gli affida la sua vita ormai piena, dicendo: “Ecco con me i miei fratelli che mi hai dato. Tutti li ho ritrovati, nessuno è andato perduto” (cf. Gv 10,28s). È finita la sua missione di Figlio. Ci ha aperto l’arco della vita. È l’esodo. Si compie in lui quell’esodo di cui Gesù ha parlato con Mosè ed Elia nella trasfigurazione (9,31); esodo per il quale “indurì il suo volto” (9,51).  Dopo Gesù anche noi possiamo accettare come dono sia il vivere che il morire. Ed è vinta la paura della morte.

 

Benedetta Bianchi Porro

Nasce l’8 agosto 1936. Il 26 maggio 1944, all’età di otto anni, annota nel suo diario: «Che bello vivere!». Ma il dolore bussa subito alla porta della sua vita. A tre mesi venne colpita dalla poliomielite, che le lasciò una gamba più corta: resterà zoppa. Ma lotterà per vincere questa menomazione, che le procurerà non poche umiliazioni.

Benedetta, come ogni bambina, sogna…  ma, nello stesso tempo, si accorge che i suoi sogni si dissolvono tutti come bolle di sapone. Innanzitutto pensa al matrimonio; sogno che si scontra sempre con una dura realtà. Racconta la mamma che spesso, quando vivevano a Sirmione, tutta la famiglia, soprattutto di domenica, si fermava al bar e sedeva accanto a un tavolo, all’aperto.

Benedetta aveva un volto bellissimo e, pertanto, diversi ragazzi si fermavano e le facevano qualche complimento, dimostrando di apprezzare il suo non comune fascino. Ma, appena Benedetta si alzava e, zoppicando, cominciava a camminare per unirsi alla comitiva dei giovani, essi, con evidente imbarazzo, trovavano scuse… e si allontanavano: Benedetta capiva e prendeva atto che tante strade per lei erano chiuse.

Nel 1953 Benedetta frequenta il Liceo Classico a Desenzano del Garda. Un giorno, durante la lezione di latino, avverte qualcosa di strano. «Oggi sono stata interrogata in latino: ogni tanto non capivo quello che il professore chiedeva. Che figura devo fare ogni tanto! Ma che importa? Un giorno forse non capirò più niente di quello che gli altri dicono, ma sentirò sempre la voce dell’anima mia: e questa è la guida che devo seguire».

Il 1° febbraio 1954 appunta sulla carta una prima confidenza di disperazione: «Stasera sono tanto triste e penso che non riuscirò a resistere tutta la vita così sorda: un rimedio, qualunque sia, bisogna che lo trovi e al più presto».

Benedetta ancora non sa che cosa l’aspetta: è l’inizio del suo calvario, barcolla e le sembra di naufragare. All’amica Anna Laura Conti scrive tre lettere drammatiche, nelle quali emerge il rischio della disperazione. Il 26 gennaio 1953 scrive: «Mia cara Anna, ho ricevuto due giorni fa le tue lettere; il tuo incoraggiamento e le tue parole così serene e calme placano le tempeste del mio animo. Anch’io sono assetata di pace e desidero abbandonare le onde del mare per rifugiarmi nella quiete di un porto. Ma la mia barca è fragile, e le mie vele sono squarciate dal fulmine, i remi spezzati; e la corrente mi trascina lontano. Vorrei poter raggiungere l’equilibro, vorrei poter affrontare il mondo con entusiasmo e vedere che gli uomini sono buoni e le cose belle: che insomma val la pena di vivere qualunque vita, come pensi tu. Ma temo che non vi sia in ciò felicità, temo solo che tutto sia illusione: e l’illusione mi fa tremare più della disperazione. Mi agito e lotto vanamente, perché non voglio trovare dolore dove spero ancora possa esservi pace: non ho fiducia sufficiente in me e negli altri. […]

Qua tutto passa e scorre come sempre. Si direbbe che il tempo scivoli istante per istante silenzioso e riservato: i giorni sono tristi e monotoni, nessuna novità, nessun entusiasmo, un po’ di rassegnazione e molta infelicità. Il lago è grigio, il cielo è nebbioso: talvolta, quando sento gli occhi pieni di lacrime e il pianto che mi chiude la gola, non so se sia il freddo o i ricordi. Sai, Anna, mi sembra di essere in una palude infinita e monotona e di sprofondare lentamente, lentamente, senza dolore o rimpianto, così incosciente e indifferente verso ciò che avverrà quando anche l’ultimo tratto di cielo scomparirà e il fango si chiuderà sopra di me. Scrivimi presto. Salutami tutti i tuoi».

Benedetta è anche tentata di suicidarsi. Maria Grazia Bolzoni, compagna di studi all’Università, ha raccontato che un giorno Benedetta, indicando l’ampia terrazza dell’appartamento in cui viveva a Milano durante gli studi di Medicina, le confidò che era tentata di farla finita una volta per sempre. Benedetta ha conosciuto il buio, ma non vi è rimasta.

Benedetta collezione un’umiliazione dopo l’altra: però le umiliazioni non la rendono ribelle, ma umile.

All’età di 17 anni si iscrive all’università: frequenta a Milano il primo anno di medicina. La giornata è scandita dalle lezioni all’università e dallo studio accanito. Quando esce dall’università si reca all’Istituto dei Sordomuti, dove impara a leggere le parole pronunciate dagli altri seguendo il movimento delle labbra.

Questo esercizio le richiede un grande sforzo di concentrazione. I primi tempi arriva a casa sfinita: è come apprendere una lingua difficilissima. Ma lei vuole riuscire. Deve comunicare con gli altri ad ogni costo, deve capirli.

Riesce a superare il suo primo esame universitario rispondendo alle risposte della professoressa come un libro stampato. Non vuole che la professoressa la interrompa: scoprirebbe il suo dramma. La professoressa la congeda con un voto soltanto discreto. E la guarda con severità, dicendo: «Signorina, questo è il suo primo esame. Ma si ricordi che l’università non è una scuola per pappagalli». Benedetta ha capito anche questo. Si alza avvilita. Quando esce e riattraversa la piazza per andare a casa ha le guance bagnate di pianto. Ma ripromette a se stessa che non cederà per così poco. Andrà avanti lo stesso. «Mi basta arrivare ad esercitare come l’ultimo dei medici», esclama.

Estate 1955. Dopo mesi di studio, Benedetta affronta l’esame fondamentale del primo biennio, l’esame di anatomia. È uno dei più difficili. Quando il professore la domanda lei non lo sente, indugia un attimo. Il professore, già un po’ maldisposto, le rivolge ancora la parola, ma Benedetta non capisce. Diventa rossa per la vergogna, si scusa, cerca di spiegarsi: «Soffro di una forma nervosa… sono in cura da uno psicanalista… non sento più niente».

A questo punto il coro di risate dei compagni la interrompe. Benedetta riprende: «La prego di aver pazienza… spero di guarire… se potesse farmi le domande per iscritto…»

Il professore, ormai fuori dei gangheri, le urla in faccia: «Che pazienza e pazienza! Figuriamoci! Chi ha mai visto un medico sordo?»

E il libretto universitario vola contro la porta, scagliato con violenza.

Anna, la giovane domestica, ha visto tutto. Si china a raccogliere il libretto e piange. Benedetta continua: «Le chiedo scusa. Non volevo offenderla». Il professore rimane muto. Anche i compagni ora fanno silenzio. Hanno capito che Benedetta non sta scherzando. Forse quello che ha detto è vero, drammaticamente vero.

Torna a casa e riprende a studiare come se non fosse successo nulla. Ripete l’esame a novembre. Questa volta la interroga un assistente. Il professore è lì accanto, ascolta accigliato, si è rifiutato di interrogarla.

Benedetta è preparatissima. Risponde bene per quasi mezz’ora. Prende trenta.

Benedetta è felice. Quasi corre a casa, pur zoppicando. La madre l’abbraccia e le dice: «È una grande vittoria. Sei contenta?»

Improvvisamente un’ombra passa sul volto di Benedetta: «Mamma, anche questo è andato bene… ma a che serve? Tra poco…»

Infatti, mentre ritornava a casa, esultante, d’un tratto aveva sentito un dolore acuto alla testa. Poi la vista le si era appannata, come quando si guarda attraverso l’obiettivo di una macchina

fotografica senza mettere a fuoco. Si era aggrappata ad Anna e aveva pensato: “Che brutti scherzi fa la stanchezza! Oppure sarà la troppa felicità?”

Poi, un pensiero terribile, come una folgorazione: “No, mio Dio! Gli occhi no!!!”

Benedetta ormai comincia a capire dove conduce la strada della sua malattia.

 

Le stazioni della via Crucis di Benedetta

12 luglio 1955: viene ricoverata nella casa di cura Villa Igea di Forlì. Il professor Leonardo Gui esegue un intervento chirurgico e accorcia il femore sinistro di circa quattro centimetri per togliere a Benedetta l’umiliazione dell’andamento claudicante. L’intervento riesce, ma, a motivo degli sviluppi della malattia, risulterà completamente inutile.

27 giugno 1957: per cinque ore viene sottoposta a un delicato intervento chirurgico alla testa per l’asportazione di un neurinoma del nervo acustico. Durante l’intervento, per un errore, viene reciso il nervo facciale sinistro: e così metà volto di Benedetta rimane paralizzato. Dopo l’intervento, il chirurgo presenta le scuse ed è molto impacciato davanti a Benedetta che, essendo studente di medicina, subito nota il disastro avvenuto. Però Benedetta tende la mano e, stringendo delicatamente quella del professore, esclama: «Professore, lei ha fatto quanto umanamente era possibile. Mi dia la mano. Lei non è il Padre Eterno!»

Benedetta si dimentica sempre di sé e vive preoccupandosi degli altri: inizia così il suo canto in mezzo al dolore; inizia nel momento in cui, attraverso l’amore, Benedetta incontra Dio.

4 agosto 1959: Benedetta viene operata al midollo spinale. L’intervento non produce l’esito sperato e Benedetta resta definitivamente paralizzata agli arti inferiori: d’ora in poi vivrà tra il letto e la poltrona. Sopravviene anche la paralisi vescicale e Benedetta deve sottoporsi a tutte le umiliazioni che il caso comporta. E, a poco a poco, perde il gusto, il tatto, l’odorato.

Il 28 febbraio 1963, dopo un altro intervento chirurgico alla testa, perderà anche la vista: tutto le viene tolto, ma tutto ritrova in Dio. Questo è il vero miracolo di Benedetta Bianchi Porro: la gioia trovata e cantata dentro l’esperienza del dolore.

Improvvisamente, nel deserto silenzioso della malattia, esce fuori una melodia di gioia incontenibile. Benedetta è felice!

Che cosa è successo? Il 19 aprile 1958 confida a Maria Grazia Bolzoni: «Cara Maria Grazia, finalmente due minuti liberi per scriverti!! Sono stata, e sono, occupatissima: esercitazioni, lezioni e studio mi tolgono il fiato. Come vorrei avere una forte resistenza per fare serenamente tutto ciò! Non che io non sia serena, ma gli altri notano su di me i segni della stanchezza fisica e allora apriti cielo! … Per quello che riguarda lo spirito, invece, sono serena, perfettamente, anzi sono molto di più: felice sono; non credere che esageri. Chissà perché spesso sento dire che più si è intelligenti e più si apprende, meno si è felici. Non è vero, invece: non c’è felicità senza la coscienza di essa; anzi la coscienza della mia propria felicità mi inebria e mi dà attimi di vera estasi spirituale. Certe volte ho persino timore, timore di perderla facilmente per averla acquistata a troppo piccolo prezzo».

Alla mamma, che è andata a Milano per un po’ di tempo, Benedetta scrive il 20 febbraio 1961: «Cara mamma, […] il babbo ieri sera aveva tanto lavoro: è stato in ufficio dopo cena per finirlo […]. Quanto a me sto come sempre. Ma da quando so che c’è Chi mi guarda lottare cerco di farmi forte: com’ è bello così, mammina! Io credo all’amore disceso dal cielo, a Gesù Cristo e alla “Sua Croce gloriosa” (S. Teresa del B. G.)!! Sì, io credo all’amore!»

Benedetta ha incontrato Gesù, e l’ha incontrato nella croce! Benedetta ha capito che il Crocifisso è un’inondazione di amore nel deserto della cattiveria umana: Benedetta si fida di Gesù e comincia a riempire di amore il suo dolore e, con immenso stupore, scopre che l’amore vince il dolore: l’amore conduce dal Venerdì Santo alla Pasqua. Come è accaduto a Gesù!

Il 22 aprile 1963, ormai già cieca, detta una lettera per l’amica Francis: «Cara Francis, vorrei tanto saperti ringraziare della tua lettera, che mi è giunta proprio quando mi sembrava di boccheggiare e sentivo la speranza sbiadire per dar posto in me ad un infinito senso di dolore e di angoscia. Poi ho avuto la gioia di poter farmi trasmettere le tue parole, e mi è sembrato per un attimo di essere composta di vetro, e che tu, scrivendomi, vedessi dentro di me, nell’anima. Ho sentito che l’aiuto di Dio, tramite il tuo, mi veniva incontro e mi dava una gioia più grande di quanto tu possa immaginare. Te ne sono molto grata. Nella tristezza della mia sordità, e nella più buia delle mie solitudini, ho cercato con la volontà di essere serena per far fiorire il mio dolore; e cerco con volontà umile di riuscire a essere come Lui vuole: piccola, piccola, come mi sento sinceramente quando riesco a vedere la Sua interminabile grandezza nella notte buia dei miei faticosi giorni. Così spengo la tentazione di desiderare il caldo del sole quando più grande nell’intimo la sento, e io Lo chiamo qui accanto a me, come se il mio letto fosse una piccola grotta, o una deserta cella, e Lui dovesse aiutarmi ad uscire ed insegnarmi ad assolvere meglio il mio compito, che non è solo e non deve essere solo quello di scrutarmi dentro, ma di amare la sofferenza di tutti quelli che vivono o vengono attorno al mio letto, e mi danno o mi domandano l’aiuto di una preghiera. Non sempre riesco a farlo. Riesco a fare invece anche dei capricci! … Vorrei avere tutta la pazienza che occorre per sapere aspettare, come la natura aspetta e geme la sorgente della fine e la vittoria del principio. Vorrei, nella mia stasi, essere buona e remissiva, dolce e serena, e riuscire completamente a dimenticarmi per ascoltare solo il miracolo della Sua Luce. Spero tanto, Francis, di vederti presto [eppure era già cieca!]. Ricordami alla Giovanna, all’Adriana se le vedi. Perché non siete venute tutte al matrimonio di mia sorella? Ricordati, quando verrai, delle Lettere di S. Teresa. Salutami Maddalena e tutti i fratelli di “Gioventù Studentesca”. Benedetta».

E al gesuita padre Gabriele Casolari, dettandoli alla mamma, invia questi stupendi pensieri nell’estate del 1963: bisogna «vivere lasciando che tutto il senso della nostra vita lo sappia e lo conosca Lui solo, e ce lo faccia a volte intravvedere, se così a Lui piace… Per questo solo io trovo sincerità, umiltà e mi sento docile nelle sue mani. Ed ho la certezza, che se anche Lei ha scelto la via del Sacerdozio, io dell’apostolato, è perché lo abbiamo “incontrato” per un attimo sulla nostra strada: “Dove andremo? … Tu solo, hai parole di Vita Eterna”.

È per questo, don Gabriele, che anche se sono sorda, cieca, forse fra poco, più mutilata ancora, io sento che in Lui devo essere serena: perché Lui è Luce, è promessa più eloquente, più vibrante che la parola umana. Io so, che lo seguo, anche se Lui si nasconde, e io non riesco, per attimi, a capire più il senso esatto di quello che ancora vuole da me. Sono attimi, se tutto fosse facile, non ci sarebbe salvezza. E nelle prove, mi raccomando alla Madre che ha vissuto prove e durezze le più forti, mi raccomando, anche se sono così miseramente piccola, che Lei riesca a scuotermi e a generare dentro il mio cuore, il suo Figlio, così vivo e vero, come lo è stato per Lei. Ecco, allora il dono più grosso, più grande, quasi per incanto, mi ritrovo in Lui tutta la mia serenità, appoggiata alla sua spalla, non più misera, incerta, povera, ma ricca nello spirito, perché, pregandolo, Lui non mi ha cacciata. Vede, don Gabriele, nulla è saldo in noi, e tutto quello che è saldo in noi è perché Dio ci tiene stretti con la sua mano, momento per momento. Tutto questo è il motivo per cui anche se le mie giornate sono eternamente lunghe e buie, sono pur dolci di un’attesa infinitamente più grande del dolore. Il cielo è la nostra Patria vera, e là dobbiamo mirare, all’incontro. Buon lavoro, don Gabriele, mi benedica. Benedetta».

E ancora: «Reverendo Padre, […] io in questi ultimissimi giorni sono peggiorata, di salute. Spero perciò che la “chiamata” non si faccia troppo attendere! La mente, grazie al Signore, è ancora lucida, ma sono tanto stanca! Sono molto stanca, Padre, quasi da non sentire più le parole neppure in bocca, ma mi sento spiritualmente ancora in piedi, nell’attesa di rispondere il “presente” ad un suo cenno. Le dirò, Padre, che ho già sentito la sua voce: la voce dello “Sposo”! Sono lenta nelle preghiere e nei colloqui col Signore e mi offro ugualmente così con umiltà. Lui, che è in me, mi guiderà a fare la sua volontà, fino in fondo».

E all’amica Anna, alla quale aveva inviato lettere colme di disperazione nell’anno 1953, dieci anni dopo, nel 1963, confida il segreto della sua gioia: «Cara Anna, grazie molto della tua cartolina e del tuo ricordo. Anch’io non mi sono scordata di te e ti voglio sempre tanto bene. Io però sono molto cambiata. Ora con me c’è Dio e sto bene. Come sto bene! “Voi mi avete segnata col fuoco del vostro amore”, dice una preghiera. Io vivo in un deserto silenzioso, ma con la luce della preghiera. Del resto presto suonerà la campana e Lui, finalmente, mi verrà incontro. Noi siamo la “terra” che spera sotto la neve, perché “tutte le cose stanno dove devono stare, e vanno dove devono andare: nel luogo assegnato da una sapienza che non è la nostra”. E se in qualche attimo mi sento timorosa, io dico coi discepoli: “Resta con me, Signore, perché si fa sera!” Nei miei incontri col Signore ti ricordo, e in particolare tua mamma, che mi è tanto cara. Sono cieca, sorda, quasi muta perché a fatica mi faccio capire, ma io dico con S. Giovanni nel Vangelo: “In principio era la luce, e la luce era la vita degli uomini. Risplende tra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno ricevuta” […]».

Ormai Benedetta ha incontrato Gesù. Dove? Nel dolore! Perché questa è la notizia meravigliosa che Benedetta grida con tutta la sua sconvolgente storia: Dio abita anche nel dolore; e, pertanto, il dolore non è più dolore!

Nel dolore Benedetta sente l’urlo di Gesù, che le dice: «Benedetta, soffro con te! Benedetta, riempi di amore il dolore e, insieme a me, rovescerai la pietra che chiude la tomba: e sarà Pasqua, e sarà un’inondazione di gioia». Benedetta credette, e fu così!

 

«Con me c’è Dio e sto bene!»

Come ha fatto Benedetta a incontrare Dio? La risposta è sicura: ha incontrato Dio… uscendo dall’egoismo, cioè decidendo di dimenticare se stessa per vivere negli altri.

Mi limito a raccontare tre episodi che sono rivelatori della nuova vita di Benedetta dal 1958 fino alla morte.

Nel 1962, quando era paralizzata e sorda, ma non ancora cieca, Benedetta partecipa a un pellegrinaggio di ammalati a Lourdes. Il 30 maggio, alle ore 11, viene portata davanti alla grotta per un ultimo saluto alla Madonna insieme agli altri ammalati. Accanto a Benedetta c’è Maria Della Bosca, una ragazza di Trento, che è paralizzata e disperata perché non ha ottenuto la grazia della guarigione. Benedetta se ne accorge e, dimenticando se stessa, le dice: «Maria, prega ancora, non disperarti! Anch’io pregherò per te!» e le tende la mano quasi per trasmetterle la sua umile fede. A un certo punto Maria si alza e cammina tra la meraviglia di tutti. Abbraccia Benedetta e la mamma di Benedetta e corre verso la grotta: è guarita!

Benedetta non prova alcuna invidia, ma è felice per la felicità dell’amica guarita. In una lettera del 6 giugno 1962 racconta il fatto: «Nel nostro pellegrinaggio c’è stata una miracolata: un’umile ragazza di ventidue anni, che da due anni non camminava: che bellezza! Ne sono ancora scossa».

Benedetta viveva per gli altri: e Dio viveva in lei e la colmava di gioia. Ed ecco un altro fatto, nel quale risplende il segreto della vita di Benedetta. Ella conosce il dottor Umberto Merlo, gravemente ammalato: egli però non ha la fede e si dispera lottando contro la sua malattia. Benedetta capisce lo stato d’animo di Umberto e, come sempre, dimentica se stessa per far suo il problema di un altro.

Attraverso la mano della mamma, gli scrive così il 24 luglio 1963: «Caro Umberto, mi permetta di dire così. So che è in ospedale e non sta bene, ed io ho voglia di mandarle gli auguri, dispiaciuta solo di non poter fare di più, perché vorrei tanto aiutarla. Vorrei proprio avere la possibilità di illuminarla, perché solo così Lei soffrirebbe meno e avrebbe di conseguenza lo spirito in pace!

Umberto, lasci che Dio la ritrovi e se la tenga amorevolmente sulle spalle, come dice la parabola della pecorella smarrita, che il buon Pastore ritrova, lasciando, per questa, le altre novantanove al pascolo. Il Signore, Umberto, ci è fedele: sempre. Non ci lascia in nessun momento, Lui, il più fedele degli amici! Se riguardo il tempo, anch’io ho passato tanti dolori, agitazioni, e nella lotta cercavo Lui – Lui solo – da sempre. “Dove andrete? Solo io ho parole di vita eterna!” E Lui è venuto, mi ha consolata, mi ha accarezzata nei momenti di paura e di dolore più forte, proprio quando tutto mi pareva crollato, salute, studio, sogni, lavoro.

Caro Umberto, caro Umberto, mi ascolti. Lei sa che il Signore ha detto che c’è più gioia in cielo per l’anima che si pente, che per novantanove giusti! Si lasci aiutare. Dice la Bibbia: “Mi troveranno quelli che mi cercano, se mi cercheranno con tutto il cuore”.

Non creda di essere solo a soffrire, non pensi che la sua croce sia troppo pesante. Accetti con semplicità la parte che Dio le ha dato. Come vorrei che Lei, Umberto, trovasse un po’ di quella pace, che io posseggo! Non si affanni, non si domandi: “Dov’è?” Non cerchi Dio lontano. Perché è vicino a Lei, soffre con Lei. È in Lei, nel suo cuore! Lo ami, allora, semplicemente, con umiltà.

Per questo io le ho scritto, per questo io prego per Lei. E Lei, al Signore, domandi aiuto anche per me. I miei sinceri auguri, arrivederla. Sua sorella Benedetta».

Umberto è folgorato da questa lettera: avverte una luce, una delicatezza, un’umiltà, una speranza… che per lui sono terra sconosciuta. Riceve tanto conforto da questo scritto inatteso e va serenamente incontro alla morte il 30 agosto 1963. Benedetta è cieca e sorda; nessuno le ha detto nulla della morte di Umberto… eppure a un certo momento, nel pomeriggio di quel 30 agosto 1963, confida alla mamma e al fratello Corrado che stanno accanto al suo letto: «L’esilio di Umberto è finito! Tutti i suoi dubbi ora saranno dissipati».

Come aveva fatto a saperlo? Tutto questo appartiene al segreto dei santi.

Benedetta interviene anche dopo un bisticcio tra i suoi genitori. Così scrive la mamma: «Ebbi un bisticcio con mio marito e mi arrabbiai molto. Quella mattina, quando andai a portare la colazione a Benedetta, lei mi prese la mano e l’accarezzò. Faceva quel gesto affettuoso tutte le mattine. E nell’accarezzarmi la mano, disse: “Mamma, sento che non sei tranquilla. Cosa è successo?”

Risposi: “Ho bisticciato con il babbo”. Il mattino dopo, Benedetta mi chiese: “Sei ancora arrabbiata?” Risposi di sì. Il nostro dialogo avveniva per mezzo dell’alfabeto muto. Passarono circa otto o dieci giorni. Lei non mi faceva più domande per timore di essere indiscreta. Ma una mattina mi disse: “Mamma, deve essere molto grave ciò che ti è successo, perché ancora non sei tranquilla”. Dapprima io dissi: “Ma no, Benedetta!” Poi, però, non seppi resistere e aggiunsi: “Mi voglio dividere dal babbo”. Mi domandò: “Di quanti metri ti vuoi dividere?”

“No, non scherzare! Parlo sul serio”. “Mamma, ricordati che l’uomo non può dividere ciò che Dio ha unito”. “Però io sono stanca di questa situazione!” Allora lei mi disse: “Mandami qui il babbo”».

Il padre di Benedetta indugia, non vuole entrare nella stanza della figlia, trova tutte le scuse. Passa circa un mese. Alla fine, di fronte all’insistenza da parte della moglie, si decide, ma vuole che con lui ci sia anche la moglie.

«Entrammo. Io – racconta la madre – presi la mano destra di Benedetta e le comunicai: “Il babbo è qui. Da tanti giorni lo aspettavi. Lui non poteva. Ma adesso è venuto”. Lei gli disse: “Babbo, dammi le mani”. Quando il babbo le diede le mani, lei le baciò e disse: “Queste mani, queste manone grosse, quanto hanno lavorato per i tuoi figli! Come ti sono grata! Scusami, babbo, se qualche volta ti ho dato dei dispiaceri. Adesso vai al tuo lavoro. Non voglio rubarti del tempo. Volevo dirti solo che da tanto non sentivo le tue mani!”

Mio marito, che si aspettava un rimprovero, a sentirsi dire quelle parole, a vedersi baciare le mani, si mise a piangere e uscì dalla camera. Io rimasi. Benedetta si immerse in preghiera. Dopo un poco, stese la mano e sentì che io ero là, vicino a lei. Disse: “Mamma, sei ancora qui? Perché non mi parli?” Le risposi: “Perché sono molto arrabbiata con te”. Benedetta mi disse: “Davvero, mamma? Perché?” Ero proprio in collera e dissi tutto d’un fiato: “Perché è quasi un mese che volevi parlare con il babbo. Io mi aspettavo che tu gli dicessi chissà cosa!… Invece l’hai ringraziato per il suo lavoro, gli hai baciato le mani…” Benedetta esclamò: “Allora, mamma, sono anch’io arrabbiata con te”. “Ah, va bene, invertiamo le cose!” Benedetta concluse: “Non invertiamo niente. Soltanto, ricordati: se qualcuno sbaglia nei tuoi confronti o verso altre persone, fagli sentire che lo ami di più. Solo così proverà l’umiliazione di avere sbagliato. L’amore corregge. I rimproveri suscitano la ribellione. Amalo come prima e più di prima. Lui comprenderà il proprio errore”».

In Benedetta ardeva un amore disinteressato e sempre pronto a fare il primo passo… verso tutti: per questo motivo Dio viveva in lei e la riempiva di pace. E la pace di Benedetta contagiava chi poteva avvicinarla.

 

L’ultimo giorno: «Grazie»

20 gennaio 1964, domenica. Attese invano che alcuni amici andassero a trovarla. La loro assenza la rattristò: «Sai, mamma, per molti Benedetta è già morta. Eppure molti mi ricorderanno, rimpiangeranno di non essermi stati accanto in quest’ora. La fine è vicina, ma non dovrai mai sentirti sola, mamma, ti lascio tanti figli, tanti figli da guardare».

22 gennaio 1964, vigilia della morte. Conversò a lungo con la mamma e con l’infermiera: «Ho mirato molto in alto: vorrei raggiungere il Signore… Tutti noi siamo in una sala d’aspetto, in attesa, come in stazione… Dopo l’inverno viene sempre la primavera».

Ore 22. Chiama la mamma. E dice, indicando col dito verso l’alto, cercando l’immagine del Bambino fra le braccia della Madonna a capo del letto: «Vedi, Lui è un Dio che opera meraviglie: ricordatelo».

E poi aggiunse: «Mamma, ti chiedo un favore: inginocchiati accanto a me e ringrazia il Signore per tutti i doni che mi ha fatto». La mamma guardò la figlia e la vide deformata, impedita in tutte le sue espressioni vitali, inchiodata sul letto da anni, cieca e sorda e privata di tutto ciò che le persone abitualmente cercano per essere felici. La mamma ebbe un momento di ribellione e disse: «No, Benedetta! Non mi chiedere questo: io non ho la tua generosità!»

Poi la mamma guardò la figlia aspettando la reazione: il volto di Benedetta si fece triste… a causa della mamma. La mamma, allora, si pentì e si inginocchiò e, senza che Benedetta la vedesse, pianse… e ringraziò il Signore per lei: e lentamente pronunciò il Magnificat, così come Benedetta desiderava!

23 gennaio. Ore 8. Le avevano detto che c’era un uccellino sulla finestra. Lei chiese su quale delle due finestre fosse precisamente. Emilia, che si era accoccolata sul letto alla sua sinistra, le spiegò che l’uccellino era appunto sul balcone, cui lei stessa volgeva le spalle. Allora Benedetta tese la mano sinistra per prendere quella dell’infermiera, mentre con l’altra stringeva quella della madre; e, rivolta in quella direzione, si mise a cantare: «Rondinella pellegrina…», indugiando molto sulle ultime parole. Pareva proprio che guardasse di là dai vetri. L’infermiera fu colpita dall’accento particolare della voce, sottile, ma limpida, come da anni non aveva più: «Signora, ma non sente che voce? Questa è voce che viene dal cielo: la Benedetta muore». Poi corse dalla Carmen, la sorellina più piccola, e le disse: «Va’ di là, baciala prima di andare a scuola, quando torni non la trovi più». Carmen abbracciò la sorella strettamente, tanto che la mamma la rimproverò perché temeva potesse farle male. Benedetta disse: «Ciao Carmen, sii più buona che brava».

La mamma va un momento in cucina. Un uccello beccuzzava dietro la vetrata; poi prese il volo. La madre, seguendolo, vide qualcosa di bianco nell’aiuola dove l’uccello si era posato.

Tornò in camera con la grande notizia: «Benedetta, nell’aiuola grande è nata una rosa».

«Di che colore?» domandò Benedetta.

«Bianca».

«Oh, mamma, quale notizia mi dai: questo è un dolce segno» [«Per coloro che credono, tutto è segno» aveva detto una volta].

«Te la vado a prendere».

«No, è troppo presto ancora».

Poi Benedetta chiese alla madre di leggerle la lettera che le aveva scritto Lucio, ma poi disse: «Scusa… sto pensando a quello studente di Epoca…»

«Sì, Benedetta, vuoi scrivergli?»

«Per potergli scrivere dovrei prima pregare, umiliarmi davanti a Dio e non ho più tempo… Dillo a…»

Parve assopirsi. Poi si riprese ancora e di nuovo chiese la lettera di Lucio. La madre, sempre più angosciata, saltava alcune frasi, cercando di abbreviare e di riassumere. Benedetta, lucidissima, se ne accorse e tentò un sorriso: «Mamma, o Lucio ha disimparato l’italiano o sei tu che non sai leggere».

La mamma batte con la mano sul dorso della mano di Benedetta in segno d’intesa e rilegge da capo tutto lo scritto di Lucio: «Avrei tanta voglia di venire a trovarti, ma per ora devo accontentarmi di incontrarti e pensarti alla Comunione durante la Messa; lì ci ritroviamo tutti».

Benedetta annuì. «E ora ti trascrivo un brano della

prima lettera di san Paolo ai Corinzi che mi piace molto».

«Anche a me» commentò Benedetta. «Perché dimostra come la croce, cioè Dio crocifisso per amore, non ha senso per chi vuole perdersi, ma è salvezza per chi lo riceve. Inoltre non sono i miracoli che ci fanno incontrare Dio, e neppure la sapienza, ma la croce di Cristo».

«Sì» commentò Benedetta.

E la madre continuò a leggere: «Il discorso della croce per quelli che si perdono è follia, ma per quelli che si salvano è sapienza di Dio e potenza di Dio. Poiché sta scritto: distruggerò la sapienza dei sapienti».

Benedetta chiese alla madre di ripetere ancora questo passo della lettera. E citò distintamente lei stessa la frase di Isaia, avanti ancora che la madre gliela “trasmettesse”: «Distruggerò la sapienza dei sapienti e respingerò l’abilità degli abili. […] Poiché, mentre i Giudei domandano segni e i Greci sono in cerca di sapienza, noi proclamiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i pagani…»

A questo punto la mamma concluse: «Ed ora non voglio affaticarti di più».

«Non fa niente, è l’ultima volta» mormorò Benedetta.

Illudendosi di distrarre la malata e di farla riposare un poco, la madre le disse: «Adesso vado a prenderti da mangiare, sono le undici» (La madre e l’infermiera mentivano a Benedetta riguardo alle ore).

«No, sono le dieci! È già l’ora. Rimani mamma. Mamma… ricordi la leggenda?»

Ormai la voce di Benedetta era un sussurro quasi incomprensibile nell’affanno dell’agonia che sopraggiungeva. La madre non capiva e tacque sconvolta. «Molto importante, capisci, mamma?»

«No, Benedetta…» rispose smarrita la madre.

«La leggenda, ricordati…»

Benedetta si sente molto male, divenne violacea in volto: furono chiamati d’urgenza il dottore e don Lino, il parroco di Sirmione.

Entrò la sorella Manuela. Benedetta la riconobbe dall’anello. (Riconosceva anche la madre per via di un grosso anello). Benedetta ebbe un’ombra di sorriso: «Grazie». Il dottore le praticò un’iniezione endovenosa.

Avvertendo la puntura, Benedetta volse la testa da un lato con un piccolo gesto di sofferenza: «Ma cosa mi fate ancora?»

Però si riprese subito: «Grazie». La madre, sconvolta, mise la mano di Benedetta in quella della sorella e corse fuori dalla stanza.

Benedetta fece un piccolo gesto, come di saluto. E parve addormentarsi: era entrata in Cielo! E la sua ultima parola è il testamento della sua fede, della sua bontà e della sua umiltà: grazie!

Il padre di Benedetta, quando accorse accanto al letto della figlia, ebbe un sussulto: il volto di Benedetta era ritornato bello ed espressivo come quando aveva sedici anni.

Benedetta ormai aveva vinto la grande battaglia contro l’egoismo e contro l’orgoglio; e aveva aperto a Dio la porta della sua libertà diventata umile, semplice e fiduciosa. E il suo corpo mandò un raggio di conferma.

E la leggenda? A che cosa voleva alludere Benedetta? La mamma, alcuni giorni dopo la morte, si ricordò che Benedetta amava tantissimo la leggenda Il mendicante e il re di Tagore: ella sentiva di aver dato tutto al Signore e sentiva di aver ricevuto il centuplo fin da quaggiù… in letizia, in pace, in speranza incrollabile, in gioia di vivere nell’attesa dell’incontro con Gesù.

Ecco la leggenda:

Ero andato mendicando di uscio in uscio lungo il sentiero del villaggio, quando, nella lontananza, apparve il tuo aureo cocchio come un segno meraviglioso; io mi domandai: Chi sarà questo Re di tutti i re? Crebbero le mie speranze e pensai che i miei giorni tristi sarebbero finiti; stetti ad attendere che l’elemosina mi fosse data senza che la chiedessi, e che le ricchezze venissero sparse ovunque nella polvere. Il cocchio mi si fermò accanto. Il tuo sguardo cadde su di me e scendesti con un sorriso. Sentivo che era giunto alfine il momento supremo della mia vita. Ma Tu, ad un tratto, mi tendesti la mano dritta dicendomi: «Cosa hai da darmi?»

Ah!, qual gesto regale fu quello di stendere la tua palma per chiedere a un povero!

Confuso ed esitante tirai fuori lentamente dalla mia bisaccia un chicco di grano e te lo diedi.

Ma qual non fu la mia sorpresa quando, sul finir del giorno, vuotai per terra la mia bisaccia e trovai nello scarso mucchietto un granellino d’oro! Piansi amaramente per non aver avuto il cuore di darti tutto quello che possedevo.

Benedetta non pianse, ma gioì per aver dato tutto e testimoniò che il Vangelo è vero fino all’ultima sillaba. Per questo motivo la sua ultima parola fu: «Grazie!»

«Oggi sarai con me in paradiso»

Tutti i sinottici ricordano che insieme a Gesù vengono crocifisso due ladroni. E Gesù è nel mezzo. Gli evangelisti Marco e Matteo sono concordi nell’affermare che anch’essi insultano Gesù (cfr. Mc 15,32; Mt 27,44). Solo Luca introduce la “variante” del “buon ladrone” (Lc 23,39-43).

«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (v. 39).  A queste parole reagisce l’altro malfattore crocifisso, che comincia a rimproverarlo: “Neanche tu hai timore di Dio benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male” (vv. 40-41). È da notare anzitutto che quest’ultimo, che noi chiamiamo “buon ladrone” riconosce il proprio peccato. Questa è la conversione: essere “rei confessi”, divenuti finalmente capaci di aprirci all’amore più grande di ogni male. Questo mi guarisce la vita dall’egoismo, e mi rende uomo nuovo. Personalmente credo che il malfattore è giunto a questo punto almeno per due motivi:

- egli sa che Gesù «non ha fatto nulla di male», è un “giusto”. Se è qui non è per colpa sua. Allora perché muore in croce? Che senso ha la sua morte?

- ha osservato come Gesù stava affrontando la morte: non una parola di disperazione, non una parola di odio e di rivalsa verso coloro che lo hanno condannato, non una invettiva contro i carnefici... E poco prima aveva anche offerto il perdono a tutti, quasi scusandoli: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Insomma la morte di quest’uomo era una “morte diversa” dal solito. È la morte di chi non è ripiegato su di sé, di perdona, di chi ama. E ama anche me. Gesù in croce ha attirato la sua attenzione: «Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Mostra la sua gloria di Figlio a tutti, compreso all’altro malfattore. Ma la sua gloria è “oscura”, è una luce che non si impone, esige che l’uomo non rimanga chiuso nel suo egoismo, nella sua ottusità, non rifiuti la luce della verità di Dio e di se stesso, ma riconosca la propria cecità. Allora il Figlio gli rivelerà la propria identità di figlio.

Ecco, qui capiamo in cosa consiste la salvezza personale: il Signore è andato in croce per star vicino a me che sono in croce. Quindi è morto per me, che sono malfattore, come per tutti gli uomini. Ed è proprio questo che il secondo malfattore capisce: la sua morte è solidarietà con me. In tal modo il secondo malfattore, “scoperta” la solidarietà di Gesù, si interpella ad essa: «Gesù (lo chiama con il nome proprio, che significa: Dio salva!) ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). Anche i lebbrosi lo avevano chiamato Gesù, Signore. E il cieco lo chiamò dicendo: «Gesù, Figlio di Davide». Cioè capisce che Lui è Re davvero. E capisce che c’è un Regno che va oltre la vita e la morte. È il Regno del Padre. Il Regno dell’Amore più grande della morte.

Ecco quale deve essere la certezza di ogni cristiano: sono salvato nella morte proprio per il fatto che qualunque sia la mia vita e la mia morte, Dio è lì con me. E la mia morte è sempre comunione con Lui. E siccome la paura della morte è il principio dell’egoismo - cioè dell’autodifesa, da cui derivano le mie cattive azioni -, allora, con la certezza che Dio è sempre con me posso finalmente vivere una vita nuova, cioè da figlio e da fratello. Ora non ho più bisogno di salvarmi a tutti i costi perché sono stato liberato dalla paura della morte (cf. Eb 2,14).

Al malfattore Gesù risponde: «Amen, ti dico, oggi, sarai con me in paradiso». Non domani, oggi. Gesù aveva detto già altre volte oggi” (cf. 2,11; 4,21; 6,26; 13,32-33; 19,9; 22,34); questo è il settimo oggi, l’oggi definitivo della salvezza. Quando è l’oggi di Dio? Quando noi ascoltiamo la sua Parola. L’ascolto della Parola ci rende contemporanei alla salvezza, all’oggi eterno di Dio che ci ha aperto in Gesù.

«... con me sarai nel paradiso». “Con me”: è questa la salvezza. Essere in comunione con Lui, l’essere con Lui.

Forse a noi disturba questa generosità di Gesù. “Quel ladrone non si merita tale dono! Neppure un po’ di purgatorio! Niente! Non è giusto!”. È un modo comune di ragionare. Ma non è quello di Gesù. Gesù sa che nulla meritiamo. Che tutti, in realtà siamo mal-fattori, cioè non siamo all’altezza di quel fare-il-bene a cui simo chiamati. E se riconosciamo che abbiamo fatto del bene, dobbiamo sinceramente riconoscere che è grazia di Dio, «perché senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). È il suo dono, il per-dono a creare in noi la capacità di portare «molto frutto».

La logica del per-dono (cioè, etimologicamente, il “dono per”) è quindi la logica divina che siamo chiamati a vivere anche noi se vogliamo configurarci a Gesù. Qui mi soffermo su due aspetti di questa logica: il perdono e il dono di sé.

 

Il perdono

Le obiezioni al perdono

Gesù ci chiede di perdonare sempre (cfr. Mt 18,22). Il perdono è espressione di libertà, forse la più alta, proprio perché imprevedibile e inscrutabile. È “difficile” capire perché qualcuno decida di perdonare, mentre possono apparire comprensibili le motivazioni di chi rifiuta di accordare questo gesto, anche per piccoli sgarri. Per questo ci sembrano più “ragionevoli” le seguenti, ricorrenti, motivazioni:

- Se mi vendico, starò meglio. Falso. Perché anche quando la vendetta si realizza con successo, non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. C’è infatti il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire.

- Non posso perdonare, provo ancora rancore. Certo, non si può perdonare in un batter d’occhio. Ci vuole tempo. C’è tutto un cammino da fare. E il primo passo è quello di dare voce alla rabbia e alla protesta per la sofferenza subita. È il primo passo, indispensabile per poterne compiere altri, un passo obbligatorio per il processo del perdono.

- Non riesco a dimenticare. Perdono e dimenticanza sono atteggiamenti completamente diversi: il primo è un atto volontario, il secondo involontario. Prescrivere la dimenticanza è come dire: «ricordati di dimenticare». Un simile atto risulta, oltre che contraddittorio, anche dannoso, perché porta all'effetto contrario, rafforzando la memoria dell'avvenimento. È ciò che in psicologia viene chiamato «intenzione paradossale», in cui la proibizione di un evento favorisce il suo insorgere. Se ci fosse la dimenticanza non ci sarebbe alcun motivo per parlare di perdono. Invece si perdona proprio perché c’è qualcosa che ci fa soffrire perché ritenuto ingiusto. Allora la “dimenticanza” non è un motivo valido per non perdonare.

- Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, e quindi anche quella di chi mi ha ferito.

 

I passi del perdono

Il perdono è una conquista, quella appunto dei forti che vincono il male con il bene. È ciò che Gesù ha fatto. È ciò che tanti santi hanno fatto.

Quali sono le tappe per raggiungere il perdono? Dando per scontato che ogni esperienza coniugale è unica ed irripetibile, non è inutile tratteggiarne qualche elemento indicativo, quasi modello paradigmatico per una educazione al perdono che sappia coniugare in unità predisposizioni umane ed esigenze tipicamente cristiane. Il perdono rappresenta infatti il frutto di un insieme di atteggiamenti che toccano in profondità la nostra psicologia e richiedono un atto di trasformazione interiore, espressione a un tempo dell’impegno personale e/o di coppia e dono della grazia che viene da Dio e dalla presenza del suo Spirito

- Dare il nome al proprio rancore. È importante dare un nome ed esprimere il proprio rancore. Vederlo in faccia è già un modo per non lasciarci condurre ciecamente da esso. E così è anche importante esprimerlo nei giusti modi.

- Guardare l’altro con occhi diversi. Non si tratta di giustificare, ma di guardare in una prospettiva diversa, quella di cogliere l’altro nella sua verità personale. In fin dei conti l’altro non è il mostro che il mio rancore dipinge, ma spesso è una povera persona. P. Levi, riflettendo su ciò che Auschwitz aveva si­gnificato per chi, sopravvissuto, ne è rimasto segnato per sempre, riconosceva che il passo più auspicabile, anche se il più difficile, restava quello di capire l'of­fensore. L'empatia consente di restituirgli i suoi colori reali, che non sono quelli che l'odio e il risentimento gli hanno attribuito; spesso anzi emerge una figura pietosa, che in un certo senso si è distrutta con le pro­prie mani.

Per questo risulta così importante conoscere la per­sonalità dell'offensore; quando ciò diventa possibile viene smantellata l'immagine che, istintivamente, ci si era fatti del colpevole, un'immagine, per quanto po­tente e suggestiva, falsa.

- Rivisitare la propria storia. Non si può perdonare se non siamo consapevoli di essere stati perdonati. Fare memoria del perdono già ricevuto ci mantiene nell’umiltà e ci fa apprezzare la gratuità di chi ce l’ha donato. A partire da quella del Signore. Da questa consapevolezza non può che sgorgare il desiderio di essere io stesso capace di offrire il perdono a chi mi ha ferito.

 

La forza del perdono

Solo il perdono può convertire il cuore. Può far cambiare una persona. Per questo Gesù ha detto: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Chi guarda al Crocifisso conosce l’amore del Padre nel Figlio, non fugge più, cioè si converte; libero dalla cecità e dalle paure che lo bloccano, contempla la rivelazione della sua identità di figlio, per il quale il Padre ha dato suo Figlio.

Ci sono numerosi episodi che ci mostrano con lucidità la verità del Vangelo. Ne cito alcuni[1].

Emblematica è la recente sto­ria del Sudafrica, anzitutto la politica di governo adot­tata da N. Mandela, cristiano convinto di confessione metodista, all'indomani della sua liberazione, avvenuta nel 1990. Egli trascorse in carcere ben 27 anni, ingiustamente condannato a motivo del suo im­pegno nella lotta contro l'apartheid, un carcere duro, segnato dall'isolamento, dalle intemperie, dai lavori forzati e durante i quali morirono, senza che egli po­tesse neppure vederli, la madre e il fratello, e senza sapere nulla della moglie e dei figli, con cui non riuscì più a riallacciare il legame una volta tornato in libertà. Eppure egli decise di perdonare i suoi carcerieri e co­loro che lo avevano condannato, meravigliando i suoi stessi oppositori. Una volta ottenuta la carica di capo dello stato, fece del perdono la politica di ricostruzio­ne di un paese che era giunto sull'orlo della guerra civile: «Egli dette, sorprendendo tutti, un ricevimento per le vedove dei politici che lo avevano imprigionato e pranzò con il magistrato che aveva sostenuto la sua impiccagione»[2].

Per Mandela il perdono è l'arma più potente a disposizione di un uomo, capace di proteggerlo da ogni male, fino a renderlo invincibile, perché con esso sconfigge il suo più grande nemico, se stesso, mante­nendo salda la lucidità e il controllo di sé.

La vicenda del Sudafrica risulta sotto molti aspet­ti densa di insegnamenti. Nel corso del processo di pacificazione la psicologa P. Godobo Madikizela, membro della Commissione per la riconciliazione in Sudafrica, decise di incontrare in carcere E. de Kock, capo delle Squadre della morte, uno dei maggiori responsabili degli omicidi e violenze che segnarono il periodo dell'apartheid, al punto da essere sopran­nominato dalla gente Prime Evil («il male assolu­to»), per i cui reati venne condannato a 212 anni di reclusione. La Godobo descrive, in particolare, un momento di questo confronto, quando de Kock incon­trò alcune vedove — i cui mariti erano stati assassinati per suo ordine — che gli avevano comunicato il loro perdono: «Quando cercai di capire cosa intendesse con l'espressione “perdonare Eugene de Kock”, una delle donne disse che egli ci fornì molte più notizie di chiunque altro circa la morte dei loro mariti. Aggiunse che volle prenderlo per mano per mostrargli che c'era una possibilità di cambiare, e che lo perdonava, in­condizionatamente. Quando le vidi uscire piangendo, chiesi loro cosa significassero quelle lacrime. “Esse” — mi risposero — “non sono soltanto per i nostri mariti, ma anche per lui”. Questa fu per me una cosa così incredibile, da diventare l'inizio del mio lavoro nel campo del trauma e del perdono».

Al termine di quell'incontro de Kock sembra vacil­lare e riconoscere l'enormità di quanto compiuto: «La sua faccia cambiò; si poteva notare quanto fosse afflit­to; iniziò ad agitarsi, a tremare, la sua voce era rotta. Disse con un sospiro: “Avrei desiderato fare di più che dire `Sono dispiaciuto'. Avrei voluto riportarli in vita. E invece devo vivere con tutto questo”». A quelle parole, stupendo se stessa, Godobo si trovò ad abbrac­ciarlo, provando una profonda pena per lui[3].

Sono situazioni in cui il perdono può diventare una forza capace di sconvolgere le persone più indurite, come nient' altro potrebbe fare, una sorpresa che si ripresenta nelle circostanze più diverse.

È il caso di Yusuf Al-Azhari, primo ministro a Mogadiscio, che per ordine di Siad Barre si vide improvvisamente uccidere il suocero ed essere imprigionato per mesi, rasentando più volte la morte. Quando, anni dopo, decise di incontrare Barre a Lagos, dove si trovava in esilio agli arresti domiciliaci, e di perdonarlo, avverti non solamente una sorta di liberazione interiore, ma anche l'impatto sconvolgente di questo gesto sul suo aguzzino: «Mentre parlavo vedevo lo stupore sui suoi occhi. Vedevo il suo tormento interiore. Alla fine, vidi anche le lacrime del rimorso che gli rigavano le guance. Allora ringraziai l'Onnipotente che mi aveva aiutato a raggiungere quel luogo sacro nel mio cuore»[4].

Per quanto riguarda l'Italia, non si possono non ricordare gli episodi, per lo più nascosti ma altrettanto significativi, di coloro che decisero di perdonare gli assassini dei loro mariti, figli, fratelli, parenti, amici, durante i sanguinosi anni del terrorismo. G. Bachelet, figlio del professor V. Bachelet, ucciso a Roma dalle Brigate Rosse, in occasione dei funerali del padre volle ricordare i suoi assassini, accordando loro il per­dono, suo e dei familiari, e auspicando il loro ravvedi­mento. Anni dopo, un gruppo di ex terroristi indirizzò un memoriale al p. A. Bachelet, fratello della vittima, in cui riconoscevano di essere stati sconfitti non dalle armi dell'esercito, né dai programmi politici, ma da quel gesto accordato loro, un gesto che aveva frantu­mato la loro ideologia: «Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante il funerale del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevo­cabile [...]. E se abbiamo cercato di cambiare, ciò è avvenuto anche perché qualcuno ha testimoniato per noi, davanti a noi, della possibilità di essere diversi»[5].

Ben presto a questa lettera seguirono degli incon­tri, che con il tempo sciolsero nelle vittime rancori e diffidenze, per lasciare posto a nuovi sentimenti, e suscitarono negli assassini il desiderio di riparare in qualche modo al male compiuto. Questi incontri, indubbiamente difficili e densi di sofferenza, sono risultati anche i momenti più toccanti di questo per­corso verso la riconciliazione. I passi compiuti, da entrambi le parti, furono di tipo diverso: c'è chi non volle saperne nulla, chi decise silenziosamente di perdonare, chi chiese e ottenne un incontro per potersi finalmente guardare in faccia, l'assassino e la vittima, come ricordano in questa lettera due terroristi: «Ieri abbiamo ricevuto la visita della vedova dell'uomo che abbiamo ucciso. Descrivere le sensazioni provate quando abbiamo incontrato quella signora minuta, ma incredibilmente coraggiosa, è impresa pressoché impossibile. In quel momento sembrava che ogni di­stinzione di ruoli, qualsiasi etichetta o categoria non avessero più significato»[6].

Un momento decisivo di questo percorso sembra essere stato, per tutti, la presa di contatto con la pro­pria fragilità, capace di sciogliere una scorza apparen­temente impenetrabile, rivelando nuove possibilità, nuove strade di vita: «Molti di noi sono stati indotti a riflettere proprio dalla concessione del perdono da parte delle persone offese, da tante famiglie delle vit­time della violenza. Il perdono concesso come dono gratuito ha testimoniato e testimonia delle possibilità di essere diversi su entrambi i fronti, di poter cam­biare, di poter mettersi in movimento verso l'altro, di aver fiducia nell'uomo»[7].

È una conferma dell'osservazione di P. Ricoeur: accordare il perdono è un atto di verità, è riconoscere che l'uomo, ogni uomo è sempre più di ciò che ha fatto. Questo gesto di fiducia diviene così una modalità concreta di mostrare questo «oltre», di dare spazio alle potenzialità di bene.

Il perdono in questi contesti drammatici, lungi dall'apparire un elemento melenso e superficiale, si rivela davvero, come riconosceva Mandela, l'arma più potente a disposizione dell'uomo, di fatto l'unica arma davvero capace di spezzare la spirale dell'odio e della violenza, attestando che un modo differente di vivere è possibile, e alla portata di tutti. Un gesto che a sua volta si diffonde, contagiando altri, dando la forza di compiere a loro volta questo gesto umanamente impossibile. È l'aspetto di maggior stupore che emer­ge da parte di chi è visto destinatario inaspettato del perdono, come attesta la lettera di questo brigatista: «Mi sono accorto che, una volta innescata la spirale del perdono, la spirale dell'amore gratuito, nessuno la può più fermare. Diventa un contagio, una luce che si accende di sguardo in sguardo, di gesto in gesto, una reazione a catena: questo è il miracolo di cui oggi sono testimone. Ho questa coscienza nuova, che se riuscirò a trasformare la mia vita, questa diventerà per gli altri un segnale, e quando loro faranno altrettanto, questo segnale si propagherà, e raggiungerà altri an­cora...» [8].

 

Il dono di sé

Chiamo così la carità con la quale tanti santi hanno dato non solo qualcosa, ma la loro stessa vita a servizio dei fratelli. Tra i tanti vi voglio ricordare la bontà umile di papa Giovanni XXIII e alla meravigliosa carità di madre Teresa di Calcutta.

 

Giovanni XXIII

Il 28 ottobre 1958 viene eletto papa: un uomo di 77 anni! Quando si affaccia alla loggia della basilica di San Pietro per la prima benedizione resta abbagliato dai fari che illuminano la facciata. Quando rientra dopo la benedizione, si ferma un istante ed esclama: «Non ho visto niente! Se voglio vedere i volti dei miei fratelli, debbo tenere spenti i fari del mio orgoglio!» Quanta umiltà! E quanta attenzione per la gente, per il gregge di Dio a lui affidato!

Arriva il primo Natale e il papa confida al segretario: «La mia mamma, in occasione delle feste faceva sempre un’opera di misericordia. Andrò a trovare i bambini dell’Ospedale Bambin Gesù».

Il segretario, preoccupato, fece osservare: «Padre Santo, dal 1870 il papa non è più uscito dal Vaticano. Come possiamo realizzare questo suo desiderio?»

Il papa, sorridendo, rispose: «È semplice, caro don Loris! È semplice: apriamo la porta!» E così avvenne.

Grande emozione tra il personale, tra i genitori e i bambini. In una corsia papa Giovanni nota un bambino che non si è allontanato dal suo lettino. Papa Giovanni si avvicina, il bambino sente la vicinanza del papa e allunga la mano per toccarlo: «Sei il papa, ma io non ti vedo… perché sono cieco!»

«Come ti chiami?»

«Mi chiamo Carmine».

«Carmine, siamo tutti un po’ ciechi». Papa Giovanni sapeva leggere ogni fatto con la profondità dei semplici.

26 dicembre 1958: visita i carcerati del carcere Regina coeli. Allontana il testo scritto già preparato e confidenzialmente dice: «Quando ero bambino, un mio parente fu messo in carcere perché era andato a caccia senza licenza. Quanta sofferenza! Vi capisco! Però ora è necessario ricostruire la vita, ricostruire il cuore.

Ho messo il mio cuore accanto al vostro cuore. Quando scrivete a casa, dite alle vostre mamme e alle vostre mogli e ai vostri figli: “Il papa vi saluta con affetto”».

Un detenuto improvvisamente rompe il cordone di sicurezza e si getta ai piedi del papa ed esclama: «Papa Giovanni! Io sono un delinquente. C’è speranza anche per me?»

Papa Giovanni si china, lo abbraccia e gli sussurra: «C’è speranza per tutti!»

Tornando in Vaticano, in macchina, confida al segretario: «Caro don Loris, queste sono le gioie del papa! E queste sono le gioie di ogni cristiano».

Il 25 gennaio 1959 con un coraggio impressionante comunica la decisione di indire un Concilio Ecumenico affinché la Chiesa sappia trovare un linguaggio adatto per poter presentare all’uomo contemporaneo la bellezza del Vangelo. Il Papa è consapevole della situazione drammatica che il mondo stava vivendo, e la Chiesa non può alla sua missione di illuminare le coscienze con la parola di Dio e offrire a tutti la “medicina” della misericordia.

Il 22 ottobre 1962 il mondo è con il fiato sospeso: una flotta di navi sovietiche, carica di missili a testata nucleare, per decisione di Nikita Kruscev marcia verso Cuba; il presidente degli Stati Uniti John Kennedy è pronto a reagire a questa provocazione: potrebbe scoppiare la terza guerra mondiale, che certamente sarebbe stata una guerra atomica. Papa Giovanni si mise subito all’opera e, dopo una notte di febbrili contatti con Washington e Mosca, annuncia la pace fatta. Tutto il mondo leva un sospiro di sollievo.

Il 24 maggio. Papa Giovanni è a letto per un improvviso aggravamento della malattia, che gli causa continue emorragie. Sul far della sera esclama: «Sono qui in obbedienza. Ho davanti a me la mia anima, il mio sacerdozio, la Chiesa universale. Sono tranquillo nelle mani di Dio. Ecco, Gesù crocifisso mi invita a stendere le mie braccia accanto a lui, mentre Maria, la nostra cara madre celeste, mi incoraggia…»

Lo sguardo e il cuore di papa Giovanni sono costantemente rivolti al Crocifisso.

30 maggio, ore 23.30. Il papa accusa un dolore improvviso assai acuto alla regione gastrica, accompagnato da grave risentimento delle condizioni generali. Il professor Mazzoni profila l’ipotesi di avvenuta perforazione del tumore e nel contempo esclude la possibilità di un intervento chirurgico. Giovanni XXIII ha ormai le ore contate.

Viene chiamato anche il professor Valdoni, che tutti sapevano essere piuttosto lontano dalla fede. Papa Giovanni lo osserva mentre si china per visitarlo e poi, delicatamente, gli sussurra: «Professore, mentre lei si preoccupa del mio corpo, io penso alla sua anima e prego per lei». Il professor Valdoni rimase visibilmente commosso.

La bontà di papa Giovanni, appresa dallo sguardo costante verso Gesù Crocifisso, colpì il medico agnostico e indifferente nei confronti della fede.

31 maggio. Il segretario del papa, lo avvisa dell’imminenza della morte: «Santo Padre… l’ora è giunta: il Signore vi chiama!» Papa Giovanni non si scompone per niente e, dopo attimi di riflessione, aggiunge: «Sarà bene sentire la sentenza dei medici».

«Questa è la sentenza, Santo Padre: è la fine. Il tumore ha compiuto la sua opera».

Papa Giovanni prontamente risponde: «La mia valigia è pronta! Mi hai dato la notizia più bella, quella che aspetto da tutta la vita!»

Il segretario esclama: «Come farò senza di lei?»

Papa Giovanni resta in silenzio per qualche istante e poi risponde: «Caro don Loris, mi hanno tirato tanti sassi, ma io non li ho mai raccolti e non li ho mai restituiti. Fai così anche tu: il Signore penserà a te». Anche questa risposta nasce dalla frequentazione del Calvario e dall’attenzione umile e obbediente verso ogni parola e ogni gesto del Divino Maestro. Alle ore 11, prima di ricevere il Santo Viatico, si rivolge agli astanti che sono in ginocchio e pronuncia parole di fede grandissima: «Questo letto è un altare, l’altare vuole una vittima: eccomi pronto! Offro la mia vita per la Chiesa, la continuazione del Concilio, la pace del mondo, l’unione dei cristiani. Il segreto del mio sacerdozio sta nel Crocifisso… Quelle braccia allargate dicono che egli è morto per tutti, per tutti, nessuno è respinto dal suo amore e dal suo perdono».

Il papa, con estrema semplicità, spiega qual è il segreto della sua vita: «Il Crocifisso… quelle braccia allargate… per tutti!»

I fratelli di papa Giovanni accorrono al capezzale per dare un ultimo saluto al papa morente. Zaverio, inavvertitamente, si mette in fondo al letto e, con la sua persona slanciata, nasconde il Crocifisso, che papa Giovanni teneva appeso davanti e non dietro a sé. Il papa si agita e non riesce a parlare, ma tutti si accorgono e capiscono che c’è qualcosa che non va.

Zaverio si sposta, lascia di nuovo vedere il Crocifisso e il papa ritorna sereno: non poteva lasciare questa terra senza posare l’ultimo sguardo su colui che aveva ispirato tutti i suoi gesti e tutte le sue parole.

Il mondo intero è in preghiera per lui: i detenuti di Regina Coeli ascoltano tre Messe e gli scrivono: «Padre santo, vi siamo vicini con il nostro amore». Nel pomeriggio una folla immensa si raduna in piazza San Pietro e il cardinale Traglia celebra la Messa “per un ammalato”.

Alle ore 19.45 la Messa termina e si odono le parole del Vangelo conclusivo (come era in uso allora): «Venne un uomo mandato da Dio il suo nome era Giovanni» (Gv1,6). In quello stesso momento papa Giovanni muore.

 

Madre Teresa di Calcutta

Il desiderio in Agnes Gonxha Bejaxhiu,  (Madre Teresa) di appartenere totalmente a Dio – come racconta lei stessa – comparve per la prima volta all’età di dodici anni. «Sentii la chiamata, è qualcosa di personale. Non fu una visione. Non ho mai avuto visioni. Per sei anni pensai e pregai al riguardo. Talvolta dubitai persino di avere la vocazione. Ma infine ebbi la certezza che Dio mi stava davvero chiamando». Così Agnes formulò la sua richiesta alle Suore di Loreto. E cominciò la sua prima esperienza tra i bambini poveri nei bassifondi di Calcutta.

«All’inizio quando vidi dove i bambini dormivano e mangiavano, mi assalì l’angoscia. Non è possibile trovare povertà peggiore. Eppure loro erano felici. Beata infanzia! La prima volta che li incontrai non erano affatto contenti. Iniziarono a saltare e cantare solo quando misi la mia mano nelle loro manine sporche. Da quel giorno mi chiamarono “Ma”, che significa “madre”…Mi arrotolai subito le maniche, sistemai la stanza, trovai dell’acqua, una scopa ed iniziai a spazzare il pavimento…. Stettero a guardarmi a lungo. Vedendomi allegra e sorridente le ragazze cominciarono a d aiutarmi ed i ragazzi portarono altra acqua. Dopo due ore la stanza era stata trasformata in una pulita aula scolastica».

Da una lettera di Suor Teresa alla madre Drana: «Mi rincresce di non essere con te, ma sii felice, carissima mamma, perché la tua Agnes è felice….Il nostro centro qui è molto bello. Sono insegnante e amo il mio lavoro. Sono anche a capo dell’intera scuola e tutti mi stimano».

Nel 1948 prende consapevolezza della chiamata nella chiamata. «Viaggiavo verso Darjeeling per il mio ritiro. In treno ho ricevuto la chiamata a lasciare tutto e seguire Gesù per servire coloro che, come Lui, non hanno dove appoggiare il capo: gli ignudi, i disprezzati, gli abbandonati, i dimenticati, i derelitti….Non c’era dubbio che fosse opera Sua….

Il messaggio era chiaro. Era un ordine. Sapevo qual era il luogo a cui appartenevo, ma non sapevo come arrivarvi, né come tutto si sarebbe realizzato. Lasciai che Dio mi usasse come più Gli piaceva, in modo a me sconosciuto…». Così, dopo aver ottenuto il permesso di lasciare il convento di Loreto, iniziò il suo lungo servizio tra i più poveri.

Ottiene dal papa Pio XII l’esclaustrazione dall’Istituto delle Suore di Loreto. Gli inizi sono difficili: come religiosa è tenuta ad obbedire all’Arcivescovo di Calcutta e compie dei gesti che allora erano rivoluzionari: per esempio decide di indossare l’abito tipico delle donne povere, un sari bianco con le strisce blu e la croce sulla spalla. Dopo aver perfezionato il corso di infermiera si dedica totalmente ai poveri e ottiene il permesso di aprire il primo ricovero. Madre Teresa non apre un grande ospedale, ma una semplice stanza in cui trasporta i moribondi che ella raccoglie lungo le strade di Calcutta, e li assiste, perché possano morire in maniera degna di un uomo.

Il lavoro è enorme. Altre Suore che prima erano sue consorelle, chiedono di aggregarsi a lei e nel 1950 si forma il primo nucleo delle Missionarie della Carità.

A Madre Teresa non gli mancheranno le critiche: una tra queste perché Madre Teresa era contro l’aborto; un’altra perché si diceva che la sua carità portava sollievo ai moribondi, invece bisognava agire sulle cause. Discorsi anche giusti, teoricamente, alle quali ella rispondeva che intanto che si discute sulle cause, le persone muoiono

Proviamo ora a penetrare con discrezione dentro la sua anima. Nel 1948, dopo aver lasciato Loreto, scrive: «Dio vuole che io sia una suora libera, ricoperta della povertà della croce…». «Gesù, unico amore del mio cuore, desidero soffrire ciò che soffro e tutto ciò che Tu vuoi io soffra per puro amor Tuo, non per i meriti da acquistare, né per le ricompense promesse, ma solo per renderTi felice, per lodarTi e benedirTi nel dolore come nella gioia».

Certamente questa carità di Madre Teresa nasce dalla contemplazione amorevole della croce:

«“HO SETE” (cfr. Gv 19,28) è qualcosa di molto più profondo che dire semplicemente “ti amo”. Per me la sete di Gesù è qualcosa di così intimo….Se ascolti con il cuore sentirai, ti accorgerai della Sua presenza, capirai…».

«Hai visto con gli occhi dell’anima con quale amore Lui ti guardi? Hai sentito le parole di vita che Lui ti rivolge? Chiedi questa grazia. Lui desidera ardentemente dartela».

«“HO SETE, DAMMI DA BERE” disse Gesù quando fu lasciato senza alcuna consolazione, quando stava morendo in assoluta povertà, quando venne lasciato solo, disprezzato e lacerato nel corpo e nell’anima. Parlava della Sua sete, non di acqua, ma di amore, di sacrificio».

«Gesù, conoscendo l’amore del Padre per ciascuno di noi, ha sofferto ed è morto così che noi possiamo amare ed essere amati dal Padre. Non aveva bisogno di soffrire sulla Croce, ma lo ha fatto perché ti ama e mi ama…..Nessuno, nemmeno Gesù avrebbe potuto sopportare quell’umiliante sofferenza se non per amore».

«Per se stessa la sofferenza non ha senso, ma quando permetto a Gesù di soffrire in me, quando Lui mi concede di condividere la Sua Passione, allora il significato è straordinario. E‟ il dono più grande che Dio possa fare ad un’anima. Possiamo offrirlo in riparazione, per la pace, per un amore più grande….».

«Gesù ha sete del nostro amore e questa è la sete di tutti, poveri e ricchi. Noi tutti abbiamo sete d’amore… “HO SETE” è una vita che deve essere vissuta a fianco di Gesù, non una semplice devozione».

«Fino a quando non proverai nell’intimo che Gesù ha sete di te, non potrai sapere chi Lui vuole essere per te, o chi Lui vuole che tu sia per Lui».

Fondamentale è l’Eucaristia. «Per poter donare Gesù dobbiamo avere Gesù. Le persone non hanno fame solo di pane, hanno fame di amore comprensivo, vogliono Dio, vogliono Gesù nella loro vita. Questa fame deve essere saziata, e tu ed io abbiamo la responsabilità di donar loro Gesù».

«Noi traiamo la vera forza dall’unione intima con Cristo. La nostra giornata inizia con la S. Messa. Tutte noi sappiamo che se non crediamo e vediamo Gesù sotto le sembianze del pane sull’altare, non lo potremo riconoscere nel volto sfigurato dei poveri».

L’adorazione eucaristica, insieme alla S. Messa, era un momento di preghiera fondamentale. «Non è possibile impegnarsi direttamente nell' apostolato senza essere anime di preghiera. Dobbiamo essere consapevoli della nostra unione con Cristo così come Lui lo era della Sua con il Padre. La nostra opera è realmente apostolica solo nella misura in cui la lasciamo agire in noi e attraverso di noi, con la Sua potenza, il Suo desiderio, il Suo amore».

«Tu ed io dobbiamo condividere questo lavoro, unirci ai piedi di Gesù nel Santissimo Sacramento e lì, ai suoi piedi, offrirGli il nostro amore ed il nostro servizio…  L’Eucarestia ed i poveri non sono che un unico Amore».

Madre Teresa vedeva e amava Gesù nel povero. «Toccando il Cristo ammalato tocchiamo il Suo corpo sofferente e questo ci farà dimenticare la nostra ripugnanza e le tendenze naturali; ci metterà a contatto con la potenza dell’amore che guarisce. Abbiamo bisogno di occhi di fede per vedere Cristo nel suo corpo lacerato, dietro ai vestiti sporchi sotto i quali si nasconde il più bello tra i figli dell’uomo».

«Come devono essere pure le nostre mani per toccare il corpo di Cristo come il sacerdote Lo tocca sull’altare… Con quale fede e devozione solleva l’Ostia Sacra!” Lo stesso dobbiamo fare noi quando solleviamo il corpo dei nostri poveri ammalati. Mettiamo lo stesso amore, la stessa fede e devozione nelle nostre azioni, e Gesù le riceverà come se Gli siano state fatte personalmente».

«Credo alle parole di Gesù: “Lo avete fatto a Me” questo è l’unico motivo e la gioia della mia vita: amarlo e servirlo sotto il volto sfigurato del povero, di colui che non è accettato, dell’affamato, dall’assetato, dell’ignudo, del senzatetto, e, naturalmente, facendo questo, proclamo il Suo amore e la Sua compassione verso ciascuno dei miei fratelli e delle mie sorelle sofferenti».

Ci colpisce come Madre Teresa abbia vissuto questo eroismo della carità nonostante l’oscurità della fede che ha vissuto per molti anni. «Se mai diventerò una santa, sarò di sicuro una santa dell’oscurità. Sarò continuamente assente dal Paradiso per accendere la luce a coloro che, sulla terra, vivono nell’oscurità» (Lettera a P. Neuner, 06.03.1962.

Nel 1942, prima ancora della “chiamata nella chiamata”, aveva fatto il voto di non negare mai nulla a Dio. Qualche tempo dopo, racconta di aver avuto una locuzione interiore, una voce che le diceva: «Non ti rifiuterai di fare questo per me?». Questo momento di grazia, in cui sente Gesù, dura fino al 1947, cioè fino all’anno dopo di aver deciso di darsi completamente al servizio dei poveri. Ma dopo di allora non ha più sentito niente; salvo un mese nel 1958, poi fino alla morte non ha più sentito niente!

Anzi, più andava in mezzo ai poveri e più sentiva la fatica, l’oscurità della fede, tanto che all’inizio pensava che il Signore la stava purificando, la stava preparando a qualcosa di grande. Pensava che - come dice S. Giovanni della Croce - dopo la notte viene il giorno: ma quel giorno non veniva mai!

Da allora cominciano dubbi e “pene come dell’inferno”, dice lei stessa: «Dicono che la pena che soffrono le anime nell’inferno è la perdita di Dio. Io sperimento proprio questa terribile pena … di Dio che non sembra esistere in realtà … Gesù, ti prego: perdona le mie bestemmie».

Ma la sua fede non viene meno, continua a pregare in una solitudine impressionante e dice:  «Signore, mio Dio, chi sono io perché Tu mi abbandoni? … Io chiamo, io mi aggrappo, io voglio ... e non c’è nessuno a rispondere, nessuno a cui mi possa aggrappare… Sono sola. L’oscurità è così fitta e io sono sola, non voluta, abbandonata. La solitudine del cuore che vuole amore è insopportabile. Dov’è la mia fede?.... Mio Dio, quanto è dolorosa questa sofferenza sconosciuta. Fa soffrire senza tregua …. Non oso pronunciare le parole e i pensieri che si affollano nel mio cuore e mi fanno soffrire un’indicibile agonia … Se c’è Dio, per favore mi perdoni, confido che tutto finirà in Cielo con Gesù … Mi viene detto che Dio mi ama, e tuttavia la realtà dell’oscurità, del freddo e del vuoto è così grande che niente tocca la mia anima. Prima che l’opera iniziasse c’era così tanta unione, amore, fede, fiducia, preghiera, sacrificio. Ho fatto un errore ad abbandonarmi ciecamente alla chiamata del sacro Cuore? L’opera non è in dubbio, perché sono convinta che essa sia Sua e non mia. Non sento nulla, nemmeno un semplice pensiero né tentazione entra nel mio cuore per rivendicare qualcosa dell’opera […]. Se ciò ti porta gloria, se Tu ottieni una goccia di gioia da questo, se le anime sono portate a te, se la mia sofferenza sazia la tua sete, eccomi, Signore, con gioia accetto tutto fino alla fine della vita e sorriderò al tuo volto nascosto, sempre» (dalla “Lettera-preghiera al Signore”, senza data).

Ma Madre Teresa non viene meno alla sua fede e continua a invocare e nella notte che la tormenta dice:  «Gesù, ascolta la preghiera, se ciò ti è gradito, se il mio dolore, la mia sofferenza, la mia oscurità e la mia separazione ti danno una goccia di consolazione, fa’ di me quello che vuoi, sono tua. Imprimi nella mia anima e nella mia vita le sofferenze del tuo cuore. Non guardare i miei sentimenti e neanche il mio dolore: se la mia separazione che viene da te, permette che altri si avvicinino a Te, voglio di tutto cuore soffrire ciò che soffro, non solo adesso, ma per l’eternità. Se il mio dolore, la mia sofferenza serve a qualcuno, l’accetto».

Quindi impara non solo ad accettare l’oscurità della fede, ma a farne uno strumento di donazione per gli altri. Scopre, cioè, che questa prova che il Signore le chiede di vivere (”Mi hai promesso di non rifiutarmi niente”), non è solo per purificarla, ma è un modo di dare la vita. È il modo che anche Gesù ha vissuto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!».

Ella scrive: “L’oscurità, la solitudine e il dolore, la perdita e il vuoto di fede, di amore e di fiducia; questo è tutto ciò che ho e in tutta semplicità lo offro a Dio per le sue intenzioni, in segno di gratitudine. Preghi per me, perché possa non “rifiutare Dio” e accettare ogni cosa e qualsiasi cosa in abbandono assoluto al santo volere di Dio, ora e per tutta la vita” (Lettera a p. Picachy, 26.04.1959).

Madre Teresa capisce sempre più che in questo modo partecipa alla sete di Gesù. E più va avanti, più ha la consapevolezza di capire che cosa sentiva Gesù quando dalla croce diceva: “Ho sete”. È questo che le dà la forza di sopportare per tanti anni la prova: la certezza che grazie a quella prova lei condivide il grido di Gesù sulla croce: “Ho sete”. Questo le basta, non solo per purificarsi, ma per contribuire alla riparazione del peccato nel mondo.

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[1] Cfr. G. Cucci, P. come perdono, Cittadella, Assisi 2011, 46-51.

[2] C. Regalia - G. Paleari, Perdonare, cit., 59.

[3] Cfr. G. Godobo Madikizela, A Human Being Died That Night: A South African Story of Forgineness, , Houghton, Marines Books, 2004.

[4] Borris-Dunchnstang, Perdonare, cit., 218.

[5] A. Bachelet, Ritornate a essere uomini! Risposte di ex terroristi, Rusconi, Milano 1989, 16: corsivo nel testo.

[6] Ivi, 99.

[7] Ivi, 70-71.

[8] Ivi, 68.

«… perché vedranno Dio»

Questa è la promessa che Gesù fa ai puri di cuore: avere la possibilità di vederlo. Nell’AT a Mosè che chiede: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), Dio risponde: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Mosè vedrà Dio solo di spalle (cf. Es 33,21-23). Così Mosè può sperimentare la presenza di Dio nella sua vita, senza riuscire a fissarlo. La stessa esperienza è vissuta anche dal profeta Elia, che arriva a cogliere la misteriosa presenza di Dio solo nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12).

Gesù annuncia che l’impossibile è diventato possibile.

Ma che cosa significa propriamente «vedere Dio»? La formula biblica appartiene al linguaggio teologico per designare l'evento escatologico. «Vedere Dio» implica una comunione profondissima, che trasforma l'uomo: trasformazione iniziata nella vita del credente, ma che si compirà solo nella pienezza dell'eternità. È la visione dei beati nel paradiso. In questa prospettiva, Giovanni nella sua prima lettera mette in evidenza quello che già siamo diventati per grazia, insistendo sulla tensione verso il compimento futuro, quando sarà possibile vedere direttamente Dio e ciò comporterà la nostra piena realizzazione, determinando la completa conformazione a Lui:

«Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3,2-3).

Si noti che il vedere Dio è legato anche ad una certa purificazione. «Vedere Dio» dunque significa diventare come lui, essere trasformati a sua perfetta somiglianza, eliminando ogni ostacolo e ogni limite creaturale della condizione dell'uomo sulla terra.

Lo ribadisce anche Paolo nell'elogio dell’agàpē, per sottolineare il contrasto fra la visione presente e la tensione alla futura pienezza: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia» (1Cor 13,12).

Per capire la novità del vedere Dio «faccia a faccia» ricordiamo qui quale è il limite creaturale della nostra conoscenza in questa vita. Qualunque sia l’oggetto della mia conoscenza, supponiamo un fiore, essa avviene non per un’unione fisica del fiore con me – il fiore rimane esteriore -, ma per il fatto che una rappresentazione di esso - che chiamiamo idea – viene colta dalla mia mente.

Orbene, la nostra futura conoscenza di Dio sarà diversa da questo modo di conoscere che ci sembra tanto diretto. Avverrà, infatti, attraverso un’unione immediata tra Dio e l’intelligenza umana: la stessa essenza divina viene nella nostra mente come rappresentazione di se stessa, diventando per noi al tempo stesso oggetto e principio di conoscenza. In altre parole, i beati conoscono Dio nella modalità nella quale Dio, che è spirito, conosce se stesso; non dunque come qualcosa di estraneo ad essi, ma – essendo pienamente in lui (Dio sarà tutto in tutti) - come se si identificassero con lui.

 

«Vedere Dio in tutte le cose»

Sant’Ignazio di Loyola ci insegna che è possibile «vedere Dio in tutte le cose». Sa che Dio opera in questo mondo e abita in tutta la realtà (la natura, l’uomo, la storia). Questo Dio, che è Creatore e Signore, può essere “scoperto” o “riconosciuto” negli avvenimenti della vita quotidiana. A sant’Ignazio gli era divenuto facile riconoscere questa presenza del Signore che lo riempiva di gioia.

Certo, questo “vedere Dio in tutte le cose” non è la visione del cielo; tuttavia riconoscere questa sua presenza nella vita di ogni giorno è un’esperienza profonda che riempie il cuore di gioia. È come incontrare – e molto più – la persona che si ama. È sempre una gioia vederla, incontrarla!

Durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro papa Francesco a chiare lettere disse: «Dio è reale se si manifesta nell’oggi»; «Dio sta da tutte le parti». E il Papa spiega: «C’è la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi. […] Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. […] E richiede pazienza, attesa […]». «Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni»[1]. 

Ma per vedere Dio nella nostra quotidianità, per riconoscerlo e gioire dell’incontro con Lui è necessaria la purificazione del cuore. Perché? Perché vediamo le cose e gli altri colorate con le passioni del nostro cuore.

 

Per un’educazione al vedere

Le relazioni — con se stessi, con gli altri e con Dio — si dete­riorano a cominciare dalla vista. Tolstoj nota che Anna Karenina si accorge di non amare più il marito dalla maniera in cui lo guarda, concentrandosi su difetti mai notati prima: «“Dio mio! Perché gli sono venute quelle orecchie?”, pensò, guardando la sua lingua fred­da, e specialmente le cartilagini delle orecchie, che ora l'avevano colpita e che sostenevano le falde del cappello rotondo»[2].

Per san Tommaso, l'azione più grave contro la verità non è tan­to la menzogna, ma avere verso l'altro uno sguardo spietato, sen­za misericordia. Esso riflette in realtà il proprio sguardo interiore, amareggiato, incapace di gustare il bene.  Il primo passo per vedere bene consiste anzitutto nel rendere esplicita la maniera con cui si guarda il mondo, gli altri, e se stessi. Si pensi all'acquolina in bocca con cui il goloso vede il cibo, il lussurioso una donna o l'ava­ro il denaro, modalità che mostrano un atteggiamento cosificante o predatorio nei confronti dell'altro e delle cose. Se il mondo ci appare grigio, è perché porta il nostro colore. Il primato della misericordia richiede anzitutto il riconoscimento della difficoltà, presente in tutti, a vedere bene, cioè a vedere il bene. Come recita uno splendido racconto ebraico: «Un giorno un rabbino chiese ai suoi studenti: “Come fate a dire che la notte è giunta alla fine e che sta tornando il giorno?”. Uno studente suggerì: “Quando si può vedere chiaramente che un animale in lontananza è un leone e non un leopardo”. “No”, ribatté il rabbino. Un altro disse: “Quando si può dire che un albero produce fichi e non pesche”. “No”, replicò il rabbino. “È quando si può guardare il volto di un'altra persona e vedere che quella donna o quell'uomo sono tua sorella o tuo fratello. Perché, fino a quando non riuscirai a farlo, non importa quale momento della giornata sia, è ancora notte”»[3].

Se la qualità del nostro sguardo incide sul rapporto con il creato (cose, avvenimenti, persone), tanto più vale per Dio. Bisogna avere il giusto sguardo, gli occhi puri, per riconoscerlo nei segni della sua presenza, lì nella bellezza della creazione, ma anche – in prospettiva antropologica - dove c’è umiltà, amore, speranza, gioia… in noi (nella nostra interiorità) e negli altri.

• Il primo passo per vedere Dio è dunque prendere coscienza di ciò che c’è nel nostro cuore. C’è il grano e la zizzania insieme (cfr. Mt 13,24-30). Non possiamo estirpare la zizzania – quel male che c’è nel nostro cuore («Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie» - Mt 15,19) con le nostre forze, ma possiamo vigilare su essa. La lotta spirituale di chi non cede alle “tentazioni” che ci vengono dal nostro cuore impuro è indispensabile. Perché quanto più cediamo ad esse, tanto più occupano la nostra fantasia e la nostra mente – lasciandoci poi trasportare nelle azioni da esse –. E vediamo la realtà con queste lenti, con questa distorsione. In realtà rischiamo di diventare ciechi. Quanto più invece lottiamo contro queste passioni, tanto più le vinciamo con la grazia di Dio, tanto più vediamo correttamente. È questo l’aspetto ascetico del cammino spirituale.

La possibilità di guardare in ma­niera differente può giungere anche dalle persone e dalle situazioni più inaspettate. È l'insegnamento che ricaviamo da questa simpatica storiella: «Un monastero era in via d'estinzione: non c'erano vocazioni. Il morale era a terra e il futuro era tetro. Fra quanti andavano a visitare quel luogo, nessuno mostrava l'intenzione di fermarsi. Disperato, l'abate andò a trovare un suo amico saggio, un rabbino, per chiedergli consiglio. Il rabbino espresse il suo dispiacere e ammise che anche nelle scuole rabbiniche c'era penuria di studenti. Prima che l'abate se ne andasse, però, il rabbino gli confidò a bassissima voce: “Uno di voi è il messia”. L'abate tornò al monastero e condivise questa affermazione sconcertante con i suoi monaci, che non riuscivano a coglierne il significato. Nessuno di loro sembrava un candidato ve­rosimile. Il vecchio Beniamino era una persona piacevole, ma terri­bilmente pigro, quindi non poteva essere lui. Antonio era un uomo buono, ma gli piaceva troppo bere, e questo lo escludeva. Edoardo era estremamente ligio a tutte le regole, ma assai malinconico, dunque non era possibile che fosse lui il messia. Però da quel giorno comin­ciarono a guardarsi in modo nuovo: cominciarono a vedere segni di santità e di benevolenza che prima sfuggivano. Lentamente il mona­stero divenne un luogo più dolce e più felice. Le persone che anda­vano a visitarlo si fermavano di più e la comunità tornò a crescere. Il vecchio abate tornò allora dal rabbino e gli disse: “Grazie per avermi detto: ‘Uno di voi è il messia’. Non abbiamo ancora scoperto chi è, ma ora stiamo prosperando”. E il rabbino rise: “Veramente, io avevo detto: 'Nessuno di voi è il messia!'”»[4].

• Un passo successivo è chiedere la grazia di avere un cuore purificato, così da poter avere sempre una buona vista spirituale. Come per il cieco di Mc 8,23-26, si richiede una sorta di miracolo. Questa purificazione del nostro cuore normalmente, come per il cieco, avviene per gradi. Tanti santi hanno conosciuto questa grazia. Si pensi ad esempio alle notti dei sensi e dello spirito in San Giovanni della Croce e in Santa Teresa d’Avila.

«Quando mai ti abbiamo visto?» (Mt 25,37.44): è la domanda stupita dei presenti — dei salvati come dei dannati — nell'ap­prendere che il Signore era sempre stato vicino a loro senza aver­lo tuttavia minimamente notato. Eppure egli c’era! E si rende presente anche nella nostra vita, nelle persone, negli eventi. Egli stesso desidera che lo riconosciamo. «Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apria­mo, lentamente ci rende capaci di vedere»[5]. È lo sguardo di chi è diventato capace di notare ciò che è invisi­bile agli occhi, riconoscendo nella persona più sommessa e ordina­ria la presenza, silenziosa e discreta, di Colui che viene. Che ha promesso: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19).

 

Non solo vedere Dio, ma anche udirlo, gustarlo, odorarlo, toccarlo

Esiste una dottrina cattolica sui sensi spirituali, quelli dell’anima dove abita lo Spirito, per la quale sant’Ignazio di Loyola è fra i grandi maestri. Chi legge, infatti, gli Esercizi s’imbatte subito in quest’affermazione: “Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente” (2, 4). Questa teologia ha un illustre esponente in J.-J. Surin. Essa, però, è molto antica. Già Origene illustrava le potenzialità spirituali dei sensi scrivendo che la vista può fissare le realtà superiori; l’udito percepisce suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo e l’odorato avvertire i profumi che sono, secondo san Paolo, il buon odore di Cristo; c’è infine il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato con le mani il Verbo della vita[6]. Nell’area culturale latina sant’Agostino dirà: “Nessuna meraviglia che alla scienza ineffabile di Dio che tutto conosce, vengano applicati i nomi di tutti questi sensi corporali, secondo le diverse espressioni del linguaggio umano; lo stesso nostro spirito, cioè l’uomo interiore, – al quale, senza che l’uniformità del suo conoscere venga compromessa, giungono i diversi messaggi attraverso i cinque sensi del corpo, – quando intende, sceglie e ama la verità immutabile, vede quella luce a proposito della quale l’evangelista dice: Era la luce vera; e ascolta la Parola di cui l’evangelista dice: In principio era il Verbo (Gv 1, 9 1); e aspira il profumo di cui vien detto: Correremo dietro l’odore dei tuoi profumi (Ct 1, 3); e gusta la fonte di cui si dice: Presso di te è la fonte della vita (Sal 35, 10); e gode al tatto di cui vien detto: Per me il mio bene è lo starmene vicino a Dio (Sal 72, 28). E così non si tratta di un senso o di un altro, ma è una medesima intelligenza che prende nome dai vari sensi”[7].

Facciamo alcuni esempi di questa percezione citando alcuni interventi di papa Francesco.

Vista. Nel linguaggio di Francesco molto ricorrente è la parola “sguardo” e questo ha, fra l’altro, un’eco molto personale. Si rilegga, ad esempio, l’omelia in Santa Marta del 21 settembre 2013 (festa liturgica di san Matteo, che per il Papa ha una risonanza speciale perché rimanda alla scelta di vita) in cui parla dello sguardo di Gesù, che cambia la vita, porta a crescere e dà dignità.

«Uno sguardo che ti porta a crescere, ad andare avanti; che ti incoraggia, perché ti fa sentire che lui ti vuole bene». Proprio com’è accaduto per l’esattore delle tasse divenuto suo discepolo.

«Come era questo sguardo di Gesù»? Basti pensare a «come guardava i malati e li guariva» o a «come guardava la folla che lo commuoveva, perché la sentiva come pecore senza pastore».

E soprattutto occorre riflettere non solo su «come guardava Gesù», ma anche su «come si sentivano guardati» i destinatari di quegli sguardi. Perché — ha spiegato papa Francesco — «Gesù guardava ognuno» e «ognuno si sentiva guardato da lui», come se egli chiamasse ciascuno con il proprio nome.

Per questo lo sguardo di Cristo «cambia la vita». A tutti e in ogni situazione. Anche, ha aggiunto Papa Francesco, nei momenti di difficoltà e di sfiducia. Come quando chiede ai suoi discepoli: anche voi volete andarvene? Lo fa guardandoli «negli occhi e loro sono stati incoraggiati a dire: no, veniamo con te»; o come quando Pietro dopo averlo rinnegato, incontrò di nuovo lo sguardo di Gesù, «che gli cambiò il cuore e lo portò a piangere con tanta amarezza: uno sguardo che cambiava tutto».

Tornando alla scena evangelica, nella quale Gesù è a tavola con i pubblicani e i peccatori, egli “li li aveva guardati e quello sguardo su di loro è stato come un soffio sulla brace; hanno sentito che c’era fuoco dentro»; e hanno anche sperimentato «che Gesù li faceva salire», li innalzava, «li riportava alla dignità».

Infine il Papa ha individuato un’ultima caratteristica nello sguardo di Gesù: la generosità. È un maestro che pranza con la sporcizia della città, ma che sa anche come «sotto quella sporcizia ci fossero le braci del desiderio di Dio» desiderose che qualcuno le «aiutasse a farsi fuoco». E questo è ciò che fa proprio «lo sguardo di Gesù»: allora come oggi. «Credo che tutti noi nella vita — ha detto Papa Francesco — abbiamo sentito questo sguardo e non una, ma tante volte. Forse nella persona di un sacerdote che ci insegnava la dottrina o ci perdonava i peccati, forse nell’aiuto di persone amiche». E soprattutto «tutti noi ci troveremo davanti a quello sguardo, quello sguardo meraviglioso». Per questo andiamo «avanti nella vita, nella certezza che lui ci guarda e che ci attende per guardarci definitivamente. E quell’ultimo sguardo di Gesù sulla nostra vita sarà per sempre, sarà eterno».

Quanto all’udito è davvero il caso di estrarre un passo da ciò che disse ai Vescovi [ma serve anche a noi!] il 7 ottobre 2015 riguardo all’ascolto: “Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2, 7)”. Una volta il Papa ha detto: “Quando uno ha paura di ascoltare, non ha lo Spirito nel suo cuore”[8]. E soprattutto è importante “ascoltare con umiltà”. L’ascolto reciproco di cui parla Francesco ha senza dubbio il suo riferimento primario a quanto lo Spirito dice alle Chiese; ma è pure un richiamo a quel discernimento che tanto gli sta a cuore sì da fargli dire che oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nella capacità di discernimento spirituale[9].• Gusto. “Gustate e vedete com’è buono il Signore”, canta un salmo (34, 9) e sant’Agostino così commenta: “Si rallegrino tutti coloro che assaporano la sua dolcezza”[10]. Nell’omelia del 27 febbraio 2018 papa Francesco ha così commentato la pagina del Vangelo dove Gesù fa appello alla nostra conversione: “Il Signore in questo brano ci chiama così: ‘Su, venite. Prendiamo un caffè insieme. Parliamo, discutiamo. Non avere paura, non voglio bastonarti’ … Ehi tu, Zaccheo, scendi! Scendi, vieni con me, andiamo a pranzo insieme!”. Il gusto del Signore è il dono della gioia che si deposita nel nostro cuore quando accogliamo il suo Evangelo. Conosciamo le parole che intonano l’esortazione Evangelii gaudium: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”. La gioia di cui qui si parla è un sentimento e questo non è poco davvero; è, tuttavia, anche di più perché è dono dello Spirito; è segno dell’accoglienza di Gesù e del suo Evangelo: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Una volta il Papa ha aggiunto che “la gioia è il segno del cristiano: un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato … un cristiano senza gioia non è cristiano”[11].

In Amoris laetitia il richiamo al senso del gusto è davvero positivo: “Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: ‘Come delizierai gli angeli!’. È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui” (n. 129).

Perché non aggiungere a questo punto un richiamo a quella sulla Sacra Liturgia? È questa, difatti, il luogo privilegiato dove il cristiano apprende e vive il gusto di Dio e della fraternità: “Com’è dolce che i fratelli vivano insieme”, canta il Salmo (133, 1).

Odorato. È il quarto dei cinque sensi. È anch’esso importante, perché in grado di comunicarci ciò che altri sensi non riescono: non tocca e non vede, non ascolta né gusta, ma avverte, riconosce e riesce a distinguere ciò ch’è impersonale, da quanto invece è personalissimo e unico. L’odorato è in grado d’introdurre nel profondo della relazione, nell’intimità. Il Papa richiamò questo senso nell’omelia della prima Messa crismale presieduta in San Pietro, il 28 marzo 2013. Parlava ai sacerdoti e chiese loro di essere “pastori con “l’odore delle pecore”. L’interpretazione l’ha data lo stesso Francesco poche settimane dopo, parlando così ad alcuni vescovi: “Nell’omelia della Messa Crismale omelia di quest’anno dicevo che i Pastori devono avere ‘l’odore delle pecore’. Siate Pastori con l’odore delle pecore, presenti in mezzo al vostro popolo come Gesù Buon Pastore. La vostra presenza non è secondaria, è indispensabile. La presenza! La chiede il popolo stesso, che vuole vedere il proprio Vescovo camminare con lui, essere vicino a lui. Ne ha bisogno per vivere e per respirare! […] Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade”.

L’olfatto, il fiuto di cui parlava il Papa, dunque, è duplice. Le pecore, cioè i fedeli, devono sentire nel pastore un odore di santità. E, insieme, il pastore usa il suo “fiuto” per riconoscere nel sensus fidei dei fedeli le indicazioni dello Spirito “per trovare nuove strade”, per scegliere nuovi percorsi pastorali[12].

Tatto. Per san Bonaventura, poi, il tatto è fra tutti i sensi quello che più tiene insieme: realizza al massimo, infatti, il contatto fra due persone e così esprime la carità, che fra tutte le virtù teologali è la più unitiva. Quando si ama non ci s’accontenta di vedere e di guardare, ma si tende a toccare. A chi ama non basta udire, perché ogni voce è un appello a infrangere il muro della distanza, un’invocazione ad abbracciarsi. L’amore vuole sempre toccare. Ogni volto amato richiama una mano e ogni mano si tende verso il volto amato.

L’uso di Francesco del verbo toccare dev’essere letto anche in questo sfondo antropologico e di teologia spirituale. Egli comincia a parlarne in senso cristologico (“toccare la carne di Cristo”), ma giunge poi alla carità verso il prossimo. Durante la Veglia di Pentecoste del 18 maggio 2013 disse: “Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo”. E citando chi gli aveva chiesto: “Mi dica, quando lei dà l’elemosina tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?”, commenta: “Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo”.

 

Giovani senza Dio in Italia

Un’indagine del 2016[13] mostra che sono aumentati i giovani che non credono in Dio (il 5% in più degli ultimi 8 anni). Circa il 28% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha dichiarato di non credere in Dio, nel senso attribuito comunemente a questa espressione. I «piccoli atei», richiamati dal titolo del libro, sono presenti, nelle regioni più dinamiche, tra quanti hanno un’istruzione elevata e nelle famiglie di buona condizione socioculturale. Se questa tendenza fosse confermata, essi rischierebbero di prefigurare l’avanguardia moderna dell’Italia giovane, annunciando il futuro di un’Italia non credente proprio nei settori più significativi.

Quali sono le ragioni del loro ateismo? Sono diverse. Ciò che accomuna nel profondo l’insieme di questi giovani sembra essere una doppia convinzione: l’impossibilità di conoscere ciò che supera l’esperienza umana; e la consapevolezza di non aver bisogno di Dio per condurre una vita sensata, ricercando o ritrovando dunque altrove il senso di un’esistenza degna e compiuta (pp. 8s).

E’ interessante ciò che i giovani credenti affermano dei loro coetanei, cioè che, secondo loro, solo il 23% dei giovani crede in Dio, mentre il 70% non è coinvolto in un percorso di ricerca di tipo religioso.

Non sono queste delle motivazioni che ci provocano? Che ci interrogano se noi sappiamo riconoscere Dio, se conosciamo il suo amore, se ci rendiamo conto come opera in noi, negli altri, nella storia? Forse a questi giovani manca la nostra testimonianza…

 

Un cammino ascetico per risvegliare i nostri sensi spirituali

Vi do qui tre indicazioni di ciò che ci aiuta a risvegliare i nostri sensi spirituali. Non mi soffermo ad approfondirle. Ciascuno potrà trovare delle occasioni per conoscerle e viverle.

La vigilanza dei pensieri e dei sentimenti. Non possiamo lasciarci trasportare dai pensieri e dai sentimenti. Sant’Ignazio ci invita al discernimento: capire da dove essi provengono. Entrambi. Per assecondare quelli che vengono dallo Spirito e quelli che vengono dal Nemico (il nostro cuore malato, le tentazioni dal mondo in cui viviamo, il Tentatore).• La partecipazione alla liturgia. Lì si rivela la presenza di Cristo che parla nella Parola annunciata; quando facciamo la comunione possiamo assaporare l’amore di Cristo che ha spezzato per noi la sua vita e versato nel suo sangue per la salvezza, per la mia salvezza. Il pane è mangiato e assaporato con il gusto, e il gusto interiore lo consuma come l'amore della comunione. Assaporiamo la presenza di Cristo nella comunione con gli altri fratelli presenti nell’assemblea, nella comunione di fede e speranza suscitata dallo Spirito, ma anche la fraternità con cui ci riconosciamo fratelli /sorelle.• La preghiera. Lì, come ci insegna sant’Ignazio, possiamo «sentire e gustare le cose internamente». Nella preghiera non si tratta di nutrire pensieri elevati o riflessioni sublimi, né si tratta di fare grandi ragionamenti o lunghi discorsi. Per pregare basta fermarsi con semplicità su quella parola di Dio, su quell’ispirazione, su quell’esperienza che mi riempie il cuore e gustarla fino in fondo: attraverso di essa il Signore mi fa sentire il suo amore, mi parla… e, se io voglio, guida la mia vita.

 

Le conseguenze di una ricerca smodata del piacere

«Il piacere è un sentimento o un’esperienza, più o meno durevole, che corrisponde alla percezione di una condizione positiva, fisica o psicologica, proveniente dall'organismo. È considerato uno stato di contenuto opposto al dolore che può essere di breve durata o cronico»[14]. Il piacere non va disprezzato. Va accolto con libertà di cuore, come una dimensione del nostro esistere, quella della corporeità e della psiche.

Il rischio è quello di focalizzarsi nella ricerca del piacere come obiettivo principale della vita. In tal caso si ha una ricerca malata, inconsapevole, dell’assoluto. Tale ricerca non genera la gioia, proprio perché la gioia, come abbiamo visto, si pone su un altro piano; invece all’interno della gioia – ad esempio all’interno della relazione amorevole tra marito e moglie (agape) - ci può essere lo spazio del piacere (eros).

Quali sono i rischi di una vita focalizzata sulla ricerca del piacere? Anzitutto di paralizzare i sensi spirituali, in modo da non godere più dei beni dello spirito. Infatti i piaceri forti dei sensi del corpo – come insegna San Tommaso d’Aquino – «assorbono l’anima più di ogni altra cosa»[15]. La conseguenza è ovvia: non trovare mai la gioia agognata; di cadere, inoltre, nella spirale mortifera del vizio. Sappiamo che la prima conseguenza del vizio è la perdita della libertà; il soggetto fa sempre più fatica a staccarsi dal vizio, pur non trovandovi più il piacere e il fascino di un tempo, anzi avvertendo un sempre e maggiore disgusto e insofferenza[16]. Ci sono poi altre conseguenze gravi, disumanizzanti. Si pensi ad esempio a quelle della lussuria e della gola.

• La lussuria è di sua natura distruttiva, anzitutto perché nega la realtà, poiché il suo mondo è l’immaginazione, un mondo falso e superficiale, che spinge a fuggire l’intimità, la manifestazione dei sentimenti e della tenerezza. Ciò che viene distrutto, in particolare, è la fiducia nell’altro, la verità di un rapporto. Il lussurioso, in realtà, è una persona sola, senza amicizie, senza veri legami affettivi. Per di più oltre ad utilizzare l’altro come un oggetto per il proprio piacere, il vizio conduce il lussurioso a rivolgere all’altro richieste sempre maggiori, eccessive – si sa, infatti, che nel vizio si verifica un’assuefazione del godimento, per cui per poter provare lo stesso piacere bisogna aumentare le “dosi” – fino ad arrivare anche all’uso della violenza. • La gola. Un elemento in comune tra i vizi, ma che nella gola si trova esasperato, è l’aspetto della bruttezza (obesità) cui conduce. È facile poi intuire tutte le conseguenze sulla salute della persona obesa (in particolare le malattie cardiovascolari).

L’eccesso di cibo incide anche negativamente sulla ragione, non permettendo un uso corretto ed equilibrato di essa, danneggiando così il pensiero, la parola, la vita comune: «Quando le potenze corporali inferiori sono turbate per una sregolata ingestione di cibo, la stessa ragione, per conseguenza, è intralciata; e così è considerata figlia della gola l’ottusità della mente nell’intendere»[17].

I padri notano che con la gola si sviluppa non di rado anche la maldicenza, la curiosità, il pettegolezzo, una modalità di comunicazione che sembra prosperare nei salotti, nelle grandi tavolate, nell’ozio stancante e annoiato che si crea nel tempo di attesa tra una portata e l’altra, come se lo spirito, all’appesantirsi del corpo, diventasse anch’esso più grossolano e terreno nella sua maniera di esprimersi.

Il goloso rischia di diventare con facilità egoista ed avido dimenticando le persone che si trovano accanto a lui nonché il significato relazionale insito del pasto. Se, inoltre, il cibo è essenzialmente legato al senso della festa, della gioia, dell’allegria, il goloso purtroppo, con il suo comportamento compulsivo, si è precluso tutto ciò, diventando strutturalmente incapace di fare festa.

Sono solo due esempi per dire che il piacere deve stare nel suo giusto ordine ed equilibrio.

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[1] A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, 3918 (2013) 467-468.

[2] Tolstoj, Anna Karenina, Milano, Garzanti, 2008, 163.

[3] S. D. Sammon, Religious Life in America: A New Day Dawning, New York, Alba House, 2002, 95.

[4] T. Radcliffe, Prendi il largo!„., cit., 301 s.

[5] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte. Dall'ingresso in Gerusa­lemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano - Milano, Libr. Ed. Vaticana - Gar­zanti, 2012, 306.

[6] Cfr. Origene, Contro Celso 1, 48.

[7] S. Agostino, Comm. al vangelo di Giovanni 99, 4.

[8] Francesco, Omelia in Santa Marta del 28 aprile 2016.

[9] Francesco, 30 luglio 2016, ad alcuni gesuiti polacchi.

[10] S. Agostino, Comm Enarr. in Ps 5, 15-16.

[11] Francesco, Omelia in Santa Marta del 22 maggio 2014.

[12] Cfr. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 12.

[13] F. Garelli, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Bologna, il Mulino 2016.

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Piacere

[15] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 4t, a. 3.

[16] L’attuale ricerca psicologica parla di «assuefazione del piacere» e di «caduta del desiderio»: chi cerca il piacere come fine in sé stesso non lo trova mai (cfr. V. Frankl, Psychotherapy and Existentialism, Charion Books, New York 1967, 5).

[17] S. Tommaso d’Aquino, De malo, q. 14, a. 4.

La gioia che Dio vuole per ciascuno di noi

La gioia, sembrano volerci dire le Scritture nel loro insieme, è qualità divina e caratteristica precipua del Dio dei cristiani; non è qualcosa di esterno a Dio, ma è parte di lui o, come disse una giovane santa carmelitana, la cilena Teresa de los Andes, «Dio è gioia infinita». Non solo Dio è bellezza, come ripete sempre più frequentemente la teologia moderna, ma è gioia.

E non solamente è gioia, ma è proprio di Dio dare gioia. L’Alleanza è manifestazione esplicita di tale volontà divina di condivisione della gioia; essa avviene in vista di essa. Perché Dio non può godere da solo né sopporta la visione della sua creatura triste. Dunque la gioia è anche modo di essere, realtà interiore e manifestazione esteriore di colui che crede in questo Dio. Con mille ragioni per essere felice. E mille inviti a vivere così, e a manifestare questo modo di essere e di relazionarsi dei credenti, come appare nel Primo e nel Secondo Testamento.

Se diamo uno sguardo alla società in cui viviamo ci accorgiamo che c’è ben poca gioia.  I giovani sono i primi a sentirne la mancanza, ad avvertire il vuoto, l’insoddisfazione. Sono in aumento i suicidi. Eppure nella nostra cultura ci sono tante promesse di gioia, legate soprattutto al possesso dei beni. Ma sono promesse false. Per di più spesso non si si sente più nemmeno l’esigenza di accostarsi a Dio, di cercarlo. Certe pratiche religiose sono fatte più per abitudine che per convinzione.

Da un lato, come può parlare di felicità la Chiesa, coi suoi divieti, le sue penitenze e la croce come suo simbolo, a una società del benessere, dello sballo e delle emozioni estreme? Dall’altro, è esattamente l’attenzione a questo mondo odierno che ci fa scoprire come la felicità oggi sia diventata uno stress, un obbligo continuamente ribadito da mass media e pubblicità in un mondo ove l’ottimismo serve a indurre al consumo, e quanta tristezza profonda vi sia dietro una gioia superficiale e falsa, artificiale e passeggera, ove non si sorride quasi più, e il ridere – tutt’al più – è diventato rito televisivo collettivo e ripetitivo, di fronte alla solita, noiosa e imbecille battuta sul sesso. Inoltre, sempre nella cultura odierna, una volta la felicità era forse troppo lontana, magari rimandata al paradiso ove la cultura risentiva di una qualche radice cristiana; oggi si tenta invece di far credere che si possa raggiungere, a basso prezzo e in tempi brevi, nei nostri giorni sempre più frenetici. Salvo poi vedersela sfuggire di mano per un nonnulla, e doverla riconquistare sempre daccapo.

E allora, se questa è la situazione, i cristiani, uomini della gioia, del sorriso e del buon umore, devono diventare apostoli di essa. E la Chiesa, proprio perché «casa della Parola», deve diventare insieme casa e scuola di comunione nella gioia vera, tanto più umana quanto divina.

Insomma, la gioia è una cosa… seria, molto più di quanto pensiamo.

La vera fonte della gioia è radicata più profondamente, cioè nel cuore stesso, nella sua più remota intimità. Ivi abita Dio e Dio stesso è la fonte della vera gioia»6.

La gioia che ci dà Gesù non è quindi pura sensazione euforica, che passa. E’ una la gioia di cui parliamo, gioia cristiana non è legata alla soddisfazione dei sensi, è ben più profonda e sempre anche inedita.  Vediamo perché.

Tentiamo allora di vedere come radicare e recuperare questa gioia quale parte essenziale dell’identità del credente.

 

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33)

Gesù è venuto ad annunciare il Regno. «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo!» (Mc 1,15). Si tratta di accoglierlo. Il Regno è Gesù. E Gesù – illuminandoci con la via del Vangelo e sostenendo il nostro cammino con la sua grazia – vuole che in noi regni la gioia. Egli stesso ha detto: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Per chi cerca il regno di Dio, cioè Gesù, e vive il suo vangelo, cioè compie la volontà di Dio («la sua giustizia), oltre alla gioia Egli ci dà anche «tutte quelle cose… in aggiunta» (Mt 6,33). In altre parole a chi dedica le migliori energie alla ricerca del Regno e della sua giustizia, Dio ci dà le cose di cui, è un’aggiunta che viene data a chi vive da figlio e fratello.

Ma torniamo alla gioia. Le società occidentali hanno registrato miglioramenti notevoli su alcuni aspetti della vita rispetto a soli 50 anni fa: longevità, possibilità alimentari, cure mediche, accesso all’istruzione, libertà di spostamenti, libertà di scelta, diffusione capillare dei diritti. Nonostante ciò la percentuale di infelicità percepita è – secondo le ricerche statistiche - notevolmente aumentata. Negli ultimi anni la depressione è cresciuta di 10 volte; se un tempo il suo primo episodio si verificava attorno ai 30 anni, ora fa la sua comparsa a 13 anni. L’aumento di ricchezza non ha reso le persone più contente di prima, eppure la corsa al benessere economico rimane un mantra indiscusso, sordo a qualunque smentita[1].

C’è poi chi continua a cercare la felicità nell’autorealizzazione di sé, come carriera al lavoro, affermazione nell’ambito della politica e del sociale, nel narcisismo di chi ricerca il successo, ecc. Sono tentazioni che Gesù ha vinto nel deserto prima di iniziare la sua missione pubblica. Sono illusioni.

C’è anche chi ha cercato di  eliminare lo stato d’animo speculare alla felicità: la tristezza. Così, ad esempio, modo R. Nozick, un filosofo della politica, ha ipo­tizzato la creazione di una macchina capace di dare sensazioni gra­devoli su richiesta; eppure, invece di provare gioia, «collegarsi alla macchina è una specie di suicidio. […] Non c'è alcun contatto vero con una qualsiasi realtà più profonda, per quando se ne possa simu­lare l'esperienza. La macchina non soddisfa il nostro desiderio di essere in un certo modo»[2]. Una situazione piacevole ma artefatta finisce per spegnere il gusto di vivere.

La gioia, allora, va cercata nella giusta direzione. Gesù ce l’ha chiaramente indicata: cercare il Regno, cercare Dio e la sua volontà, vivere da figli. E se non abbiamo tale gioia Gesù ci dice: «convertitevi e credete al vangelo!». Ce lo dice anche indicandoci la condizione essenziale: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna». Cioè, paradossalmente, l’uomo si realizza ed è felice non nell’autorealizzazione, ma nella trascendenza di sé.

La gioia è possibile solo come conseguenza di una tensione di vita che conduce l’individuo fuori del proprio io, verso l’altro, verso ciò che è vero-bello-buono, verso il Regno, nei termini di Gesù. Allora la gioia gli sarà data – non è solo un effetto psicologico, è un dono dall’alto[3] – come un bene non cercato per sé. È in fondo, di là dell’apparenza, la logica del chicco di grano che cade a terra e muore, e alla fine produce molto frutto (Gv 12,24)… Ed è felice, ci è lecito pensare!

Capiamo allora i motivi per cui la gioia non la si trova: perché la si cerca male, nel modo sbagliato, facendone lo scopo immediato del nostro agire, o perché la si cerca per se stessi (ignorando l’altro o non cercando abbastanza e prima di tutto la sua gioia, e dunque dimenticando che la gioia è relazionale), o perché la si cerca per se stessa, come sensazione positiva, di relax e benessere psicofisico.

Al contrario la gioia, specie quand’è duratura e profonda, svela che il cammino di ricerca di senso (o del tesoro della vita) sta andando nella giusta direzione. Quando la gioia è stabile e intensa, anche se pacata e discreta, o quando resiste alle difficoltà della vita e dà la forza di affrontarne le intemperie, sta a dire che quel cammino è andato nel verso giusto. La gioia è anche segnale autenticante, insomma, del proprio itinerario di crescita, non è solo sensazione passeggera o stato d’animo, magari legato al carattere, più o meno innato o predisposto in tal senso.

 

«Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17)

Ed ecco un motivo profondo per gioire anche quando le cose non vanno come noi vogliamo, come ci aspettiamo. Perché spesso siamo arrabbiati con la vita. «La vita non è stata buona con me, da essa ho ricevuto più dolori che gioie... Non sono stato abbastanza compreso dagli amici, o aiutato dalla comunità... Ho anche sbagliato e realizzato poco, ma neanche ho ricevuto quel granché nella mia esistenza...». Sono frasi di persone credenti o consacrate al Dio della vita, ma in rotta con la vita. Certamente non si può pretendere di consolare con le solite pillole pseudo-rassicuratorie (tipo «c’è chi sta peggio di te» o «bisogna accontentarsi, qualche guaio è successo a tutti»), e neppure con la pillola «escatologica» dell’al-di-là che non ha niente in comune con l’al-di-qua («coraggio, la gioia non è di questo mondo, godremo solo nell’altro, dove finalmente sarà fatta giustizia!»). No, una certa gioia di vivere fa già parte del Regno quaggiù. Ed è gioia vera, frutto d’una percezione realistica della vita, non legata solo a ciò che abbiamo raggiunto con le nostre forze (perché sarebbe ancora una volta un’autoaffermazione), né legata alla circostanze favorevoli o meno, ma al nostro essere figli Dio, amati, e al nostro rispondere all’amore di Dio con il nostro sì all’amore di ogni giorno.

Quella voce che risuona da fuori ci vuole coinvolgere nella gioia stessa di Dio, che -  come per Gesù al Battesimo nel Giordano (Mt 3,17) e nell’episodio della Trasfigurazione (Mt 17,5) - si compiace delle nostre scelte, della nostra scelta rinnovata di vivere da figli nell’amore, nel dono sincero di sé.

Gioia è relazione, è sentire queste parole, e sentirle ognuno come rivolte a sé. Sentire che il Padre si compiace dei miei sforzi, del mio impegno, della mia rettitudine di cuore, delle mie scelte. E ci indica come modello il Figlio: ecco perché alla Trasfigurazione aggiungerà: “Ascoltatelo”.

 

«C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35)

Il paradosso del dono esprime il paradosso della felicità, più volte riscontrato: essa può giungere soltanto in sovrappiù. Quando si dona a qualcuno, si sperimenta una soddisfazione che non può essere paragonata ad alcun guadagno materiale: la gioia del dare non conosce confronti.

Kierkegaard notava in proposito: «La porta della felicità si apre verso l'esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla sempre di più»[4]. Quanto più si cerca di possedere la feli­cità tanto più essa diventa sfuggente e irraggiungibile. La si trova, invece – come già ditto sopra - nel dono di sé. Ed è sempre possible vivere il dono di sé, anche quando non si dona qualcosa. Per esempio dando il nostro tempo, l’attenzione, ascoltando con amore i problemi, le preoccupazioni, le sofferenze dei fratelli. Come pure valorizzando l'altro. «Si dice che Warden Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi. La gente ha bisogno di sentirsi necessaria»[5]. Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, spesso vengono relativizzate; inoltre il fatto di aver fatto del bene agli altri ci fa del bene, ci conferma nel nostro essere figli di Dio; e per di più si gioisce della gioia degli altri.

 

«Il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4)

Un vangelo molto illuminante che ribadisce quanto abbiamo sopra detto, è quello nel quale Gesù raccomanda al credente non tanto un certo tipo di comportamenti, tutti molto buoni in sé (elemosina, preghiera e digiuno), ma una motivazione coerente alla loro origine (cfr. Mt 6,1-6.16-18). È una chiarificazione importante, perché ci può aiutare a capire dove sia il nostro cuore o il tesoro per il quale godiamo.

Il Maestro qui parla a credenti, a persone che vivono e testimoniano la propria fede con atti corrispondenti: credenti praticanti, che soccorrono il povero, fanno digiuno e pregano il Padre che è nei cieli. Verrebbe da dire: meglio di così!? E invece non basta. Occorre fare tutto ciò con un atteggiamento preciso: senza «suonare la tromba» né «sfigurarsi la faccia», come dice con immagine molto colorita Gesù, né assumendo pose che attirino l’attenzione altrui (come «pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze»). Costoro si comportano così per farsi vedere e ammirare dagli uomini, e forse ci riescono, se gli va bene, ma in tal modo – dice sempre il Maestro – «hanno già ricevuto la loro ricompensa», dagli uomini ovviamente, consistente nell’apprezzamento immediato, di solito non definitivo, e che va di volta in volta riguadagnato, spesso anche faticosamente (con spreco inverecondo di energie). Ma è ricompensa o gioia da poco poiché dura un attimo ed è superficiale, è subito bruciata, perché non apre al mistero della dignità della persona, non ne raggiunge la dignità radicale né dà alcuna sensazione benefica definitiva (dal punto di vista della stima di sé), ma anzi normalmente aumenta ancor più il bisogno, come ben sappiamo, del consenso degli altri e dell’applauso, dell’audience e dell’indice di gradimento, fino a renderne dipendenti (come sempre più spesso succede pure a chi annuncia il vangelo in una società come quella di oggi, ove si è qualcuno solo se si è visibili e conosciuti da tutti).

Per questo il Signore suggerisce un atteggiamento esattamente contrario: fare elemosina, orazione e digiuno nel segreto, con questa motivazione: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Perché la gioia cristiana abita «nel segreto» dell’intimità con il Padre Dio, quello è il suo “luogo”. O rappresenta esattamente la ricompensa da parte di Dio per aver agito «nel segreto», cioè rettamente, cercando solo il suo volto. Il Padre che apprezza la trasparenza di chi fa il bene non per secondi fini, ma semplicemente perché attratto dal bene, anche quando nessuno l’applaude. Gesù ci rivela qui un Dio che si svela solo a chi cerca Lui solo e ha imparato a intercettare il suo sguardo, sguardo dolcissimo e penetrante, che dona alla creatura la certezza di una positività definitiva, le fa sentire un amore che l’avvolge tutta («lo ricompenserà»: azione che continua nel futuro e dà stabilità nella percezione positiva di sé).

Il cristiano è esattamente colui che ha imparato a godere di questo sguardo poiché si ritrova in quegli occhi, o è colui che trova la sua gioia nello stare – da solo – di fronte a Dio e nel lasciarsi da lui guardare, e cerca spesso tale sguardo come ciò che dà un senso alla vita e a tutto quel che fa, senza più bisogno di diventare importante o di cercare visibilità o di compiere cose grandi che facciano colpo e gli attirino consensi. Se Dio è colui che «è» nel segreto, anche il figlio suo ama stare e vivere nel segreto, non farsi notare né cercare le luci della ribalta, per dare invece importanza anche alle cose piccole, quasi avere il culto del piccolo e dei gesti semplici perché in essi è più facile cercare e trovare Dio solo… Non per falsa umiltà né facendosi violenza. Ma perché la sua gioia è nell’incrociare gli occhi di Dio!

La gioia dunque, ribadiamo anche ora, è relazionale, è essere guardati da un occhio amoroso, qualcosa che si riceve, dunque. Ma è anche qualcosa che raggiunge la persona alle fonti dell’io, e che la stessa avverte molto in profondità dentro di sé, nella sua intimità più intima e personale, ed è sensazione profonda e discreta, serena e sicura: relazionale al massimo grado e pure del tutto personale.

Colui, invece, che non ha sperimentato questa gioia o che non ha fatto crescere in sé tale tipo di sensibilità, è condannato a elemosinare come un accattone l’attenzione e il plauso altrui. A volte sembrando vanitoso ed esibizionista. Mentre, in realtà, è “solo” disperato.

 

«Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20): gioia vera e gioia falsa

Gesù si rivolge qui a una precisa categoria di persone, gli apostoli e annunciatori del vangelo, come singoli e come comunità, spesso tentati di cercare la gioia nel posto sbagliato, o in modo falso e illusorio.

Le tentazioni della falsa gioia. Potremmo dire che con queste parole Gesù, almeno implicitamente, invita a riflettere sulle tentazioni della falsa gioia, tentazioni che seducono il singolo credente, ma anche la vita consacrata e la Chiesa come organismo sociale sempre tentata di cercare una certa sua affermazione di fronte al mondo. E qui ne abbiamo un esempio.

I settantadue sono appena tornati da un’esperienza apostolica «pieni di gioia» (Lc 10,17) per i loro successi, perché sta andando tutto meravigliosamente bene; Gesù conferma l’evento, fors’anche compiaciuto, ma si premura, creando in loro un salutare dubbio, di ricordare a ognuno che fonte della vera gioia dell’apostolo non sono le imprese apostoliche, il consenso della folla o dei vari poteri, i numeri di quanti ti seguono o l’entusiasmo di chi ti applaude, né la spettacolarità degli interventi che attirano le folle e nemmeno una certa efficienza e riuscita con relativa “resa” dei nemici (Satana compreso…), ma tutt’altra cosa, da Gesù espressa con linguaggio figurato-metaforico: «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli». Altrimenti è gioia falsa, effimera e inconsistente, anzi, diabolica.

Il «nome» nella Scrittura è l’identità profonda della persona, e i nomi di coloro che Gesù ha scelto sono «scritti» in cielo: ovvero l’identità della persona non poggia su qualcosa di vago e instabile, di esteriore e apparente, ma è affermata e scritta in modo definitivo nella sua positività, poiché è scritta «in cielo», e il cielo è il simbolo della perennità, in opposizione alla precarietà della terra. Dio, insomma, non solo parla e dice la propria gioia su di noi, non solo ci guarda nel segreto della sua compiacenza illimitata incrociando il nostro sguardo, ma anche «scrive» sul suo cuore il nostro nome, per custodirci nella sua gioia, o proteggerla lui stesso.

Ancora una volta la gioia, dunque, appare legata a una prospettiva di verità e bellezza, e alla corrispondente capacità di coglierla su di sé e dentro di sé, o – come abbiamo detto – alla sensibilità con cui uno ha imparato a godere della verità e del suo splendore. E la verità è che i nostri nomi sono scritti nei cieli, ovvero che la nostra identità è già positiva e al sicuro, poiché è «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3), è custodita con cura dal Padre, la dignità e positività del credente  è legata a lui, all’essere creatura sua, da lui scelti, pre-diletti, chiamati, benedetti…, ci ha «scritti» sul palmo delle sue mani, con l’inchiostro indelebile dell’amore per sempre. Più forte di ogni contrarietà o negatività, insuccesso o fallimento, prima che potessimo sognare di meritarcelo.

Non è soddisfazione solo umana; è altra la gioia che il Signore ci promette e ci dà. Se la nostra identità è «nascosta con Cristo in Dio», lo è anche la nostra gioia.

La gioia dell’ultimo posto. C’è una bella immagine di credente particolarmente eloquente, in tal senso: il beato Charles de Foucauld, piccolo fratello di Gesù. Egli cercò ostinatamente l’“ultimo posto” e, di fatto, ha vissuto una vita da perdente, sul piano dei risultati concreti. Durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa fu Nazareth il luogo che più lo impressionò: non si sentiva chiamato a seguire Gesù nella sua vita pubblica; è Nazareth che lo colpì nel più profondo del cuore. Voleva imitare Gesù silenzioso, povero e lavoratore. Voleva seguire alla lettera la parola di Gesù: «Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (Lc 14,10). E più ultimo posto di quel villaggio sperduto in pieno deserto certo non avrebbe potuto trovare. Lo si sarebbe detto un fallito, dal punto di vista del successo umano, se pensiamo che De Foucauld non riuscì a fondare in vita la congregazione che pur voleva fondare, quella dei “Piccoli fratelli del Sacro Cuore”, riuscì appena a far riconoscere l’associazione di fedeli, che contava un numero minimo di aderenti. Solo dopo la sua morte avverrà la fioritura. La diffusione dei suoi scritti e la fama circa la radicalità evangelica della sua vita hanno fatto sì che nascessero, nel corso degli anni, ben 19 differenti famiglie di laici, preti, religiosi e religiose che vivono il vangelo nel mondo seguendo le sue intuizioni. Eppure quel suo volto umilmente radioso riproduce lo splendore del Risorto, lo sguardo luminoso e penetrante, il timido sorriso delle labbra, il capo leggermente inclinato a sinistra quasi a ritirarsi…, sembra la traduzione in lineamenti umani di Gal 5,22: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace…».

Potremmo allora, a questo punto, tentare di definire così, in sintesi, la differenza tra gioia vera e gioia falsa: la prima è «ricevuta» da Dio, come una partecipazione alla sua gioia, la seconda è legata a situazioni fortunate per il soggetto; dunque la prima è profonda, la seconda superficiale; la gioia vera è legata all’identità radicale della persona, quella falsa e ingannevole all’apprezzamento eventuale delle sue prestazioni; la gioia sana e duratura è dono non intenzionalmente cercato, chi la vuole a tutti i costi rischia di cadere nello stress e tensione di felicità; gioia vera è certezza stabile, gioia falsa è sensazione passeggera e anche incerta; la prima è pacata e discreta («nascosta in Dio»), la seconda è chiassosa e nervosa.

«In sua voluntate è nostra pace». Infine, mi pare che questo avvertimento di Gesù ai settantadue, reduci dall’apostolato glorioso, sia un mettere in guardia da un’altra analoga tentazione, quella di cercare Dio, e la gioia, non solo nella gloria e nel successo, ma pure nello straordinario, per imparare invece a scoprirlo nel semplice, quotidiano e normale compimento della sua volontà. Il credente ha appreso a godere di fare e nel fare la volontà di Dio; per essere contento gli basta sapere che la sta compiendo, nel posto e nel ruolo che altri gli hanno affidato, con fratelli che lui non ha scelto e da cui non è stato scelto… Non sarebbe egualmente in pace e felice se tutto ciò fosse frutto delle sue proprie macchinazioni, raggiri, condizionamenti, sottili imposizioni della sua volontà, furbe manipolazioni… Che potranno anche dare al soggetto la sensazione soddisfatta di aver ottenuto ciò che voleva o l’illusione compiaciuta di essere “qualcuno” se può imporsi sugli altri, fino a goderne per un po’, ma non il gaudio intenso di quella pace che ti canta in cuore perché sai di aver fatto quel che Dio vuole, «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2), fidandoti di lui sino al punto di fidarti pure delle sue (imperfette) mediazioni. Questo è gaudio pieno, che riempie la vita, anche se silenzioso e modesto, perché viene da Dio, il quale non vuole semplicemente dei figli obbedienti, ma dei figli felici, e tali ci rende la sua volontà e il compimento di essa.

Grande maturità psicologico-spirituale è dunque quella di chi può in tutta verità pregare così: «Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene… Nella tua volontà è la mia gioia» (Sal 118,14.16); o che sempre rivolto a Dio può asserire, come suggeriva un vecchio detto spirituale, di essere felice perché «Voglio quel che tu vuoi, voglio come tu lo vuoi, voglio perché tu lo vuoi, voglio finché tu lo vuoi».

 

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44)

In questo notissimo brano evangelico, come in quello successivo (della perla preziosa) la gioia è presentata come la reazione interiore alla scoperta del «tesoro», che è esattamente questa realtà centrale per la persona e per la sua identità. Ma in realtà la gioia è ciò che accompagna tutto il percorso del credente che cammina verso il Regno, in tutte le sue fasi, come ciò che lo rende percorso di libertà. Vediamo.

All’inizio la gioia (la gioia di chi cerca). Anzitutto le due parabole, con le quali Gesù ci racconta il Regno, parlano di un uomo in ricerca, implicitamente la prima parabola, esplicitamente la seconda. Ora se un uomo cerca vuol dire che spera di trovare, anzi, se spera vuol dire che “crede” e, se crede in Dio, la sua fede-speranza gli dà certezza di trovare: per questo si dà da fare a cercare, è libero di cercare. E dunque è una ricerca che implica la gioia, una gioia iniziale, quasi embrionale e non ancora manifesta, ma presente nel profondo del cuore, perché conseguente alla fiducia che il credente ripone in Dio, quel Dio che è mistero buono, non enigma impenetrabile, e si lascia cercare-trovare. È la gioia di cui parla il salmista: «Esultino e gioiscano quanti cercano il tuo volto, Signore» (Sal 39,17).

Per questo motivo cerchiamo Dio, e cercare Dio è già fonte di gioia grande. Cercarlo, ovvero pregare, vivere alla sua presenza, desiderarlo, abitare nella sua casa, ma anche solo bussare alla sua porta, chiedergli il pane di ogni giorno, nutrirsi della sua parola, rivolgergli la propria parola, non solo per lodarlo ma anche per dirgli la propria pena o il disappunto, persino la disperazione, stare con lui, anche quando sembra più «torrente infido» che amico dolcissimo, e lo stare assomiglia a una lotta…

È la gioia dell’orante, poiché la preghiera è la prima naturalissima espressione di chi cerca, e scopre che il suo cercare è già un trovare. Senza tale gioia si possono anche dire un sacco di orazioni ogni giorno senza pregare mai, o riducendole a “pratiche di pietà” imposte da qualcuno o da qualche regola, e da sbrigare in qualche modo, pura burocrazia del funzionario del divino, fino a stufarsene.

Alla fine la gioia (la gioia di chi trova). Colui che trova il tesoro nel campo è così «pieno di gioia» per la scoperta che non esita un attimo a liberarsi di tutti i suoi averi per acquistare il campo.

La cosa interessante è proprio l’intensità di questa reazione, che porta a fare scelte, e scelte totali e determinanti: addirittura l’uomo del vangelo «vende tutti i suoi averi» per quel tesoro, ma lo fa con leggerezza, non con sforzo o perché la persona è in qualche modo costretta, né con quella tensione legata alla rinuncia che spesso dà un senso di frustrazione alla vita del seguace di Gesù. No, qui c’è una persona libera, con una passione forte per un tesoro di fronte al quale nessuna cosa al mondo ha importanza e tutto impallidisce. E per questo ha il coraggio di fare decisioni, anche forti, ma con libertà interiore, per amore.

È un punto centrale nella nostra riflessione sul dinamismo della gioia cristiana: la gioia è ciò che ti consente di fare le cose con libertà, in forza di un’attrazione interna, ricca di energia, che dà la forza della rinuncia e ne rende leggero il peso («il mio giogo è dolce e il carico leggero», Mt 11,30).

In tal senso la gioia è condizione previa per fare delle scelte, è “ciò che viene prima”, ma anche quel che le accompagna e le segue è “ciò che viene dopo” come quel che le autentica perché garanzia di libertà. Nessuno, di conseguenza, può imporsi una rinuncia se non per qualcosa che sente più bello rispetto a ciò cui dice di no, né può imporla agli altri se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia rende accessibile a chi la sceglie.

Per questo «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7), perché solo tale modo di donarsi è sincero e appassionato, non costretto né comunque fatto a malincuore (e dunque insincero)…

Sono tantissimi gli esempi che potremmo citare, più o meno noti. Uno piuttosto recente è quello di suor Emmanuelle, la «Madre Teresa del Cairo», questa donna morta a quasi cento anni dopo una vita totalmente dedicata agli altri, giudicata per due anni consecutivi – lei, alta e asciutta, con quel sorriso che le illuminava il volto segnato da rughe sottili e il vestire dimesso – come la donna più interessante dai francesi, per l’azione umanitaria, l’altruismo, la compassione e la solidarietà manifestate nella sua lunga vita. La sua massima felicità, infatti, era stata l’inaugurazione di un liceo per ragazze povere nella bidonville del Cairo. Ma all’origine della sua dedizione, e della sua gioia, riconosceva la beatificante tensione della ricerca «in Dio di un amore duraturo e senza limiti…, che avrei portato a migliaia di bambini messi da parte dal mondo».

 

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt 5,13). Il rischio di perdere la gioia

C’è il forte rischio di perdere la gioia. A causa nostra; ad esempio perché perdiamo lo slancio di vivere nel bene, perché quando gli altri ci offendono ci chiudiamo in noi stessi, ecc. Ma ci sono anche motivi che ci vengono anche suggeriti da colui che è il Tentatore, ed è sempre pronto a rovinare l’opera del Signore in noi. Ne cito alcuni, per capire come certe volte ci lasciamo tentare, facendo nostre le sue “ragioni”. Il nemico, ad esempio:

ci presenta cose che ci turbano. Oscurità e turbamento, inquietudine e agitazione continuano, dunque, a essere le armi di satana. Ci fa dunque dubitare della bontà di Dio, fa di tutto per diminuire in noi la fede come abbandono in Lui e la speranza.

ci spinge ad inorgoglirci perché abbiamo ricevuto delle consolazioni e/o delle illuminazioni, al punto che ci sentiamo superiori agli altri. E magari li critichiamo.

● ci porta, poco a poco, ad adattarci alle “comodità”: perché, infatti, essere così rigoristi, così ascetici? Così si cade nella mediocrità e nell’ozio…

ci fa credere che è sufficiente attenerci all’osservanza esterna (per i religiosi quella stabilita dalle regole), accostandosi anche all’Eucaristia con leggerezza e superficialità, e quindi senza cura dell’interiorità. Così ci sembra di essere a posto… ma sempre più vuoti nel cuore.

● Un altro modo con il quale il Nemico – con i suoi inganni – ci trascina verso il male, è evidente in chi perde il tempo a disquisire su astratti principi di diritto, di giustizia e anche di carità, che a nulla o a poco servono per la soluzione di casi concreti, perdendo così di vista l’impegno per l’agire concreto;

● Non poche volte, facendo leva sulle sane esigenze della natura, il demonio propone di curare la salute, avere il necessario per vivere con digni­tà, decoro e anche gioia, conservare il buon nome, ecc., ma... in maniera da sfrenare tali sane tendenze, fino a fare cadere nella concupiscenza, per cui si diventa salutisti, gelosi, invidiosi, insofferenti, sospettosi.

● Quando una persona è generosa, impegnata, lo spinge a a scegliere il meglio in sé (ma cos’è in realtà?) separandolo dal resto. Gli esempi in questo campo sono infiniti: è in nome del meglio che nelle comunità e nelle famiglie ci si divide, si litiga e si uccide lo stare insieme. Già fin dall’inizio è questo che più ha nociuto alla Chiesa, producendo fazioni, eresie, divisioni, lotte.

 

«Beato chi ascolta la parola di Dio e la osserva» (Lc 11,28): l’amore gioioso e liberante della Parola

Per non perdere la gioia abbiamo una luce: quella della Parola come punto di riferimento del desiderio del credente (la Parola come contenuto), e pure del processo dinamico credente che conduce alla gioia (la Parola come metodo).

«La tua legge è la mia gioia…» (Sal 118,77). Legge qui va inteso come parola, parola-di-Dio. Il salmista ci regala in questo salmo espressioni straordinarie che dicono tutto il suo amore per questa parola, come punto di arrivo di un cammino credente. Una parola attesa e lungamente desiderata («precedo l’aurora e grido aiuto…, per meditare sulle tue promesse», Sal 147-148), perché parola di verità («la verità è principio della tua parola», Sal 160), parola amata («sopra ogni cosa», Sal 167) e assieme temuta (Sal 161), mai dimenticata perché parola di vita, che fa vivere («la tua parola mi fa vivere», Sal 50), è in essa che il credente spera («se la tua legge non fosse la mia gioia sarei perito nella mia miseria», 92), è essa che il credente chiede a Dio («fammi conoscere la via dei tuoi precetti», Sal 27).

Oggi, grazie a Dio, nella comunità dei credenti è cambiato il rapporto con la Parola, ma non ancora al punto di divenire un rapporto di amore e di gioia, come conseguenza. In realtà questo è il punto fondamentale, quel che dovrebbe essere il frutto di una familiarità assidua con la Parola, di una consuetudine diaria con essa: l’amore per la Parola. A nulla varrebbe la lectio se non divenisse dilectio. Ovvero amore tipico e specifico per quella realtà misteriosa che è la Parola, al punto di poter dire: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca… Lampada per i miei passi è la tua parola» (Sal 118,103.105).

È un sentimento nuovo, da non confondere semplicemente con interesse per la Parola, intuito spirituale, gusto per lo studio, capacità di esposizione…, perché è inedito e originale per l’uomo amare la parola, esserne innamorati. Ma è il modo, l’unico modo autentico di rapportarsi alla Parola. Come dice Kierkegaard: «Come un innamorato legge una lettera dell’amata, così devi metterti a leggere la Scrittura… La Bibbia è stata scritta per te». Ma questo accade per chi dietro e dentro ad essa impara a cogliere Colui che non cessa di pronunciarla, Colui che si rivela, attraverso di essa, una presenza viva.

La Parola, infatti, è il segno immediato dell’amore di Dio, e del Dio rivelato da Gesù Cristo, un Dio che ha così tanto amato l’uomo da rivolgergli la sua parola, sia inviando il Verbo, sia instaurando con l’uomo un dialogo ricco di segni e simboli, suoni e voci, visioni e storie, parabole e parole, ora dolcissime ora amarissime…, tutto contenuto nel giardino delle Scritture sante, così simile al giardino del sepolcro, ove solo occhi amanti, infatti, sanno riconoscere il volto dell’Amato (cfr. Gv 20,15s).

E questo per la particolare identità del Dio dei cristiani: se questo Dio è relazione, allora «la Parola di Dio è Dio stesso nel segno della Sua parola! Essa partecipa della Sua potenza»: Dio vive, quasi respira o palpita il suo cuore in essa, e la parola ne è la manifestazione spontanea e subito accessibile, è la relazione in atto, è l’evidenza dell’amore che cerca comunione. Per questo san Gregorio raccomanda: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio». Se Dio mi parla vuol dire che mi ama; il suo amore è subito svelato dalla sua parola, qualsiasi essa sia, prim’ancora che dal suo contenuto; ed è amore personale perché è parola rivolta a me, qui e ora, per intessere dialogo con me. Amare la Parola, dunque, è scoprire in essa il Dio amante per lasciarsi da lui amare. E sentirsi nella gioia.

E non solo; amare la Parola è accettare concretamente di entrare in contatto con Colui che mi parla, è iniziare a rispondergli, e con la risposta la più logica e naturale, quella dell’amore e della gratitudine, da un lato, accogliendo e lasciando risuonare nelle profondità del mio piccolo mondo interiore la parola dell’Eterno e – dall’altro – lasciandomi avvolgere da questa corrente di amore che mi abilita a mia volta a parlare, o mi educa a vivere la relazione, a essere pure io relazione, perché così il Creatore mi ha voluto, a dire e ridire a Dio le parole che lui ha detto a me, parole d’amore. Mistero grande!

Qui nasce il credente, come un bambino che impara a parlare in forza dell’amore della mamma e ripetendo le parole della mamma. Ma qui cresce anche l’adulto, quel «bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2), che il Padre-Dio ha reso suo partner e interlocutore.

La gioia del compimento. Il dinamismo che potremmo chiamare mariano è tipico di chi si pone dinanzi alla Parola con lo stesso atteggiamento con cui Maria accolse nel suo cuore la parola dell’angelo, perché si compisse nel suo grembo, determinando la sua gioia esplosa nel Magnificat, ma già evocata dall’annunciatore stesso del messaggio divino: «Rallegrati, Maria, hai trovato grazia…, sei la piena di grazia». La Parola sarà conosciuta nel suo senso profondo solo quando il credente avrà il coraggio di scommettere su di essa, un po’ come Pietro quando decide di obbedire a Gesù che lo invita a fare qualcosa di poco convincente e illogico: gettare la rete, in pieno giorno, dall’altra parte della barca. Pietro lo fa, ma solo «sulla tua parola» (Lc 5,5), perché è essa che glielo chiede. Così la Parola-del-giorno si compie, piano piano diventa chiara e comprensibile, si realizza nella vita di ogni giorno, esattamente come nel grembo di Maria: mistero grande e quotidiano!

 

«Beati i poveri in spirito…, gli afflitti…, i miti…» (Mt 5,3-12)

Gesù, il grande predicatore del regno dei cieli, annuncia le beatitudini. Lui, il beato per eccellenza, vuole che anche coloro che accolgono il Regno siano beati, cioè felici, gioiosi. Ma a quali condizioni? E qui appare la singolarità dell’annuncio: saranno felici e contenti in situazioni, umanamente parlando, per nulla contigue alla gioia, anzi, a essa opposte, almeno apparentemente.

In altre parole, la natura della felicità portata da Gesù non ha nulla in comune con la felicità di cui parla il mondo e che sembra naturale. La felicità cristiana è in certo senso contraria a quella del mondo, viene da altra fonte e ha criteri diversi, procede per altre vie, è un sovrappiù di una vita vissuta in pienezza come figli di Dio.

In questa prospettiva Gesù ci vuole sottrarre da quell’inganno nel quale erano caduti i nostri progenitori, per accogliere nella verità la gioia che il nostro cuore desidera e che Egli stesso desidera per ciascuno di noi.

Quale è stato l’inganno nel quale sono caduti i progenitori? È – lo ricordiamo brevemente – la pretesa di trovare la propria sazietà, realizzazione, gioia, nel prendere da sé il frutto dell’albero. Il discorso del serpente è apparso suggestivo ai progenitori perché ha toccato i sentimenti, il senso del limite e la relazione con l’Assoluto. Significativa è la descrizione delle risonanze interiori al discorso del serpente, che precedono la scelta peccaminosa: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6).

Il testo della Genesi pone come conseguenza del peccato la morte: «Qualora ne mangiassi moriresti» (2,17). Questa annotazione, in apparenza smentita dai fatti, rivela invece alcune dinamiche paradossali dell’agire umano di ogni tempo. Essa dice anzitutto che il peccato non porta mai ai risultati sperati, ma a una deprivazione delle proprie possibilità di vita. Il seguito del racconto precisa tuttavia che si tratta di una esperienza ben più complessa e articolata della mera morte fisica: la morte simboleggia la punizione che l’uomo dà a sé stesso, essa accompagna le sue azioni, i progetti, i pensieri, gli affetti. Segni chiari di tale morte sono proprio – come insegna anche sant’Ignazio – oscurità, tormenti, inquietudini, tristezza, accidia, disperazione.

Al contrario la beatitudine, la felicità, si realizza in colui che vive, come figlio, nell’amore, alla sequela del suo Signore. E’ una gioia “paradossale”, perché non toglie le contrarietà e le sofferenze: è la gioia concessa a chi, all’interno di tali situazioni, fanno esperienza dell’incontro con il Signore e del  suo amore.

Il Maestro qui vuole dire che l’autentico credente è colui che in tutte quelle situazioni in sé negative (persecuzione, calunnie, ingiustizie, sopraffazioni, violenze…) ha scoperto la felicità, o ha imparato a sperimentare – in fondo ad esse – un’insperata e singolare presenza di Dio. Cristiano è colui che lentamente è cresciuto in questo sorprendente apprendimento esperienziale: ha imparato a godere proprio laddove l’uomo di solito non può che soffrire; a incrociare lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine o dell’umana ingratitudine; a sentirsi da lui particolarmente custodito proprio quando si è abbandonati e traditi; prezioso ai suoi occhi quando non conti niente per nessuno; figlio suo pre-diletto quando la vita è violenta e chi hai amato ora ti si rivolta contro…. Al punto che questa esperienza è divenuta sapienza, nel senso latino del verbo sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

C’è del paradosso in tutto ciò, ma solo fino a un certo punto: è già l’intuizione psicologica a ricordarci che la verità è spesso fatta di opposti, e che il senso pieno della vita lo sperimenta solo chi ha il coraggio di affrontare assieme le polarità contrastanti dell’umano esistere, ove l’una polarità convive con l’altra e ne ha bisogno per essere correttamente compresa, la illumina e ne è illuminata. Per questo, ad esempio, colui al quale le cose vanno sempre bene, stimato e benvoluto da tutti, senza problemi e sempre sull’onda del successo…, come potrà sperimentare la fame e sete di Dio, e poi la beatitudine corrispondente? Ma anche su un piano solo umano chi non ha mai assaggiato la solitudine che ne sa dell’intimità della relazione? Chi non ha provato l’abbandono o persino la disperazione come può rivolgersi a Dio e pregarlo come il conforto unico, l’amico sicuro, la speranza rocciosa, con la gioia che ne deriva? O pure chi non ha toccato il fondo della propria debolezza, come potrà scoprire la potenza della Grazia, o vantarsi addirittura della propria debolezza («quando sono debole è allora che sono forte», 2Cor 12,9)? Chi non ha mai rischiato di “annegare” nella constatazione della propria impotenza o nella sconfitta della propria presunzione, come potrà gridare a Dio nella verità: «Signore, salvami!»? (cfr. Mt 14,30). Quanti salmi raccontano la disfatta umana personale a vari livelli, da quello sociale-relazionale a quello psicologico e persino morale, come luogo imprevisto di grazia, come sorprendente inizio di un cammino nuovo, come contatto con un volto inedito di Dio, come purificazione del cuore e della mente, come salvezza e, infine, come esperienza di una gioia non solo umana!

La prova, in tal senso, è il marchio autenticante la gioia cristiana, una sorta di conditio sine qua non, per cui non è gioia cristiana quella che a lungo andare non viene autenticata e garantita dal passaggio provvidenziale della prova. Prova come categoria biblica, che non ha risparmiato la vita di alcun credente «amico di Dio», lungo la quale è cresciuta la fede di Abramo e dei nostri padri nella fede, o della quale ringraziare Dio perché segno del suo stile inconfondibile, perché così «ha fatto coi nostri padri» (Gdt 8,25); prova non come test per verificare la fede, ma come occasione di crescita nell’amore, prova come strumento di cui Dio si serve per chiederci qualcosa che noi non avremmo mai avuto il coraggio di sacrificargli spontaneamente. Per questo la prova è anche scuola di apprendimento della gioia, di una gioia nuova. Senza la prova, infatti, o non c’è gioia, o sarebbe ancora una volta debole e insignificante, vecchia e instabile e non credibile.

Allora la fede diviene sofferta e combattuta, ma solo allora è vera fede, poiché è passata attraverso la lotta con Dio. Prima Dio era conosciuto «per sentito dire» (Gb 42,5), ora il credente può dire di averlo visto coi propri occhi. Ed è passaggio indispensabile non solamente perché solo una fede sofferta diviene fede forte e davvero personale, vissuta sulla propria pelle, ma anche perché solamente chi soffre la propria fede può giungere a goderne, a sperimentarla come ciò che alla fine dà luce e pienezza alla vita, come felicità. Tale fede e solo una fede provata e goduta, a questo punto, può essere condivisa, coi fratelli credenti, anzitutto, per crescere assieme, e poi annunciata con coraggio e creatività a chi non crede.

 

«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7): la gioia del perdono

La gioia di Dio. Gesù ci rivela quanto il Padre ha a cuore la nostra vita. E quanto Gesù stesso ha a cuore ciascuno di noi, giustificando così il so accogliere i peccatori ed offrire ad essi il perdono. Ce lo dice con la parabola della pecora smarrita. Nel racconto di Gesù stupisce il fatto che il pastore abbandoni il proprio gregge per andare in cerca della pecora che,  testarda e disobbediente al pastore, o desiderosa di autonomia, o tentata da chissà quali altri pascoli, o semplicemente distratta, si è persa. Una corretta impostazione economica non prevede sempre i possibili “scarti di produzione”?

Per di più non è concepibile neppure il fatto che il pastore abbandoni il suo gregge nel deserto, ove le pecore sono esposte, senza alcuna protezione, alla voracità dei lupi o all'assalto dei ladri e briganti; piuttosto doveva affidarlo ai pastori che condividevano con lui il recinto (Lc 2,8), oppure sospingerlo dentro una grotta! Queste pecore avrebbero tutte le ragioni per lamentarsi, come avrà ragione il figlio perbene quando vedrà il padre ridividere il patrimonio con il figlio prodigo ritornato!

Infine come può Dio essere più contento di un solo peccatore che ritorna a lui che di novantanove giusti che ogni giorno gli obbediscono con fedeltà, magari a prezzo di grandi sforzi e sacrifici?

Tutti questi paradossi della “ingiustizia” di Dio, vogliono in realtà sottolineare che ciascuno di noi è preziosissimo agli occhi di Dio. Nessuno deve sentirsi escluso dall'attenzione di Dio. Dio ama ciascuno di noi come se non esistesse nessun altro, e continuamente ci cerca, ci conquista, ci seduce. Adamo ed Eva dopo il peccato si nascondono dal Signore, ma Dio li viene a cercare: “Il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: Dove sei?” (Gen 3,8-9). E' Dio che chiama Abramo (cfr. Gen 12,1-3), che si rivela a Mosè (cfr. Es 3,1-22). E' Dio l'Amante che nel Cantico cerca l'amata (cfr. Ct 2,8-17; 5,1-2). E' Dio che “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E' Dio che sta alla nostra porta e bussa (cfr. Ap 3,20). Quello di Dio è un amore senza riserva che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell'assoluta gratuità di Dio.

Se ancora noi pensiamo di essere tra i “giusti”, forse dovremo umilmente riconoscere ancora di essere peccatori... di essere quella pecora cercata... Chi è mai davvero “giusto” di fronte a Dio? Qual è l’uomo vero? È colui che ha il coraggio di ammettere la propria debolezza e miseria, le proprie contraddizioni e negatività, gliene dispiace e le soffre dinanzi a Dio, se ne pente e chiede perdono… Questo e solo questo è l’uomo vero, poiché l’uomo è così.

Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento...” (v. 5). Davanti ai nemici Gesù giustifica perciò il Vangelo che annunzia a favore dei peccatori e degli ultimi. Se è vero che il pastore gioisce per la pecorella ritrovata, così è Dio! Gesù, il “pastore bello” (Gv 10,11ss) per ricercare ogni peccatore perduto è disposto a pagare di persona: è la croce. Egli si rallegra per il peccatore pentito! E' contento di perdonare! E, una volta ritrovata la pecora, il perdono è totale: nessun rimprovero, nessuna percossa. La gioia del cuore è tanta che tutto il passato è dimenticato. Egli è il Pastore che si è fatto agnello: ha portato su di sé il peso della croce, cioè di tutto il peccato dell’umanità.

Evidentemente questo atteggiamento del Padre deve riflettersi anche su tutta la comunità cristiana, che insieme  ai loro responsabili, cerca, trova e gioisce per il ritorno dei fratelli. Perciò la comunità ecclesiale – con il suo atteggiamento di fondo profondamente umano nei confronti dei peccatori (come il mangiare a tavola di Gesù con loro, che è il motivo dello sdegno dei farisei – 15,2) – deve far toccare con mano l’amore che il Padre ha per ogni persona.

 La gioia del perdono.  Se Dio è così, anche il credente, chiamato ad avere “gli stessi sentimenti – e quindi anche la gioia del perdono – che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), può provare tale gioia. Perdonare non è facile, ma possibile. E’ l’espressione più alta dell’amore.

Per il non credente sono molto più comprensibili le ragioni per non perdonare, che quelle del perdono. Vediamo quali sono le più consuete “ragioni” del non-perdono.

- Se mi vendico, starò meglio. Si tratta di un pregiudizio frequente in coloro che decidono di rifiutare il processo del perdono, ritenendolo — come notava Nietzsche — una rinuncia alla propria dignità, ai propri diritti, che invece verrebbero riaffermati da quella sorta di giustizia fai-da-te che è la vendetta. In realtà, la predisposizione d'animo ispirata alla vendetta conduce a coltivare atteggiamenti — come il risentimento e la ruminazione interiore — che avvelenano l'animo della persona, esasperandola, fino al punto di non riuscire più a trovare soddisfazione nella vita: «Il “regolamento di conti” che la vendetta promette è spesso più apparente che reale, poiché la perpetrazione di un torto crea una situazione di ingiustizia e disequilibrio che le vittime percepiscono non essere completamente compensata da atti di rivalsa»[6].

Difatti il senso di pacificazione interiore, proprio del perdono, non è paragonabile ai sentimenti provati da chi ha vendicato un torto subìto. Il primo è pacificante, il secondo distruttivo. Si tratta di una differenza confermata, anche sperimentalmente, a proposito del rancore e del risentimento. Rancore, odio sono atteggiamenti distruttivi anche sul piano della salute: tendono a far aumentare la pressione sanguigna, causano stress e pericoli di tipo cardiaco, sono alla base di disturbi psicosomatici legati alla tensione e alla ruminazione interiore (gastriti, ulcere). La decisione di perdonare, invece, si fa sentire anche sotto l'aspetto somatico/biologico. Nel momento in cui ci si pone in questo diverso atteggiamento, si percepisce un cambiamento interiore, avvertito anche a livello corporeo.

L’esperienza, inoltre, mostra che vendetta, anche se realizzata con successo, non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. Infatti si prova il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire.

- Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, come l'empatia, la ristrutturazione cognitiva, il desiderio, la benevolenza. Essi sono indice di una libertà interiore che sfugge al meccanismo di stimolo-risposta, proprio del bambino e delle reazioni emotivamente primitive, ma sa considerare quanto accaduto da un punto di vista più ampio e complesso, notando cose nuove.

- Deve soffrire per ciò che ha fatto. Dietro questa affermazione c'è la credenza, erronea, che rifiutare il perdono sia una maniera di punire l'altro. In realtà accade esattamente il contrario: in tal modo si punisce solo se stessi, torturandosi e impedendo a se stessi di vivere. Non perdonando, ci si illude di esercitare un potere sull'altro, ma di fatto ci si amareggia senza pietà. Cedere questo potere è consentire a se stessi di ricominciare a vivere, di percorrere nuove strade; forse si comincerà anche a capire che l'altro è molto differente da come la fantasia lo raffigurava.

Perdonare è in definitiva un esercizio di realtà, che può far bene all'altro, ma soprattutto a se stessi. A ritrovare la pace. Anzi la gioia. Perché quando il perdono è dato con il cuore, cioè è dato da un cuore liberato dal proprio io e da ogni rancore, partecipa della stessa gioia di Dio.

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[1] Cfr. G. CUCCI, «La felicità. Gustoso anticipo di eternità», in La Civiltà Cattolica, 4000 (2017) 401-413.

[2] R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia, Milano, il Saggiatore, 2008, 64; cfr G. SAMEK LODOVICI, L'utilità del bene: Jeremy Bentham, l'utilitarismo e il consequenzia­lisrno, Milano, Vita e Pensiero, 2004, 206.

[3] Sant’Ignazio di Loyola ci ricorda una verità fondamentale: che è proprio di Dio dare la gioia, la consolazione, la pace nell’anima.

[4] S. KIERKEGAARD, «Aut-aut», in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, 10.

[5] I. YALOM, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1997, 30. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.

[6]      Ivi, 28.

Vogliamo riflettere in preghiera sul mistero più grande della nostra fede:

L’Unità e la Trinità di Dio. Dio è Indivisa Unità sussistente nella Trinità delle Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Sono Tre eppure sono Uno: Tre Persone, una sola divinità, una sola natura o sostanza divina. Una Unità che non patisce solitudine, una Molteplicità che non patisce divisione. È un mistero grande: il più grande della nostra fede, mistero fondamentale da cui scaturiscono tutti i misteri principali della nostra fede, primo tra essi quello dell’Incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono tre dèi, ma l’Unico Dio “fuori di Lui non ci sono altri dèi” (Is 45,5.21). È una verità che non possiamo comprendere, ci supera, ci trascende e nello stesso tempo ci avvolge! Tutte le prerogative proprie di Dio sono possedute in pienezza da ciascuna Persona Divina senza diminuzione o variazioni! Ciascuna Persona è pienamente Dio, ma non sono Tre Dèi, bensì l’Unico Eterno Dio! L’unica distinzione che sussiste nella SSma Trinità consiste nelle relazioni interpersonali: il Padre non è il Figlio, ma il Padre del Figlio; il Figlio non è il Padre, ma il Figlio del Padre; lo Spirito Santo non è né il Padre né il Figlio, ma è il loro reciproco amore che li unisce in Unità Assoluta nella Comunione Eterna delle Persone.

La SSma  Trinità è un mistero di pienezza: “Pienezza di essere, pienezza d’intelligenza, pienezza d’amore” (P. Lanteri)! Pienezza che si espande e si dona nella creazione che riflette, come in uno specchio, tutta la sua bellezza e perfezione. Per cui, ecco che tutto il cosmo è meravigliosamente bello e ordinato. Quando guardiamo la bellezza di un semplice fiore, il gioco dei colori di un arcobaleno o il gioco di luci di un tramonto, quando guardiamo la luna, il sole, le stelle… o quando entriamo nella realtà del microcosmo: delle cellule e degli atomi e dell’ordine perfetto che le governa… non possiamo non rimanere stupiti ed estasiati per tanta perfezione e tanta bellezza. Ma nel creato c’è qualcosa di particolarmente bello e stupefacente, qualcosa che non è qualcosa, ma qualcuno: l’uomo, la donna: queste piccole e fragili creature che portano nel proprio intimo una particolare impronta del loro Creatore e Signore: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1,27). È appunto perché portiamo nell’intimo quest’impronta divina che non è marginale, superfluo o indifferente per noi sue creature, conoscere o non conoscere il vero Dio, l’unico vero Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Perché solo quando conosciamo il vero Dio possiamo dare una risposta alla domanda che ognuno di noi si porta nel cuore: “Chi sono io? Cosa sono chiamato ad essere?”. Mostrandosi e facendosi conoscere nella sua verità di Padre, Figlio e Spirito Santo, Dio permette all’uomo di conoscere ed entrare dentro le fibre più nascoste della propria entità umana che partecipa intimamente dell’essere del suo Creatore e Signore, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

 L’impronta del Padre                                                        

Ogni persona umana è creata a immagine del Padre, il Padre è Padre Eterno del Figlio, genera dall’eternità e nell’eternità il Figlio e di Lui si compiace eternamente. Ogni uomo è chiamato ad essere padre, ogni donna è chiamata ad essere madre. Padri e madri, cioè coloro che generano, che comunicano la vita, che partecipano alla paternità e maternità di Dio. Ciò che realizza l’aspirazione primaria di ogni essere umano non è generare dei figli, ma generare il “Figlio, lo stesso Figlio del Padre. Il Padre ci ha creato per darci la gioia di generare in Lui il suo stesso Figlio. La gioia di generare Lui, “il più bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3), “l’uomo Gesù Cristo” (1Tm 2,5) in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). In che modo ad ogni uomo, ad ogni donna è possibile questa generazione divina, in che modo è possibile generare il Figlio? È molto semplice! Basta fare la volontà del Padre: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella  e madre(Mt 12,50). Sì! “Fratello, sorella e madre, “madre”, cioè colei che genera. Facendo la volontà del Padre, entrando nel mistero della sua volontà con fede, abbracciando la sua volontà con amore, Lui, il Padre, ci rende partecipi della generazione eterna del Figlio. In noi e attraverso noi genera il suo Verbo nel tempo e in noi e attraverso di noi si compiace di Lui (cf Mt 17,5). Ogni uomo, ogni donna ha ricevuto dal Padre la vocazione a generare il suo Figlio, ogni essere umano è chiamata ad una vita feconda, non ad una vita sterile e ogni vita è sterile se in essa non nasce Gesù, non fiorisce Gesù, non cresce Gesù. Questa è la sterilità che frustra la vita di tanti, di moltissimi. Una vita piena di tutto: di beni, di agi, di figli, ma priva di Lui, priva del “Figlio”, una vita priva di Gesù è una vita fondamentalmente sterile e sarebbe meglio non essere mai nati (cf Mc 14,21), ma non vivere senza generare Gesù!

L’impronta del Figlio

Portiamo dunque in noi l’impronta della SSma Trinità: l’impronta del Padre che ci chiama a generare il suo Figlio, l’impronta del Figlio che gode di essere generato dal Padre e di stare con Lui. Tutta la Persona del Figlio è relazione al Padre, nulla fa, nulla dice se non quello che il Padre gli ha comandato (cf Gv 12,49-50) e desidera che tutti sappiano questo: che Lui ama il Padre (cf Gv 14,31) e che la sua vita, il suo cibo, il suo respiro “è fare la volontà del Padre (Gv 4,34) perché Lui e il Padre sono una cosa sola” (Gv 10,30) e chi “vede Lui ha visto il Padre”  (Gv 14,9). Quest’impronta del Figlio in noi è la sorgente della nostra inquietudine e insoddisfazione che ci perseguita in ogni cosa che inseguiamo o che abbracciamo. Il nostro cuore non può avere pace né riposo se non nel seno del Padre. È l’impronta del Figlio in noi che non ci permette di avere pace fuori dell’abbraccio del Padre. Ogni fibra del nostro essere è stata creata dal Padre perché faccia la sua volontà che è amore! Quale frustrazione profonda vive la persona umana quando non cerca la volontà del Padre, quando non fa’ la volontà del Padre, quando fugge la volontà del Padre perché abbagliata e ingannata da altre vie facili e comode (cf Mt 7,13), che promettono felicità e soddisfazioni che però svaniscono abbracciandole.

L’impronta dello Spirito Santo

Abbiamo parlato dell’impronta del Padre che ci sollecita a partecipare alla generazione del Figlio e della impronta del Figlio che ci chiama ad abbracciare la volontà del Padre, ma cosa dire dell’impronta dello Spirito Santo in noi? L’impronta dello Spirito Santo in noi consiste proprio in questa duplice impronta del Padre e del Figlio che ferisce il nostro cuore. Lo Spirito Santo ha una duplice dimensione intrinseca: è l’Amore del Padre verso il Figlio, è l’Amore del Figlio verso il Padre. È l’impronta dello Spirito Santo che mi attira verso il Figlio in quanto mi partecipa l’Amore del Padre verso il suo Figlio (cf Gv 6,44). È l’impronta dello Spirito Santo che mi orienta al Padre in quanto Egli è l’Amore del Figlio verso il Padre ed è proprio nello Spirito Santo che i Due, il Padre e il Figlio, non sono più “Due”, ma “Una cosa sola” nella Trinità Eterna. Propriamente dunque l’impronta dello Spirito è l’unità di queste due impronte che abbiamo ricevuto e che ci spingono ad essere “Uno” con tutti, innanzi tutto ci spinge ad essere “Uno” nella Trinità nell’unione d’amore con il Figlio che ci introduce nel Padre e ci fa essere una cosa sola con Lui (cf Gv 14,23; 17,21) e con i suoi fratelli (cf Rm 8,29). Per questo lo Spirito Santo ci spinge ad essere “Uno” con il nostro coniuge e la nostra famiglia  con cui condividiamo l’esistenza: non c’è pace per il nostro cuore finché non siamo in comunione con tutti.

Abbiamo parlato dell’impronta dello Spirito Santo come l’unità dell’impronta del Padre e del Figlio che ferisce il nostro cuore, propriamente il nostro cuore viene ferito per due motivi: Perché in esso venga riversato l’amore: l’amore del Padre e del Figlio che è lo stesso Spirito Santo che ci inserisce nel mistero della SSma Trinità facendoci essere “Uno” in Essa: Rm 5 [5]La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Gv 17 [11]Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi. […] [20]Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; [21]perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.[22]E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. [23]Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. [24]Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. [25]Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. [26]E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro".

Perché da esso possa sgorgare l’amore: l’amore verso il Figlio che a Lui ci unisce e quindi nel Figlio, con il Figlio e per il Figlio, l’amore verso il Padre e verso tutti.
Gv 19 [33]Venuti i soldati da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, [34]
Ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua.

Gv 7 [37]Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: "Chi ha sete venga a me e beva [38]chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno". [39] Questo Egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificatoCome lo Spirito Santo realizza la reciprocità dell’amore nel Padre e nel Figlio, così realizza anche in noi la capacità di ridare indietro l’amore ricevuto, l’amore, infatti, senza ritorno non è perfetto amore. Da qui la necessità che il nostro cuore venga ferito e quanto più ampia è la sua ferita quanto più ampia è la sua capacità di ricevere e dare amore. La perfezione dell’amore sta poi nella reciprocità: ricevuto e dato senza misura. Poiché “Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19) nella gratuità più assoluta, la perfezione del nostro ritorno d’amore potrà avvenire solo quando anche noi saremo capaci di amare così come Lui, “per primi” nella gratuità più assoluta e totale. Non potendo amare così Dio in Se Stesso, perché siamo stati amati “per primi”, troppo e di più, possiamo però ricambiare la sua misura (smisurata) d’amore attraverso il nostro coniuge in cui Lui stesso ci ha detto di essere vivo e presente (cf Mt 25,40). Lo Spirito Santo ci comunica proprio la capacità di amare “alla divina” i nostri cari e cioè “per primi”, senza interessi personali, nella più completa gratuità d’amore fino ad essere capaci come Gesù a dare la nostra vita per chi vive con noi nell’amore più grande possibile (cf Gv 15,13).

Per iniziare la preghiera è importante sapere chi siamo, ma è molto più importante avere consapevolezza di Colui di fronte al quale stiamo e con il quale vogliamo intrattenerci.

Bisogna insistere sul fatto della presenza di Dio. Essa è indispensabile, visto che il rapporto personale si stabilisce tra due che si incontrano. L'orazione inizia e si sviluppa solo se ci si mette e si sta alla presenza di Dio presente. La consapevolezza di questa presenza è, per la pre­ghiera, come l'aria senza la quale non si vive. È evi­dente, infatti, che se noi iniziamo la preghiera senza questa attenzione a Dio presente, noi non stiamo ascoltando o parlando con nessuno; con la conse­guenza che la preghiera resta un fatto estraneo alla vita, e tutto diventa formalismo o pura elucubrazione. Finché non si sperimenta il miracolo di essere davanti a Dio, non si è ancora incominciato a pregare, anche se abbiamo pronunciato una infinità di parole.

È meglio passare tutto il tempo a sforzarsi di cre­dere che Dio ci è presente e ci guarda con amore, che moltiplicare parole vuote, dette a nessuno. E di assoluta importanza, dunque, avere consape­volezza che il Signore ci è realmente vicino, presente al nostro spirito, solo così possiamo realmente vivere la comunione con Lui.

Si tratta di una presenza certamente misteriosa, che può essere in qualche modo colta con una certa intuizione, ma che noi possiamo percepire solo at­traverso un atto di fede la quale, si sa, è oscura. Par­lando della fede un giorno Paolo VI ebbe a dire che noi siamo, in un certo senso, nella condizione di una persona che si trova in una stanza completamente buia o di un cieco che non vede, ma che sa di avere davanti a sé una persona che osserva, ascolta, ama. Un altro è qui, e questi è Dio. Stare alla presenza di Dio significa essere attenti a Lui, e questo è già sta­bilire un contatto personale, significa ascoltarlo, si­gnifica iniziare il dialogo della preghiera; qualunque sia il sentimento che in quel momento nutriamo nel cuore o anche esprimiamo a parole.

Anzi, si può dire in tutta verità che pregare, so­stanzialmente, è starsene alla presenza di Dio, sa­pendosi da Lui guardati con amore.

Normalmente la prima reazione che dovremmo sentire nell'essere alla sua presenza, dovrebbe essere la gioia di sapercelo accanto, il desiderio di sentirlo parlare e di ascoltarne la voce. Capire chi è Lui e l'a­more che nutre per noi. E questa la prima scoperta che introduce già nel cuore della preghiera; solo in un secondo momento, sorgerà il desiderio di dover rispondere al suo amore e che cosa fare per, poi, tra­durlo in vita.

Abbiamo già sottolineato che non si tratta di im­maginarci che ci sia, ma convincerci e avere certezza che c'è davvero, e che vuole comunicare con noi. Questo è un punto su cui bisogna particolarmente insistere, perché troppo spesso pensiamo che  il Si­gnore stia lontano o distratto, quasi che il nostro impegno fondamentale sia quello di attirare la sua attenzione su di noi.
Invece è Lui che ci cerca e ci chiama, la nostra è solo una risposta.
Siccome, però, a noi capita di dimenticarlo e di non riconoscerlo, perché spesso col cuore e con la mente siamo lontani da Lui, pensiamo che anche Lui lo sia da noi.
Eb­bene, devo ripetermelo, Lui non mi dimentica, Lui mi riconosce sempre, Lui sta sempre lì a guardarmi, a invitarmi, a farmi compagnia, a istruirmi. Non posso dubitare che Egli mi ama, che in questo mo­mento mi sta amando. Che «mi guarda con amore e umiltà» (C 26,1). Posso forse dubitare del mio amore per Lui, ma non del suo amore per me. Ciò che spesso rende difficile questo atto di fede è anche il pensiero che Gesù ora si trova in cielo, in Paradiso, quindi lontano da noi. Dobbiamo correg­gere tale concezione del cielo e del Paradiso. Pro­prio perché glorioso alla destra del Padre, ora Gesù può essere presente dovunque c'è un cuore che lo accoglie.

Nella sua vita terrena Egli era condizionato dal tempo e dallo spazio. Anche Lui, come tutti noi, non poteva stare in due posti diversi allo stesso tempo, se era a Betlemme non era a Nazareth, se era a Giudea non era in Samaria. Nella sua umanità Gesù non po­teva vivere che in un solo luogo, come in un unico momento non poteva esprimere che un solo atto di amore. Ma dopo la sua risurrezione gloriosa Gesù vive un'esistenza spirituale e, quindi, si può far presente in ogni anima, e unirsi a ciascuno di noi. La presenza spirituale non ha relazione con lo spazio e col tempo. Anche io, che pur sono prigioniero del tempo e dello spazio, sono immensamente più vicino e presente a quelli cui penso e amo, che non a quanti urto e mi spingono nella metropolitana[1].

la presenza di Gesù non è soltanto una pre­senza fatta con la memoria come quando si ricorda qualcosa;

né soltanto una presenza spirituale come la presenza, in noi, del nostro affetto e del nostro amore per tutti coloro che amiamo. La sua non è solo pre­senza intenzionale e affettiva: è una presenza reale. Non è che Gesù è presente, di fronte a me e in me, perché lo penso e lo amo; io sono sempre presente a Lui, anche se non ci penso, anche se non lo amo. Non più legato a luoghi e spazi temporali, Gesù è sempre presente per stabilire un rapporto di reciproco amore con ognuno che è disposto ad accoglierlo.

Egli non ha più nemmeno bisogno di ripetere, come allora, diversi atti di amore secondo le persone che progres­sivamente incontrava; vivendo, in perennità, la pie­nezza dell'amore, totalmente trasfigurato in amore, Egli può sempre venire in ciascuno che ama e convi­vere con ciascuno che gli risponde. E chiaro, però, che il rapporto di amicizia diventa reale e attuale nel momento in cui si stabilisce la comunicazione; se, da parte mia, questa comunica­zione vitale non c'è lo impedisco al Signore di vi­vere con me quella comunione vicendevole che noi chiamiamo amicizia e che la preghiera vuole attuare. E questo per il semplice motivo che per avere un rapporto amichevole bisogna essere in due. Ma per quanto riguarda la presenza di Gesù che ha nei miei riguardi un cuore e un atteggiamento di amico e che, in questo momento, mi chiede di contraccambiarlo, non dovrei avere dubbi.

 È vero, rimane difficile "capire" l'onnipresenza di Gesù, ma ci dobbiamo credere, fino ad averne una assoluta certezza. Gesù ora vive nell'eternità di Dio, e l'eternità non è successione infinita di istanti. L'e­ternità è giustizia perfetta, è verità perfetta, è amore perfetto, è gioia perfetta. Ora, in tutto ciò che è per­fetto non ci può essere un più e un meno, un prima e un dopo, ma tutto è pienamente attuale; e questo non come stasi e immobilismo, ma come pura, as­soluta attività che, proprio perché tale, non ha da aggiungere niente alla sua pienezza.

La distinzione tra l'esistenza gloriosa del Signore e la forma della nostra esistenza terrena non è solo cronologica: nel senso che la nostra è temporale e l'altra senza fine. Quella gloriosa del cielo è una forma di esistenza in cui la pienezza sempre è. Non c'è passato e futuro, ma tutto l'esistente è presente, sempre, da sempre, per sempre. Una pallida idea di ciò la possiamo cogliere nella contemplazione perfetta che ci pone come fuori dal tempo. Dove e nella misura in cui avviene l'incontro con Dio, c'è la vita eterna. Stando nella condizione di eternità ora Gesù può venire a noi e incontrarci ogni momento, se noi glielo permettiamo. Una venuta, pertanto, che dipende da noi rendere possibile aprendo le porte del nostro cuore; una apertura che a sua volta è data dalla nostra fede, semplice, pura, viva.

Credo veramente che Gesù è qui con me, che mi guarda e mi ama come ha guardato e amato coloro che ha incontrato sulle strade della Palestina? Credo davvero che Gesù vuole stare con me e mi chiede di aprirgli la porta del cuore?

Ripetiamolo: è fondamentale e assolutamente pri­mario prendere consapevolezza e avere assoluta cer­tezza del fatto che Gesù è presente a me e io a Lui, e, insieme a Lui, è presente il Padre e lo Spirito. Nel tabernacolo, poi, questo è reso per me anche visibile e constatabile nel segno del pane consacrato.

Nel discorso che stiamo facendo abbiamo cercato di prendere atto della presenza di Gesù, Verbo in­carnato, ma è evidente che Gesù è indissolubilmente unito al Padre nello Spirito. E questo ci porta al con­tenuto centrale della nostra vita di grazia, che è il su­blime mistero dell'Inabitazione, cioè della presenza della Trinità nell'anima dei giusti, e, naturalmente, con la Trinità, di tutto il Paradiso! Con la giustifica­zione Dio viene nel cuore dell'uomo e vi pone la sua dimora, ne prende amoroso possesso per intrecciare un rapporto vitale fatto di conoscenza e di amore. Sta qui l'inizio e il fondamento della vita cristiana, dell'ascesi e della santità. Non possiamo non chiederci se e fino a che punto viviamo nella consapevolezza di questo ineffabile mi­stero della presenza di Dio in noi. Forse dobbiamo riconoscere che nel nostro intimo c'è più spazio per una infinità di altre presenze che occupano e pre­occupano la mente e il cuore, spesso inutilmente, a volte in modo dannoso.

Quando parliamo di Trinità presente in noi vo­gliamo riferirci al fatto che Dio vive in noi la sua vita, una vita di comunione piena tra il Padre e il Figlio in un atto perfetto di infinito ed eterno Amore. Ma perché la Trinità viene a vivere la sua vita in noi? Per rendercene partecipi. Anzi, viene a noi nel fatto stesso che ci rende partecipi della sua vita; si tratta di una presenza dinamica, non statica. Il Padre continua a generare cioè a dire: «Figlio»; il Figlio continua a riceversi e a donarsi dicendo: «Padre». Questo loro eterno "dialogo" si realizza in un atto sostanziale di Amore che è lo Spirito Santo. È dunque l'Amore, lo Spirito Santo, che li unisce, che li fa Uno, che è la loro Comunione.

Ebbene, la presenza dinamica della Trinità in noi vuol dire che lo Spirito Santo ci inserisce in questo dialogo nel quale noi, uniti e insieme al Figlio, siamo messi in grado di dire con Lui: «Padre». E ciò che chiaramente insegna l'Apostolo quando afferma che lo Spirito del Figlio grida in noi: «Abbà, Padre». Pa­rola che dall'eternità esprime tutti i sentimenti del Figlio verso il Padre, a cui il Verbo incarnato ha dato una espressione umana, e che noi ora siamo resi ca­paci di ripetere insieme a Lui, per essere la continua­zione della sua voce nella storia. Questo sottolinea ancora una volta che la pre­ghiera è un dono che ci ritroviamo dentro. Nel fondo della nostra anima di battezzati è vivo il dialogo del Padre con il Figlio nello Spirito Santo. Questo dia­logo di amore è la preghiera primordiale, perfetta, assoluta. Essa ci inabita. La preghiera nostra con­siste nello scoprire, ascoltare, lasciarci coinvolgere in questa "preghiera" dei Tre nel fondo di noi stessi. Ecco perché è lo Spirito, Comunione del Padre e del Figlio, che ci rende capaci di dire: «Padre!». Come il Verbo dice: «Padre!» in un atto di Amore infinito, così anche noi, pos­siamo dire: «Padre!» in un atto di amore temporale. Tutto l'insegnamento teresiano sulla preghiera tende a portare l'orante all'incontro con Dio nell'in­timo del suo cuore. Il simbolismo a cui lei spesso ricorre, del castello, del palazzo, del diamante pu­rissimo di cristallo, al cui centro come in un trono si trova sempre il re della gloria, ha un unico significato: l'anima dimora di Dio. È nell'intimo di sé il luogo privilegiato in cui Dio si incontra più facilmente e «con maggior profitto che non nelle altre creature, e qui afferma di averlo trovato anche sant'Agostino dopo averlo cercato altrove» (4M 3,3).

Vivere il mistero dell'inabitazione è vivere riti­rati nell'eremo interiore dell'amore di Dio. Questo eremo può essere il deserto, la cella, la clausura, ma può essere anche la vita ordinaria, nella misura in cui il senso della presenza di Dio si riesce a colti­varlo. Questo richiamo alla semplice ferialità diventa per noi un incoraggiamento e uno stimolo a vivere il quotidiano con generosità e fiducia, sapendo che nelle pieghe della vita ordinaria, la più semplice e ripetitiva, si nasconde il volto e il cuore del Dio tri­nitario. Se guardiamo all'esperienza di Elisabetta della Trinità vediamo come tutta la sua vita vibri della pre­senza della Trinità dalla quale ella si sente inabitata e nella quale si trova immersa, sepolta come in un oceano di amore. Nella sua celebre "Elevazione" è il rapporto con ogni singola Persona che viene vissuto con particolare intensità e spessore teologico. Questo incontro con Dio nell'intimo non è un ripiegamento su se stessi, non è intimismo. L'espe­rienza di Teresa e di tutti i veri contemplativi ci dice che vivere nel profondo di sé questa comunione intima con Dio, non isola dagli altri, non estranea dalle vicende di questo mondo. Perché chi vive con Dio e vive per Lui vive la libertà pura di un'anima che spazia negli orizzonti divini. Il luogo dell'anima orante è l'immensità di Dio. Vivere in Dio è vivere nell'immensità, come vivere in Cristo è vivere nell'a­more.

Se si prega davvero, anche nel luogo più lontano e de­serto, si porta nel cuore il peso del mondo. Ciò è inevita­bile perché il cuore di Dio è fatto così; ed è solo dal suo cuore che ogni preghiera scaturisce. Del resto - è facile costatarlo - lo zelo apostolico che nasce dalla nostra co­noscenza degli uomini ha le dimensioni del nostro cuore: non di più. Invece lo zelo che nasce dalla fusione della no­stra volontà con quella del Signore ha altri confini, ha dimensioni ben più vaste: quelle del cuore di Dio[2]. Entrare in rapporto con Dio- comunione significa capacità di costruire la comunione nella comunità e nella Chiesa, e avere il desiderio struggente che tutti gli uomini, anche i più lontani, arrivino a farne parte. Un desiderio attivo, fatto di fede, di benevolenza, di perdono, di spirito di sacri­ficio, di grande speranza. Senza dimenticare mai che la sua realizzazione, prima che il nostro quotidiano sforzo di abnegazione e di tenace perseveranza, ri­chiede la nostra fede per scorgere negli altri il volto di Gesù e la presenza stessa della Trinità.

Da quanto detto risulta che imparare a pregare, in fondo, non vuol dire vivere qualche cosa di nuovo, vuol dire vivere con una consapevolezza nuova quella "grazia" ricevuta già nel Battesimo, che è la nostra vita di figli di Dio. Potremmo dire che vivere il mistero dell'inabitazione è vivere il proprio Batte­simo e sperimentare la verità e la bellezza delle pa­role di Gesù: «verremo e prenderemo dimora in lui» (Gv 14,23). È accogliere con gioia la richiesta del Signore: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Il cristiano che vive la vita divina ricevuta nel Battesimo, è uno che, ogni giorno, vive in Dio, vive per Dio, vive di Dio; un vivere per Dio, in Dio, di Dio che, poi, vuol dire vivere in Cristo, abbando­nandosi alla potenza dello Spirito, perché operi in noi quello che ha operato un giorno nel grembo della Vergine, cioè l'incarnazione del Verbo! Per l'azione dello Spirito Santo deve prolungarsi in noi questo mistero, in modo tale che viva in noi Cristo, viva solo Cristo, e vivendo in noi Cristo e solo Cristo, viviamo di Dio, in Dio e per Dio, pro­prio come ha vissuto il Verbo incarnato nella na­tura umana assunta.Tutto questo, naturalmente, sarà possibile in forza di una vicendevole presenza vissuta con piena consapevolezza. In questo senso pregare vuol dire "vedere" Dio, in sé e intorno a sé, e lasciarsi coinvol­gere nel suo mistero. 

Per entrare in questo mistero, come detto, si im­pone prima di tutto la fede. Senza una fede viva, tutto quello che abbiamo detto diviene soltanto parole, che possono essere belle, ma che "lasciano il tempo che trovano". E d'altra parte, è necessario sottoline­arlo, non è la fede che realizza questo mistero, perché Dio è presente e ci ama anche se noi non ci pen­siamo; però, e questo è altrettanto importante, è la fede che ci rende partecipi di questo mistero. I doni di Dio divengono veri e operanti per noi solo nel momento in cui noi, illuminati e mossi dallo Spirito Santo, ne prendiamo coscienza e li accogliamo con fede. Perciò quanto più pura e grande sarà la fede nella presenza e nell'amore del Cristo, tanto più grande sarà l'esperienza di questa realtà nella quale Dio ci introduce. E questa è la preghiera nella sua sostanza e nella sua più profonda verità. Abbiamo detto che questa fede nella presenza di Dio, di per sé, non è legata ad alcun posto par­ticolare; la si può esercitare in ogni momento e in ogni luogo, ma sappiamo con certezza che ci sono due "luoghi" particolarmente indicati dove essa può meglio essere stimolata: la presenza nel sacramento dell'altare dove Gesù ci attende sempre, e, come ab­biamo appena detto, la presenza in noi per il mistero dell'inabitazione in forza del quale le Tre Persone di­vine si offrono a noi per essere conosciute e amate. A partire da ciò può essere sommamente utile pensare e vedere Dio presente anche nel cuore del fratello. Vedere Dio nel fratello, infatti, è una delle caratte­ristiche proprie dell'essere cristiano. «L'avete fatto a me!».

Se è vero che pregare è farsi da Lui guardare e guardarlo, allora con questo atto di fede nella pre­senza dell'amico che ci ama e ci vuol parlare siamo già entrati pienamente nella preghiera, come ricor­davamo.
Potremmo dire che stare consapevolmente davanti a Dio che ci guarda e che ci ama è inizio, progresso e perfezione della preghiera.
«La preghiera è la felice audacia di rimanere sotto lo sguardo di Dio che penetra fino in fondo... Quando l'uomo si sente guardato da Dio, in quel momento sta pregando. Non dice la sua preghiera, ma accetta e assapora il dono di Dio che è comu­nione con Lui. Infatti non si prega per pensare, ma per cercare, per incontrare il Signore, per starsene con Lui [3].

 

[1] Cfr. L. Évely, La preghiera di un uomo moderno, Marietti, Torino 1969, p. 113.

[2] A. Ballestrero, Cerco il tuo volto, cit., p. 81.

[3] Ibid., p. 75.

• Spesso abbiamo l’esperienza di una preghiera personale resa sterile e incolore dall’abitudine, dalla fretta, dalla superficialità, da una certa noia spirituale.

Ecco, questo articolo vuole essere un piccolo aiuto per chi desidera essere introdotto in una esperienza di preghiera più profonda che possa maggiormente incidere nella propria quotidianità di figlio o di figlia di Dio

• Tante sono le definizioni della preghiera, eccone alcune: “Relazione personale con il Dio vivente” (CCC 2558); “Un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati” (S. Teresa d’Avila); “È uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia. Insomma è qualcosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l’anima e mi unisce a Gesù” (S. Teresa di Gesù Bambino); “Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro tra la sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di Lui” (S. Agostino); “Lui mi guarda e io lo guardo” (Un vecchietto al curato.d’Ars). Belle vero? Ma forse ce n’è una ancora più bella perché ispirata direttamente da Lui: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). • Pregare è dialogare, è comunicare, intrattenersi con Dio ed è possibile solo per un motivo: perché Lui per primo desidera dialogare, comunicare, intrattenersi con te. Prima ancora che tu voglia, desideri, ti sforzi di pregare, Lui ti sta aspettando, anzi è Lui stesso che suscita in te il desiderio di incontrarlo nella preghiera.• Pregare è aprire a Gesù che bussa, Gesù bussa alla porta del tuo cuore, ma…, attento!, Gesù non bussa da fuori, non cercarlo fuori, non lo troveresti! Lui bussa dall’interno del tuo cuore dove già c’è, è lì, Lui è lì e bussa e chiede spazio per crescere nella tua intimità: vuol cenare con te! Non avere paura di aprirgli la porta, affrettati a farlo e non te ne pentirai mai, anzi lo ringrazierai in eterno!• Si può pregare camminando, lavorando, guidando, giocando, studiando… ma non imparerai mai a pregare in profondità finché non ti fermi in un luogo deserto e fai silenzio. Non si tratta di un deserto esteriore, ma interiore. Certamente un luogo solitario aiuta a pregare, la penombra di una chiesa anche, la viva luce accesa vicino a un tabernacolo ancora di più perché c’è una presenza sacramentale di Lui, ma il luogo dove tu incontri il tuo Dio non è un luogo esterno a te, pur bello, soave, devoto. No, il luogo dove tu preghi è dentro di te: è il centro del tuo cuore, l’intimo più intimo in te. Allora il tuo sforzo iniziale sarà quello di scendere dentro, scendere in basso nelle tue profondità fino al cuore del tuo cuore dove c’è Lui, il tuo Dio, il Dio vivo che vive in te e tu vivi in Lui.• Il Dio vivo è presente nel santuario della tua persona ed è il Padre che ti ha creato, il Figlio che ti ha redento morendo in croce per te, lo Spirito Santo che Loro ti donano per farti entrare nella Loro intimità d’Amore trinitario.• Attenzione! La preghiera si svolge nella fede, è la tua fede viva che afferma questa presenza di Dio in te, non il tuo sentimento, quello se c’è bene, se non c’è meglio. La fede è il faccia a faccia con Dio nell’oscurità.• Si tratta di sentire la presenza di Dio nella fede, non nel sentimento. Puoi pregare in questo modo anche senza esperimentare nessuna dolcezza sentimentale o emotiva, e pregare nell’aridità che renderà la tua aridità dolcissima!• Quando desideri pregare prova a fare così: Chiudi gli occhi e fai silenzio: fai tacere tutto in te, pensieri, immagini, preoccupazioni, affari, desideri… tutto taccia… Taci e scendi…, scendi giù nel cuore del tuo cuore: prendi l’ascensore dello Spirito Santo e scendi…, scendi nelle profondità di te stesso. Lì, nel cuore del tuo cuore, riconosci con gratitudine il Padre che ti ha creato e donagli un palpito d’amore del tuo cuore, e fermati a gustare quel palpito…

Riconosci in te, nel cuore del tuo cuore, il Figlio e unisciti a Lui nell’Amore, Lui che per te si è unito al legno, e fermati a gustare Gesù vivo in te…

Riconosci  in te, nel centro del tuo cuore, lo Spirito Santo e immergiti totalmente in Lui, lascia che il Padre e il Figlio riversino in te tutto il Loro Amore, lasciati prendere,  afferrare, invadere, espropriare da Lui e abbandonati totalmente all’Amore di Dio…, dì al Padre con Gesù e in Gesù:“Eccomi, fa di me ciò che vuoi”…  senti nel tuo cuore la bellezza e il fascino del “SI’” di Maria e fallo tuo. Ripeti nel silenzio, lì nel cuore del tuo cuore, con Gesù e in Gesù il tuo “Amen”, il tuo “Sì”: “Eccomi, fa di me ciò che vuoi”, dillo anche se in te tutto vorrebbe gridare “NO”, e anche se senti il tuo cuore ancora tanto attaccato alle cose vecchie, ripeti forte: “Fammi nuovo/a nel tuo Amore!” e fai silenzio, gusta il silenzio, entra nel silenzio, avvolgi la tua persona nel silenzio per ascoltare quelle parole senza parole che i Tre vorranno dirti. E ti fermi così a gustare la presenza di Dio in te, di Dio che vuole crescere in te, di Dio che vuole farsi spazio in te, di Dio che vuole dilatare il tuo cuore…, dai a Lui ad ogni palpito del tuo cuore il permesso di agire, di fare, di trasformare, di infiammare, di consumare, di travolgere, di sconvolgere, di creare nuovi spazi, nuova vita, nuovi orizzonti…

“Ma come faccio a pregare così quando in verità io pecco in continuazione?…Questa intimità con Dio possono averla solo Maria Vergine e i Santi, non certo io!”.

Nessuno è degno di pregare e di entrare in intimità con Dio, ma è Lui che desidera entrare in intimità con te, ti ha creato proprio per questo: perché tu diventi suo intimo amico e lo ami. Lui sa benissimo che non ne sei capace e allora ti fa capace Lui, ti fa degno Lui, pensa Lui a tutto perchè ti ama, ti ama così come sei e vuole donarsi a te nell’Amore. Neanche il peccato grave impedisce questa intimità perché il Suo Amore è più forte, nessuna miseria può vincere la Sua misericordia. Il papà buono della parabola più bella non aspettò che il figlio fosse pulito e rivestito per abbracciarlo, ma lo abbracciò così com’era quando lo vide, con tutto il brutto odore del lezzo dei maiali che gli aveva penetrato i vestiti e il corpo…, lo accolse così…, lo abbracciò così…, lasciati abbracciare anche tu…, anzi…, abbraccialo tu per primo, è la gioia più bella che tu possa dare a Dio: credere veramente che ti ami, credere nel suo Grande Amore, Infinitamente Grande e Potente! Vorresti presentarti davanti a Dio a mani piene, vorresti potergli dire: “Ecco questo e quest’altro… vedi l’ho fatto per te” e sentirti dire “Bravo”. Mentre Lui vorrebbe solo che tu gli presentassi le tue mani vuote per riempirle di Sé e dirti non “Bravo”, ma “Ti amo… ti amo di amore eterno!”. E se i difetti rimangono… se il peccato si ripete non una volta, ma troppe…, allora con ancora maggiore confidenza e fiducia ti avvicinerai al Padre delle Misericordie e all’Amico dei poveri peccatori chiedendo Loro che riversino in te ancora una volta il Loro Amore che sa far germogliare il deserto, far rivivere le ossa inaridite e far nuove tutte le cose…, senza mai stancarti, senza mai scoraggiarti, senza mai avvilirti, perché…, perché tu ormai sai bene che Loro ti amano di amore eterno!

19 Marzo 2019

SAN GIUSEPPE

ORE 8,00 - 10,00 - 17,30 SANTA MESSA

CITTÀ DEL VATICANO , 19 marzo, 2015 (ACI Stampa). Di Andrea Gagliarducci

Aveva detto Benedetto XVI: “Perché Dio ha scelto Giuseppe? Perché Giuseppe era un uomo giusto, pio. Ma anche perché Giuseppe era un uomo pratico. D’altronde, ci voleva un uomo pratico per organizzare la fuga in Egitto, ma anche per organizzare il viaggio a Betlemme per il censimento, e per provvedere a tutte le necessità pratiche di Gesù”.

E’ un tassello che si aggiunge ai tanti riferimenti alla figura di San Giuseppe di chi è stato pieno il pontificato di Benedetto XVI. Il 19 marzo del 2006 era una domenica, e il Papa ricordò la figura del suo santo sottolineando che “la grandezza di San Giuseppe, al pari di quella di Maria, risalta ancor più perché la sua missione si è svolta nell'umiltà e nel nascondimento della casa di Nazaret. Del resto, Dio stesso, nella Persona del suo Figlio incarnato, ha scelto questa via e questo stile - l'umiltà e il nascondimento - nella sua esistenza terrena”.

Nei primi Vespri della festa di San Giuseppe del 2009, Benedetto XVI tratteggia quasi con stupore teologico la figura di San Giuseppe. “San Giuseppe – disse Benedetto -  manifesta ciò in maniera sorprendente, lui che è padre senza aver esercitato una paternità carnale. Non è il padre biologico di Gesù, del quale Dio solo è il Padre, e tuttavia egli esercita una paternità piena e intera. Essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita. San Giuseppe ha dato prova, in questo senso, di una grande dedizione. Per Cristo ha conosciuto la persecuzione, l’esilio e la povertà che ne deriva. Ha dovuto stabilirsi in luogo diverso dal suo villaggio. La sua sola ricompensa fu quella di essere con Cristo.”

Chi era San Giuseppe? Il 19 marzo del 2011, Benedetto XVI spiegò che “san Giuseppe era giusto, era immerso nella Parola di Dio, scritta, trasmessa nella saggezza del suo popolo, e proprio in questo modo era preparato e chiamato a conoscere il Verbo Incarnato - il Verbo venuto tra noi come uomo -, e predestinato a custodire, a proteggere questo Verbo Incarnato; questa rimane la sua missione per sempre: custodire la Santa Chiesa e il Nostro Signore". E nell’omelia del 19 marzo 2009, Benedetto disse: “Giuseppe è, nella storia, l’uomo che ha dato a Dio la più grande prova di fiducia, anche davanti ad un annuncio così stupefacente” 

Ma la figura di San Giuseppe diventa centrale proprio nel periodo di Natale, quando Giuseppe diventa un personaggio importante nelle scritture. Il 30 dicembre 2012, giorno della Sacra Famiglia, Benedetto XVI chiede che "il silenzio di Giuseppe, uomo giusto (cfr Mt 1,19), e l’esempio di Maria, che custodiva ogni cosa nel suo cuore (cfr Lc 2,51), ci facciano entrare nel mistero pieno di fede e di umanità della Santa Famiglia. Auguro a tutte le famiglie cristiane di vivere alla presenza di Dio con lo stesso amore e con la stessa gioia della famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe”.

Giuseppe, per Benedetto XVI, è anche una figura da cui imparare. Nell’Angelus del 18 dicembre 2005, alla vigilia del suo primo Natale da Papa, Benedetto XVI invitò i fedeli a “lasciarsi contagiare dal silenzio di San Giuseppe.” “Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio. In questo tempo di preparazione al Natale coltiviamo il raccoglimento interiore, per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita”. 

San Giuseppe, uomo pratico, uomo dell’obbedienza silenziosa, uomo della storia e uomo giusto: sulla sua figura Benedetto XVI ha costruito anche la sua personalità, fedele all’idea che i santi di cui si porta il nome devono essere modello per la vita.

in News

La forza dirompente e distruttiva dell’ira

Nel libro dei Proverbi si mette in guardia il sapiente dalla pericolosità dell’ira, a causa delle terribili conseguenze cui potrebbe portare[1]. È proprio dell’uomo saggio guardarsi dal coltivare l’ira, egli deve piuttosto dominarla[2], per questo viene lodato l’uomo che è «lento all’ira»[3]. Chi è invece preda dell’ira è lo stolto (Pr 14,17.29) che non potrà mai compiere la giustizia in preda alla collera (Pr 14,17; Gc 1,20).

L’ira è l’espressione più alta della rabbia. Quest’ultima, in sé, è una passione in relazione con la facoltà riflessiva e deliberativa dell’uomo. Essa, infatti, è inizialmente accompagnata da una valutazione che indaga la gravità dell’offesa e del male ricevuto. La controprova di questo è data dal fatto che coloro che si trovano privi di ragione, anche temporaneamente, come gli ubriachi fradici, o coloro che sono sotto l’effetto inibitore dei farmaci non sono nemmeno capaci di arrabbiarsi.

Partendo da questa valutazione la rabbia ha di mira, come obiettivo, la giustizia per il torto subito.

Il problema è che la rabbia può degenerare nell’ira; la persona non è più in grado di controllarsi, è totalmente presa da questa passione. Gli autori medioevali amavano soffermarsi su tali eccessi con dovizia di particolari, per mostrare la deformità cui conduce l’ira. Essa fa terra bruciata quando viene lasciata avvampare indiscriminatamente. Si esaurisce, infatti, solo quando tutto intorno a sé è finito in fumo e cenere.

«Il potere dirompente dell’ira trova nel fuoco la sua metafora privilegiata, l’iracondo è come un serpente che vomita fuoco dalla bocca, incendiando tutto ciò che lo circonda; è come una pentola posta su un fuoco troppo forte che fa sbollire tutto il suo contenuto; è come un rovo secco che si accende per autocombustione al solo soffiare del vento»[4].

L’ira è accompagnata da una serie di sentimenti tra loro contrastanti: «dolore, tristezza, desiderio e speranza di vendicarsi… e se la persona che ha inflitto il danno è troppo superiore, non segue l’ira ma soltanto la tristezza»[5].

 

Le conseguenze dell’ira

Il male che facciamo a noi stessi. Gesù paragona l’ira all’omicidio (cfr. Mt 5,21) ma non dobbiamo dimenticare che prima di tutto l’ira è un suicidio, un lento avvelenamento che procuriamo alla nostra esistenza, fino a spegnerla del tutto. Esiste infatti uno stretto legame tra il vizio dell’ira e quello della tristezza; nel momento in cui perde il controllo e la giusta regola l’ira si autoconsuma, diventando triste accidia, si spegne come fuoco di paglia, perché al fondo dell’ira c’è la tristezza. Nel medioevo la personificazione del vizio dell’ira è resa con una figura di un uomo o di una donna che si pugnala. Nel capitello della cattedrale di Notre-Dame du Port di Clermont Ferrand sotto l’immagine dell’uomo che si pugnala si legge la scritta: ira se occidit. Emerge il carattere paradossale dell’ira che sorta come spinta di distruzione verso l’altro diventa causa di annientamento di se stessi. • Il male degli altri. Quando si lascia libero corso all’ira, essa produce frutti spropositati, come l’aggressività, la brama di vendicarsi, la violenza, l’odio, l’omicidio, fino alle rivoluzioni e alle guerre totali. Il terrorismo costituisce senza dubbio uno dei frutti più visibili dell’ira e dell’odio.

Oggigiorno nelle società più ricche si constata una proliferazione preoccupante dell’ira, presente anche negli avvenimenti più banali. Una delle cause del comportamento “trasgressivo e distruttivo” è data dalla noia delle persone, per cui la sempre maggiore facilità ad improvvise esplosioni d’ira si spiega come una sorta di volontà di compensazione, una maniera di sentirsi in qualche modo “vivi”. Altro motivo è dato dall’isolamento sociale o dal carattere delle persone che, se introverse e appartate, con più facilità trascorrono il tempo libero a fantasticare sul modo di vendicarsi per supposti torti subiti. In aggiunta a ciò va considerata la mole di armi messe con troppa facilità a disposizione di tutti, come un invito facile e immediato a far valere le proprie ragioni con mezzi facili ed estremamente persuasivi; come pure il prosperare dei videogiochi, film e romanzi sempre più violenti ed efferati, i quali finiscono per diventare una specie di droga affettiva che richiede dosi sempre più forti per catturare l’interesse. A tutto ciò va aggiunta la crescente latitanza di figure educative ed affettive in grado di integrare le spinte aggressive presenti nella persona, specie nell’età dello sviluppo; tale latitanza, accompagnata spesso da situazioni di violenza familiare, costituisce l’aspetto più grave del dilagare di comportamenti dominati dall’ira.

La relazione con Dio. L’ira inaridisce la vita spirituale. Un cuore abitato dal risentimento nei confronti del proprio fratello non può porsi con verità di fronte a Dio e la preghiera risulta ipocrita e arida; le parole di Gesù a questo proposito sono chiare: “Se dunque tu presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24).

 

La proposta sconcertante della mitezza

«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,3). «E’ un’espressione forte – scrive papa Francesco -, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso a Gerusalemme: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro” (Mt 21,5; cfr. Zc 9,9)» (GE 71).

Il mite è colui che cerca di imitare la personalità di Gesù che dice «imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il Dio di Gesù Cristo fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, è amore che non ama ciò che è amabile, ma rende amabile ciò che ama, perché Dio è mite. Gesù ha pienamente incarnato la mitezza di Dio. La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione. Di fronte al servo che lo percuote, Gesù reagisce con ragionevolezza: «Se ho fatto male, mostramelo, ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). In tutta la passione nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta» (1Pt 2,23). Gesù ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e di pazienza eroica: ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima.

Il mite, come capiamo, non è un soggetto passivo, il debole o lo zerbino. Il mite è una persona mansueta e paziente, interiormente forte che ha il controllo di sé.

Norberto Bobbio, considerato uno dei maggiori intellettuali del secolo scorso, afferma che nel nostro tempo essere miti è una scelta storica di reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere, è la virtù più «impolitica».  In una visione più alta della politica la mitezza, considerata una debolezza, dovrebbe avere invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Il mite è il forte, perché conosce le sue ragioni e le fa valere con fermezza che non è prepotenza o tracotanza. Egli convince, persuade, conduce l’altro ad argomentare, ad avere e cercare il dubbio per far crollare le sue false certezze, le sue verità non riconosciute. Evita le risse, la contesa, la lotta, non perché è pavido o ha paura, ma perché vuole condurre tutti a ragionare, a trovare nella parola, nel dialogo, nella conversazione la soluzione. Cerca sempre la luce nell’altro, nel quale deve far germogliare, maieuticamente, il senso della misura, della medietà, affinché possa essere smorzata la sua tensione alla violenza, placata l’ira. Se scansa il rumore, l’asprezza della disputa, i tumulti egoisti o di gruppo è perché vuole neutralizzare il livore infecondo, la rivolta effimera che vede profilarsi all’orizzonte[6]. 

I miti sono paradossalmente i forti e gli audaci, coloro che sopportano le traversie della vita, senza scoraggiarsi o sentirsi umiliati, coloro che tengono le loro passioni sotto controllo, che non si adirano, che non si vendicano, che non si sottomettono al male, ma lo combattono con pazienza e fermezza, senza perdere la speranza nell’aiuto del Signore. Come appare nella paolina “Lettera a Tito”, i miti sono coloro che non parlano male di nessuno, evitano le liti, sono dolci anche nel rimproverare quelli che si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi. Aiutati dallo Spirto Santo sono dotati di una forza controllata. 

Miti si diventa imparando, con un atteggiamento umile di cuore, a controllare la lingua e i pensieri, a spalancare il cuore alla magnanimità, a pazientare con i limiti altrui, alla capacità di perdonare, alla trasparenza nei rapporti interpersonali.

 

Il possesso pacifico della terra

Ai miti Gesù promette il possesso della terra. Per Israele il possesso della terra promessa era, insieme con la discendenza, «la beatitudine» (cfr. Gen 17,6-8). È una terra che Dio conquista per il suo popolo e quest’ultimo, per possederla in pace, deve adempiere la Legge. «Farai ciò che è giusto e buono agli occhi del Signore, perché tu sia felice ed entri in possesso della buona terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti, dopo che egli avrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te, come il Signore ha promesso» (Dt 6,18-19).

Ma di quale terra parla Gesù nella beatitudine? Non si tratta solo del paradiso; c’è un “già e non ancora”.

• La terra è anzitutto il nostro cuore. Chi sa rispondere al male con la mitezza lo possiede, non si lascia trasportare dalle passioni. Sa mantenere rimanere nella pace e nella serenità. Ma è necessario un cammino, o, meglio, un lavoro di “cura” del proprio cuore. Nella Genesi si narra che Dio affida all’uomo da lui creato il compito di coltivare la terra (cfr. Gen 2,15). Ma – si noti – l’uomo è stato plasmato con l’humus del suolo (cfr. Gen 2,7). Di conseguenza coltivare la terra è anche un segno/invito a coltivarsi. A coltivare il proprio cuore con l’ascolto della Parola di Dio, con la vigilanza, e con l’esercizio delle virtù.• La terra e gli spazi vitali che abitiamo. Tra il possesso del proprio cuore – con compostezza e mitezza – e il possesso della terra (la famiglia, la comunità, il luogo di lavoro, la città, la patria, la politica, l’economia…la natura) c’è una relazione profonda. Perché si “possiede” come dono da accogliere solo ciò che si ama e si coltiva.

La terra posseduta con mitezza è parte del Regno dei cieli. Gesù ha amato la nostra terra, l’hanno amata i nostri santi. Santa Teresa chiamava «paradiso» il suo piccolo convento di San Giuseppe. Ignazio amava quell’angoletto nella terrazza del Gesù in cui stava la piccola panca su cui si sedeva per piangere mitemente guardando il cielo stellato.

Il contrario di possedere la terra è contendere spazi. In ogni contesa di spazi si cela un’assenza di mitezza e un desiderio di potere. Esistono contese aperte e contese attutite, non sempre facili da discernere. Ma le distinguiamo con chiarezza a partire dai loro frutti: quelli che hanno desiderio di potere disputano spazi che poi non coltivano. Conquistano ma non fanno, e non lasciano fare ad altri. Accumulano territori – lavori, incarichi, responsabilità… –, ma quando non possono occuparsene loro non può farlo nessun altro, perché non hanno creato una squadra e non hanno lavorato con nessun altro. Ciò deriva dalla mancanza di mitezza nel proprio cuore, dal non aver trovato il proprio spazio, il proprio luogo, e quindi ci si dedica a combattere per quello degli altri. E dopo che lo si è conquistato, lo si lascia andare in rovina. Il violento conquista per poi disprezzare e abbandonare. Il mite, se la sua pace non viene ben accolta, si scuote la polvere dai sandali e se ne va in un’altra città, in un altro posto (cfr. Mt 10,14 e parr).

Per questo il Vangelo dice che solo i miti erediteranno e quindi possederanno la terra perché solo loro sono in grado di amarla e mantenerla a beneficio di tutti. Qui si apre un tema di grande attualità oggi: lo sfruttamento e conservazione dei beni della terra. Su questo fronte i miti sono coloro che abitano la terra senza violentarla o deturparla, vivendo in alleanza con essa, sfruttando i beni con coscienza e cura in quanto la terra non è una preda ma un dono di Dio a beneficio di tutta l’umanità.

 

Beati i misericordiosi

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». Se scindiamo la parola in miseris-cor-dare, capiamo che esso significa: “dare il proprio cuore”.

Nell’AT la misericordia divina è spesso collegate con le «viscere», con l’utero in cui il bambino è portato prima della sua nascita. Le viscere - segno di profondità in ogni essere umano, spazio che nella donna esiste in vista dell'altro da sé – designano nell'antropologia biblica il luogo in cui hanno origine i sentimenti più profondi d'amore, quell'amore che si declina come compassione: amore viscerale, intenso, misericordioso. Amore viscerale che Dio prova per l’uomo: «[Così dice il Signore]: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”» (Is 49,15).

• Nei Vangeli vediamo che Gesù ha compatito i peccatori e i sofferenti. La comprensione di Gesù delle nostre infermità si manifesta nella “com-passione”: Gesù com-patisce gli uomini, cioè soffre insieme a loro. Egli fremette di fronte a quanti erano in preda del male (cf. Mc 1,41; 9,22; Mt 20,34) e della morte (cf. Lc 7,13), si commosse alla vista delle folle stanche e affaticate (cf. Mc 6,34; 8,2). Offre loro un aiuto reale ed efficace. Gesù esprime la sua missione nella parabola del buon Samaritano di Lc 10,30-37 (è lui il Samaritano venuto da lontano!). In contrapposizione con il sacerdote e il levita che non si fermano a soccorrere il malcapitato, il samaritano lo fa. I verbi che descrivono l’azione di questo personaggio sono incalzanti:

- “lo vide”. Anche il samaritano vede il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimane una sensazione superficiale: lo spinge ad agire. È proprio vero, l’occhio rivela il cuore: «La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso» (Mt 6,22-23). L’occhio si sofferma su ciò che cattura il cuore: «Ubi amor, ibi oculus», «Dove c’è amore, lì’ si posa l’occhio»[7]. A volte basta anche uno sguardo amorevole, sguardo che non si sofferma su eventuali limiti e difetti dell’altro, anche se presenti e riconosciuti, e nemmeno cerca vantaggi o capacità particolari che ne confermino il valore. C’è una benevolenza nei confronti dell’altro espressa dallo sguardo; l’amato ha un valore unico agli occhi di chi ama non per qualche motivo particolare (intelligenza, aspetto fisico, abilità, simpatia), ma semplicemente perché “è lui”.

- “ne ebbe compassione”. A muovere il samaritano è la compassione, la tenerezza materna (splanchnizomai). Il samaritano è immagine della stessa tenerezza di Dio, la stessa che prova Gesù[8]. È tanto forte e tanto vera questa tenerezza che il samaritano nemmeno pensa a fare spazio a possibili risentimenti o a vecchie ruggini; non si sofferma a considerare che è un odiato giudeo e interviene perché c’è un urgente bisogno; nemmeno lo trattiene il pensiero del viaggio intrapreso e quindi eventuali impegni o appuntamenti. Il momento presente occupa totalmente l’orizzonte dell’interesse.

Significativi sono poi i gesti (sono 10, simbolo di totalità) del samaritano:

- “gli si fece vicino...”. Si tratta di vera vicinanza. Infatti il verbo prosérchomai è scelto per contrastare il precedente doppio uso del verbo “passare a fianco dall'altra parte” (vv. 31-32). Gesù è il Samaritano che si è fatto avanti. Si è candidato nostro prossimo, vuole entrare in contatto con il nostro male e sanarci.

- “gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino...”. Sono gesti semplici che esprimono la concretezza della carità. Il samaritano si improvvisa infermiere e interviene come meglio può, con i mezzi di cui dispone[9]. Poi utilizza la sua cavalcatura come autoambulanza e trasporta il poveretto al “pronto soccorso” improvvisato.

- “lo portò a una locanda (pandokeion)” (v. 34). La locanda è figura di Gesù che raccoglie e ospita tutti. In questa casa chiunque è nel bisogno trova ospitalità, pagata in anticipo dal Samaritano. La Chiesa, come ha fatto Gesù, è chiamata ad essere “ospedale da campo” (papa Francesco) che accoglie tutti.

- “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno” (v. 35). Questa “cura” non è solo occasionale, ma continuata, perdura nel tempo. È l'attenzione che Dio ha per ciascuno di noi: “a lui importa (mèlei) di voi” (1Pt 5,7). Prendersi cura è la tenerezza e la pazienza dell'amore che sa rispettare i tempi dell’altro. Non dobbiamo aver paura della tenerezza! Non dobbiamo essere impazienti! Dove c’è amore c’è la pazienza…

• Inoltre la misericordia di Gesù ha un altro aspetto, che troviamo nella parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32). Il figlio minore ha perso tutti i beni ricevuti dal padre e ha perso pure la sua dignità umana. «La misericordia – come l'ha presentata Cristo nella parabola – ha la forma interiore dell'amore, che nel Nuovo Testamento è chiamato “agape”. Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria morale, sul peccato»[10]. La gioia scaturisce dal “gusto” di aver fatto del bene, di aver aiutato i fratelli a trarre il bene dal male (cfr. Rm 12,21). È la gioia di cogliere quella voce del Padre che, come per Gesù nel battesimo al Giordano (cfr. Mt 4,13-17) e nella Trasfigurazione (cfr. Mt 17,1-8), riconosce Lui suo Figlio Amato. È partecipazione della stessa gioia di Dio per l’uomo che si converte, che ritorna alla vita: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).

Suor Faustina ha descritto molto bene, in una preghiera del 1937, fin dove e a quali profondità una misericordia sensibile e delicata è capace di spingersi, che cosa essa può concretamente significare per un cristiano e che cosa è concretamente capace di realizzare:

«Aiutami, Signore, fa' che i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base delle apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c'è di bello nell'anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.

Aiutami a farà sì che il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.

Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni, in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo e prendere su di me i lavori più pesanti e più penosi.

Aiutami a far sì che i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza. Il mio vero riposo sta nella disponibilità verso il prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo. A nessuno rifiuterò il mio cuore. Mi comporterò sinceramente anche con coloro, di cui so che abuseranno della mia bontà, mentre io mi rifugerò nel misericordiosissimo Cuore di Gesù. Non parlerò delle mie sofferenze. Alberghi in me la tua misericordia, o mio Signore.

Tu stesso mi comandi di esercitarmi in tre gradi della misericordia. Primo: nell'azione misericordiosa di ogni specie. Secondo: nel parlare con misericordia; quel che non riesco a fare con le azioni, devo farlo con le parole. Terzo: nel pregare; qualora non possa comportarmi con misericordia né agendo, né parlando, lo posso sempre fare pregando. Estenderò la mia preghiera fino a raggiungere anche i luoghi, in cui non posso essere fisicamente. O Gesù mio, trasformarmi in te stesso poiché tu puoi fare tutto»[11].

 

La forza del perdono

Gesù ci insegna che dobbiamo perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22), cioè sempre. E con il Padre nostro ci fa pregare: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

Il perdono, oltre a mantenere in pace il proprio cuore, ha la forza dirompente di restituire vita.

Emblematica sotto questo aspetto è la recente sto­ria del Sudafrica, anzitutto la politica di governo adot­tata da N. Mandela all'indomani della sua liberazione, avvenuta nel 1990. Egli trascorse in carcere ben 27 anni, ingiustamente condannato a motivo del suo im­pegno nella lotta contro l'apartheid, un carcere duro, segnato dall'isolamento, dalle intemperie, dai lavori forzati e durante i quali morirono, senza che egli po­tesse neppure vederli, la madre e il fratello, e senza sapere nulla della moglie e dei figli, con cui non riuscì più a riallacciare il legame una volta tornato in libertà. Eppure egli decise di perdonare i suoi carcerieri e co­loro che lo avevano condannato, meravigliando i suoi stessi oppositori. Una volta ottenuta la carica di capo dello stato, fece del perdono la politica di ricostruzio­ne di un paese che era giunto sull'orlo della guerra civile: «Egli dette, sorprendendo tutti, un ricevimento per le vedove dei politici che lo avevano imprigionato e pranzò con il magistrato che aveva sostenuto la sua impiccagione»[12].

Per Mandela il perdono è l'arma più potente a disposizione di un uomo, capace di proteggerlo da ogni male, fino a renderlo invincibile, perché con esso sconfigge il suo più grande nemico, se stesso, mante­nendo salda la lucidità e il controllo di sé.

La vicenda del Sudafrica risulta sotto molti aspet­ti densa di insegnamenti. Nel corso del processo di pacificazione la psicologa P. Godobo Madikizela, membro della Commissione per la riconciliazione in Sudafrica, decise di incontrare in carcere E. de Kock, capo delle Squadre della morte, uno dei maggiori responsabili degli omicidi e violenze che segnarono il periodo dell'apartheid, al punto da essere sopran­nominato dalla gente Prime Evil («il male assolu­to»), per i cui reati venne condannato a 212 anni di reclusione. La Godobo descrive, in particolare, un momento di questo confronto, quando de Kock incon­trò alcune vedove — i cui mariti erano stati assassinati per suo ordine — che gli avevano comunicato il loro perdono: «Quando cercai di capire cosa intendesse con l'espressione “perdonare Eugene de Kock”, una delle donne disse che egli ci fornì molte più notizie di chiunque altro circa la morte dei loro mariti. Aggiunse che volle prenderlo per mano per mostrargli che c'era una possibilità di cambiare, e che lo perdonava, in­condizionatamente. Quando le vidi uscire piangendo, chiesi loro cosa significassero quelle lacrime. “Esse” — mi risposero — “non sono soltanto per i nostri mariti, ma anche per lui”. Questa fu per me una cosa così incredibile, da diventare l'inizio del mio lavoro nel campo del trauma e del perdono».

Al termine di quell'incontro de Kock sembra vacil­lare e riconoscere l'enormità di quanto compiuto: «La sua faccia cambiò; si poteva notare quanto fosse afflit­to; iniziò ad agitarsi, a tremare, la sua voce era rotta. Disse con un sospiro: “Avrei desiderato fare di più che dire `Sono dispiaciuto'. Avrei voluto riportarli in vita. E invece devo vivere con tutto questo”». A quelle parole, stupendo se stessa, Godobo si trovò ad abbrac­ciarlo, provando una profonda pena per lui[13].

Per quanto riguarda l'Italia, non si possono non ricordare gli episodi, per lo più nascosti ma altrettanto significativi, di coloro che decisero di perdonare gli assassini dei loro mariti, figli, fratelli, parenti, amici, durante i sanguinosi anni del terrorismo. G. Bachelet, figlio del professor V. Bachelet, ucciso a Roma dalle Brigate Rosse, in occasione dei funerali del padre volle ricordare i suoi assassini, accordando loro il per­dono, suo e dei familiari, e auspicando il loro ravvedi­mento. Anni dopo, un gruppo di ex terroristi indirizzò un memoriale al p. A. Bachelet, fratello della vittima, in cui riconoscevano di essere stati sconfitti non dalle armi dell'esercito, né dai programmi politici, ma da quel gesto accordato loro, un gesto che aveva frantu­mato la loro ideologia: «Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante il funerale del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevo­cabile [...]. E se abbiamo cercato di cambiare, ciò è avvenuto anche perché qualcuno ha testimoniato per noi, davanti a noi, della possibilità di essere diversi»[14].

Ben presto a questa lettera seguirono degli incon­tri, che con il tempo sciolsero nelle vittime rancori e diffidenze, per lasciare posto a nuovi sentimenti, e suscitarono negli assassini il desiderio di riparare in qualche modo al male compiuto.

 

La gioia dei miti e dei misericordiosi

Quale è la sorgente della gioia, della beatitudine dei miti e dei misericordiosi? Dio stesso. In chi si “sintonizza” con l’agire di Dio, Dio si rivela a lui, si dona a lui. È – lo capiamo bene – una gioia che passa attraverso la “prova”, la fatica di affrontare la violenza con la mitezza, di pazientare di fronte ai limiti dell’altro, di vincere il rancore con il perdono che genera vita. Proprio lì dove molti si fermano nella sofferenza, il credente scopre la singolare presenza di Dio. Al punto che questa esperienza diviene sapienza, nel senso latino di sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

 

--- NOTE ---

[1] Cfr. Pr 6,34; 15,1; 16,14; 19,19; 27,4.

[2] Cfr. Pr 15,18; 22,24; 29,8.11.

[3] Cf. Pr 14,29; 15,18; 16,32.

[4] C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000, 60.

[5] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 46, a. 1.

[6] Cfr. https:// www.avvenire.it/agora/pagine/mitezza; http://www.interessicomunjournal.it/cultura/lelogio-della-mitezza-cuore-nella-ragione/

[7] S. Tommaso d’Aquino, 3 Sent., d. 35, 1,2,I.

[8] In Luca questo verbo compare tre volte: per la risurrezione del figlio della vedova di Naim (cfr. Lc 7,13); per l'accoglienza da parte del padre del figlio prodigo (Lc 15,20) e qui per il samaritano. Tre situazioni di emarginazione e di impurità assoluta esprimono per Luca la giustizia di Dio, la sua misericordia. “Avere compassione” dunque, dal punto di vista di Dio, significa protendersi al bisogno dell'altro per rigenerarlo a vita nuova.

[9] L'olio nell'antichità era noto per le sue proprietà terapeutiche. Il vino per la sua componente alcolica era invece usato come disinfettante nelle ferite.

[10] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 6.

[11]  Diario di suor Maria Faustina Kowalska, LEV, Città del Vaticano 2000.

[12] C. REGALIA - G. PALEARI, Perdonare, cit., 59.

[13] Cfr. G. Godobo Madikizela, A Human Being Died That Night: A South African Story of Forgineness, Houghton, Marines Books, 2004.

[14] A. BACHELET, Ritornate a essere uomini! Risposte di ex terroristi, Rusconi, Milano 1989, 16: corsivo nel testo.

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