I passi nel cuore - dall'ira alla pazienza dei miti e dei misericordiosi

La forza dirompente e distruttiva dell’ira

Nel libro dei Proverbi si mette in guardia il sapiente dalla pericolosità dell’ira, a causa delle terribili conseguenze cui potrebbe portare[1]. È proprio dell’uomo saggio guardarsi dal coltivare l’ira, egli deve piuttosto dominarla[2], per questo viene lodato l’uomo che è «lento all’ira»[3]. Chi è invece preda dell’ira è lo stolto (Pr 14,17.29) che non potrà mai compiere la giustizia in preda alla collera (Pr 14,17; Gc 1,20).

L’ira è l’espressione più alta della rabbia. Quest’ultima, in sé, è una passione in relazione con la facoltà riflessiva e deliberativa dell’uomo. Essa, infatti, è inizialmente accompagnata da una valutazione che indaga la gravità dell’offesa e del male ricevuto. La controprova di questo è data dal fatto che coloro che si trovano privi di ragione, anche temporaneamente, come gli ubriachi fradici, o coloro che sono sotto l’effetto inibitore dei farmaci non sono nemmeno capaci di arrabbiarsi.

Partendo da questa valutazione la rabbia ha di mira, come obiettivo, la giustizia per il torto subito.

Il problema è che la rabbia può degenerare nell’ira; la persona non è più in grado di controllarsi, è totalmente presa da questa passione. Gli autori medioevali amavano soffermarsi su tali eccessi con dovizia di particolari, per mostrare la deformità cui conduce l’ira. Essa fa terra bruciata quando viene lasciata avvampare indiscriminatamente. Si esaurisce, infatti, solo quando tutto intorno a sé è finito in fumo e cenere.

«Il potere dirompente dell’ira trova nel fuoco la sua metafora privilegiata, l’iracondo è come un serpente che vomita fuoco dalla bocca, incendiando tutto ciò che lo circonda; è come una pentola posta su un fuoco troppo forte che fa sbollire tutto il suo contenuto; è come un rovo secco che si accende per autocombustione al solo soffiare del vento»[4].

L’ira è accompagnata da una serie di sentimenti tra loro contrastanti: «dolore, tristezza, desiderio e speranza di vendicarsi… e se la persona che ha inflitto il danno è troppo superiore, non segue l’ira ma soltanto la tristezza»[5].

 

Le conseguenze dell’ira

Il male che facciamo a noi stessi. Gesù paragona l’ira all’omicidio (cfr. Mt 5,21) ma non dobbiamo dimenticare che prima di tutto l’ira è un suicidio, un lento avvelenamento che procuriamo alla nostra esistenza, fino a spegnerla del tutto. Esiste infatti uno stretto legame tra il vizio dell’ira e quello della tristezza; nel momento in cui perde il controllo e la giusta regola l’ira si autoconsuma, diventando triste accidia, si spegne come fuoco di paglia, perché al fondo dell’ira c’è la tristezza. Nel medioevo la personificazione del vizio dell’ira è resa con una figura di un uomo o di una donna che si pugnala. Nel capitello della cattedrale di Notre-Dame du Port di Clermont Ferrand sotto l’immagine dell’uomo che si pugnala si legge la scritta: ira se occidit. Emerge il carattere paradossale dell’ira che sorta come spinta di distruzione verso l’altro diventa causa di annientamento di se stessi. • Il male degli altri. Quando si lascia libero corso all’ira, essa produce frutti spropositati, come l’aggressività, la brama di vendicarsi, la violenza, l’odio, l’omicidio, fino alle rivoluzioni e alle guerre totali. Il terrorismo costituisce senza dubbio uno dei frutti più visibili dell’ira e dell’odio.

Oggigiorno nelle società più ricche si constata una proliferazione preoccupante dell’ira, presente anche negli avvenimenti più banali. Una delle cause del comportamento “trasgressivo e distruttivo” è data dalla noia delle persone, per cui la sempre maggiore facilità ad improvvise esplosioni d’ira si spiega come una sorta di volontà di compensazione, una maniera di sentirsi in qualche modo “vivi”. Altro motivo è dato dall’isolamento sociale o dal carattere delle persone che, se introverse e appartate, con più facilità trascorrono il tempo libero a fantasticare sul modo di vendicarsi per supposti torti subiti. In aggiunta a ciò va considerata la mole di armi messe con troppa facilità a disposizione di tutti, come un invito facile e immediato a far valere le proprie ragioni con mezzi facili ed estremamente persuasivi; come pure il prosperare dei videogiochi, film e romanzi sempre più violenti ed efferati, i quali finiscono per diventare una specie di droga affettiva che richiede dosi sempre più forti per catturare l’interesse. A tutto ciò va aggiunta la crescente latitanza di figure educative ed affettive in grado di integrare le spinte aggressive presenti nella persona, specie nell’età dello sviluppo; tale latitanza, accompagnata spesso da situazioni di violenza familiare, costituisce l’aspetto più grave del dilagare di comportamenti dominati dall’ira.

La relazione con Dio. L’ira inaridisce la vita spirituale. Un cuore abitato dal risentimento nei confronti del proprio fratello non può porsi con verità di fronte a Dio e la preghiera risulta ipocrita e arida; le parole di Gesù a questo proposito sono chiare: “Se dunque tu presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24).

 

La proposta sconcertante della mitezza

«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,3). «E’ un’espressione forte – scrive papa Francesco -, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso a Gerusalemme: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro” (Mt 21,5; cfr. Zc 9,9)» (GE 71).

Il mite è colui che cerca di imitare la personalità di Gesù che dice «imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il Dio di Gesù Cristo fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, è amore che non ama ciò che è amabile, ma rende amabile ciò che ama, perché Dio è mite. Gesù ha pienamente incarnato la mitezza di Dio. La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione. Di fronte al servo che lo percuote, Gesù reagisce con ragionevolezza: «Se ho fatto male, mostramelo, ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). In tutta la passione nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta» (1Pt 2,23). Gesù ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e di pazienza eroica: ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima.

Il mite, come capiamo, non è un soggetto passivo, il debole o lo zerbino. Il mite è una persona mansueta e paziente, interiormente forte che ha il controllo di sé.

Norberto Bobbio, considerato uno dei maggiori intellettuali del secolo scorso, afferma che nel nostro tempo essere miti è una scelta storica di reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere, è la virtù più «impolitica».  In una visione più alta della politica la mitezza, considerata una debolezza, dovrebbe avere invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Il mite è il forte, perché conosce le sue ragioni e le fa valere con fermezza che non è prepotenza o tracotanza. Egli convince, persuade, conduce l’altro ad argomentare, ad avere e cercare il dubbio per far crollare le sue false certezze, le sue verità non riconosciute. Evita le risse, la contesa, la lotta, non perché è pavido o ha paura, ma perché vuole condurre tutti a ragionare, a trovare nella parola, nel dialogo, nella conversazione la soluzione. Cerca sempre la luce nell’altro, nel quale deve far germogliare, maieuticamente, il senso della misura, della medietà, affinché possa essere smorzata la sua tensione alla violenza, placata l’ira. Se scansa il rumore, l’asprezza della disputa, i tumulti egoisti o di gruppo è perché vuole neutralizzare il livore infecondo, la rivolta effimera che vede profilarsi all’orizzonte[6]. 

I miti sono paradossalmente i forti e gli audaci, coloro che sopportano le traversie della vita, senza scoraggiarsi o sentirsi umiliati, coloro che tengono le loro passioni sotto controllo, che non si adirano, che non si vendicano, che non si sottomettono al male, ma lo combattono con pazienza e fermezza, senza perdere la speranza nell’aiuto del Signore. Come appare nella paolina “Lettera a Tito”, i miti sono coloro che non parlano male di nessuno, evitano le liti, sono dolci anche nel rimproverare quelli che si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi. Aiutati dallo Spirto Santo sono dotati di una forza controllata. 

Miti si diventa imparando, con un atteggiamento umile di cuore, a controllare la lingua e i pensieri, a spalancare il cuore alla magnanimità, a pazientare con i limiti altrui, alla capacità di perdonare, alla trasparenza nei rapporti interpersonali.

 

Il possesso pacifico della terra

Ai miti Gesù promette il possesso della terra. Per Israele il possesso della terra promessa era, insieme con la discendenza, «la beatitudine» (cfr. Gen 17,6-8). È una terra che Dio conquista per il suo popolo e quest’ultimo, per possederla in pace, deve adempiere la Legge. «Farai ciò che è giusto e buono agli occhi del Signore, perché tu sia felice ed entri in possesso della buona terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti, dopo che egli avrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te, come il Signore ha promesso» (Dt 6,18-19).

Ma di quale terra parla Gesù nella beatitudine? Non si tratta solo del paradiso; c’è un “già e non ancora”.

• La terra è anzitutto il nostro cuore. Chi sa rispondere al male con la mitezza lo possiede, non si lascia trasportare dalle passioni. Sa mantenere rimanere nella pace e nella serenità. Ma è necessario un cammino, o, meglio, un lavoro di “cura” del proprio cuore. Nella Genesi si narra che Dio affida all’uomo da lui creato il compito di coltivare la terra (cfr. Gen 2,15). Ma – si noti – l’uomo è stato plasmato con l’humus del suolo (cfr. Gen 2,7). Di conseguenza coltivare la terra è anche un segno/invito a coltivarsi. A coltivare il proprio cuore con l’ascolto della Parola di Dio, con la vigilanza, e con l’esercizio delle virtù.• La terra e gli spazi vitali che abitiamo. Tra il possesso del proprio cuore – con compostezza e mitezza – e il possesso della terra (la famiglia, la comunità, il luogo di lavoro, la città, la patria, la politica, l’economia…la natura) c’è una relazione profonda. Perché si “possiede” come dono da accogliere solo ciò che si ama e si coltiva.

La terra posseduta con mitezza è parte del Regno dei cieli. Gesù ha amato la nostra terra, l’hanno amata i nostri santi. Santa Teresa chiamava «paradiso» il suo piccolo convento di San Giuseppe. Ignazio amava quell’angoletto nella terrazza del Gesù in cui stava la piccola panca su cui si sedeva per piangere mitemente guardando il cielo stellato.

Il contrario di possedere la terra è contendere spazi. In ogni contesa di spazi si cela un’assenza di mitezza e un desiderio di potere. Esistono contese aperte e contese attutite, non sempre facili da discernere. Ma le distinguiamo con chiarezza a partire dai loro frutti: quelli che hanno desiderio di potere disputano spazi che poi non coltivano. Conquistano ma non fanno, e non lasciano fare ad altri. Accumulano territori – lavori, incarichi, responsabilità… –, ma quando non possono occuparsene loro non può farlo nessun altro, perché non hanno creato una squadra e non hanno lavorato con nessun altro. Ciò deriva dalla mancanza di mitezza nel proprio cuore, dal non aver trovato il proprio spazio, il proprio luogo, e quindi ci si dedica a combattere per quello degli altri. E dopo che lo si è conquistato, lo si lascia andare in rovina. Il violento conquista per poi disprezzare e abbandonare. Il mite, se la sua pace non viene ben accolta, si scuote la polvere dai sandali e se ne va in un’altra città, in un altro posto (cfr. Mt 10,14 e parr).

Per questo il Vangelo dice che solo i miti erediteranno e quindi possederanno la terra perché solo loro sono in grado di amarla e mantenerla a beneficio di tutti. Qui si apre un tema di grande attualità oggi: lo sfruttamento e conservazione dei beni della terra. Su questo fronte i miti sono coloro che abitano la terra senza violentarla o deturparla, vivendo in alleanza con essa, sfruttando i beni con coscienza e cura in quanto la terra non è una preda ma un dono di Dio a beneficio di tutta l’umanità.

 

Beati i misericordiosi

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». Se scindiamo la parola in miseris-cor-dare, capiamo che esso significa: “dare il proprio cuore”.

Nell’AT la misericordia divina è spesso collegate con le «viscere», con l’utero in cui il bambino è portato prima della sua nascita. Le viscere - segno di profondità in ogni essere umano, spazio che nella donna esiste in vista dell'altro da sé – designano nell'antropologia biblica il luogo in cui hanno origine i sentimenti più profondi d'amore, quell'amore che si declina come compassione: amore viscerale, intenso, misericordioso. Amore viscerale che Dio prova per l’uomo: «[Così dice il Signore]: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”» (Is 49,15).

• Nei Vangeli vediamo che Gesù ha compatito i peccatori e i sofferenti. La comprensione di Gesù delle nostre infermità si manifesta nella “com-passione”: Gesù com-patisce gli uomini, cioè soffre insieme a loro. Egli fremette di fronte a quanti erano in preda del male (cf. Mc 1,41; 9,22; Mt 20,34) e della morte (cf. Lc 7,13), si commosse alla vista delle folle stanche e affaticate (cf. Mc 6,34; 8,2). Offre loro un aiuto reale ed efficace. Gesù esprime la sua missione nella parabola del buon Samaritano di Lc 10,30-37 (è lui il Samaritano venuto da lontano!). In contrapposizione con il sacerdote e il levita che non si fermano a soccorrere il malcapitato, il samaritano lo fa. I verbi che descrivono l’azione di questo personaggio sono incalzanti:

- “lo vide”. Anche il samaritano vede il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimane una sensazione superficiale: lo spinge ad agire. È proprio vero, l’occhio rivela il cuore: «La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso» (Mt 6,22-23). L’occhio si sofferma su ciò che cattura il cuore: «Ubi amor, ibi oculus», «Dove c’è amore, lì’ si posa l’occhio»[7]. A volte basta anche uno sguardo amorevole, sguardo che non si sofferma su eventuali limiti e difetti dell’altro, anche se presenti e riconosciuti, e nemmeno cerca vantaggi o capacità particolari che ne confermino il valore. C’è una benevolenza nei confronti dell’altro espressa dallo sguardo; l’amato ha un valore unico agli occhi di chi ama non per qualche motivo particolare (intelligenza, aspetto fisico, abilità, simpatia), ma semplicemente perché “è lui”.

- “ne ebbe compassione”. A muovere il samaritano è la compassione, la tenerezza materna (splanchnizomai). Il samaritano è immagine della stessa tenerezza di Dio, la stessa che prova Gesù[8]. È tanto forte e tanto vera questa tenerezza che il samaritano nemmeno pensa a fare spazio a possibili risentimenti o a vecchie ruggini; non si sofferma a considerare che è un odiato giudeo e interviene perché c’è un urgente bisogno; nemmeno lo trattiene il pensiero del viaggio intrapreso e quindi eventuali impegni o appuntamenti. Il momento presente occupa totalmente l’orizzonte dell’interesse.

Significativi sono poi i gesti (sono 10, simbolo di totalità) del samaritano:

- “gli si fece vicino...”. Si tratta di vera vicinanza. Infatti il verbo prosérchomai è scelto per contrastare il precedente doppio uso del verbo “passare a fianco dall'altra parte” (vv. 31-32). Gesù è il Samaritano che si è fatto avanti. Si è candidato nostro prossimo, vuole entrare in contatto con il nostro male e sanarci.

- “gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino...”. Sono gesti semplici che esprimono la concretezza della carità. Il samaritano si improvvisa infermiere e interviene come meglio può, con i mezzi di cui dispone[9]. Poi utilizza la sua cavalcatura come autoambulanza e trasporta il poveretto al “pronto soccorso” improvvisato.

- “lo portò a una locanda (pandokeion)” (v. 34). La locanda è figura di Gesù che raccoglie e ospita tutti. In questa casa chiunque è nel bisogno trova ospitalità, pagata in anticipo dal Samaritano. La Chiesa, come ha fatto Gesù, è chiamata ad essere “ospedale da campo” (papa Francesco) che accoglie tutti.

- “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno” (v. 35). Questa “cura” non è solo occasionale, ma continuata, perdura nel tempo. È l'attenzione che Dio ha per ciascuno di noi: “a lui importa (mèlei) di voi” (1Pt 5,7). Prendersi cura è la tenerezza e la pazienza dell'amore che sa rispettare i tempi dell’altro. Non dobbiamo aver paura della tenerezza! Non dobbiamo essere impazienti! Dove c’è amore c’è la pazienza…

• Inoltre la misericordia di Gesù ha un altro aspetto, che troviamo nella parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32). Il figlio minore ha perso tutti i beni ricevuti dal padre e ha perso pure la sua dignità umana. «La misericordia – come l'ha presentata Cristo nella parabola – ha la forma interiore dell'amore, che nel Nuovo Testamento è chiamato “agape”. Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria morale, sul peccato»[10]. La gioia scaturisce dal “gusto” di aver fatto del bene, di aver aiutato i fratelli a trarre il bene dal male (cfr. Rm 12,21). È la gioia di cogliere quella voce del Padre che, come per Gesù nel battesimo al Giordano (cfr. Mt 4,13-17) e nella Trasfigurazione (cfr. Mt 17,1-8), riconosce Lui suo Figlio Amato. È partecipazione della stessa gioia di Dio per l’uomo che si converte, che ritorna alla vita: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).

Suor Faustina ha descritto molto bene, in una preghiera del 1937, fin dove e a quali profondità una misericordia sensibile e delicata è capace di spingersi, che cosa essa può concretamente significare per un cristiano e che cosa è concretamente capace di realizzare:

«Aiutami, Signore, fa' che i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base delle apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c'è di bello nell'anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.

Aiutami a farà sì che il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.

Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni, in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo e prendere su di me i lavori più pesanti e più penosi.

Aiutami a far sì che i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza. Il mio vero riposo sta nella disponibilità verso il prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo. A nessuno rifiuterò il mio cuore. Mi comporterò sinceramente anche con coloro, di cui so che abuseranno della mia bontà, mentre io mi rifugerò nel misericordiosissimo Cuore di Gesù. Non parlerò delle mie sofferenze. Alberghi in me la tua misericordia, o mio Signore.

Tu stesso mi comandi di esercitarmi in tre gradi della misericordia. Primo: nell'azione misericordiosa di ogni specie. Secondo: nel parlare con misericordia; quel che non riesco a fare con le azioni, devo farlo con le parole. Terzo: nel pregare; qualora non possa comportarmi con misericordia né agendo, né parlando, lo posso sempre fare pregando. Estenderò la mia preghiera fino a raggiungere anche i luoghi, in cui non posso essere fisicamente. O Gesù mio, trasformarmi in te stesso poiché tu puoi fare tutto»[11].

 

La forza del perdono

Gesù ci insegna che dobbiamo perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22), cioè sempre. E con il Padre nostro ci fa pregare: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

Il perdono, oltre a mantenere in pace il proprio cuore, ha la forza dirompente di restituire vita.

Emblematica sotto questo aspetto è la recente sto­ria del Sudafrica, anzitutto la politica di governo adot­tata da N. Mandela all'indomani della sua liberazione, avvenuta nel 1990. Egli trascorse in carcere ben 27 anni, ingiustamente condannato a motivo del suo im­pegno nella lotta contro l'apartheid, un carcere duro, segnato dall'isolamento, dalle intemperie, dai lavori forzati e durante i quali morirono, senza che egli po­tesse neppure vederli, la madre e il fratello, e senza sapere nulla della moglie e dei figli, con cui non riuscì più a riallacciare il legame una volta tornato in libertà. Eppure egli decise di perdonare i suoi carcerieri e co­loro che lo avevano condannato, meravigliando i suoi stessi oppositori. Una volta ottenuta la carica di capo dello stato, fece del perdono la politica di ricostruzio­ne di un paese che era giunto sull'orlo della guerra civile: «Egli dette, sorprendendo tutti, un ricevimento per le vedove dei politici che lo avevano imprigionato e pranzò con il magistrato che aveva sostenuto la sua impiccagione»[12].

Per Mandela il perdono è l'arma più potente a disposizione di un uomo, capace di proteggerlo da ogni male, fino a renderlo invincibile, perché con esso sconfigge il suo più grande nemico, se stesso, mante­nendo salda la lucidità e il controllo di sé.

La vicenda del Sudafrica risulta sotto molti aspet­ti densa di insegnamenti. Nel corso del processo di pacificazione la psicologa P. Godobo Madikizela, membro della Commissione per la riconciliazione in Sudafrica, decise di incontrare in carcere E. de Kock, capo delle Squadre della morte, uno dei maggiori responsabili degli omicidi e violenze che segnarono il periodo dell'apartheid, al punto da essere sopran­nominato dalla gente Prime Evil («il male assolu­to»), per i cui reati venne condannato a 212 anni di reclusione. La Godobo descrive, in particolare, un momento di questo confronto, quando de Kock incon­trò alcune vedove — i cui mariti erano stati assassinati per suo ordine — che gli avevano comunicato il loro perdono: «Quando cercai di capire cosa intendesse con l'espressione “perdonare Eugene de Kock”, una delle donne disse che egli ci fornì molte più notizie di chiunque altro circa la morte dei loro mariti. Aggiunse che volle prenderlo per mano per mostrargli che c'era una possibilità di cambiare, e che lo perdonava, in­condizionatamente. Quando le vidi uscire piangendo, chiesi loro cosa significassero quelle lacrime. “Esse” — mi risposero — “non sono soltanto per i nostri mariti, ma anche per lui”. Questa fu per me una cosa così incredibile, da diventare l'inizio del mio lavoro nel campo del trauma e del perdono».

Al termine di quell'incontro de Kock sembra vacil­lare e riconoscere l'enormità di quanto compiuto: «La sua faccia cambiò; si poteva notare quanto fosse afflit­to; iniziò ad agitarsi, a tremare, la sua voce era rotta. Disse con un sospiro: “Avrei desiderato fare di più che dire `Sono dispiaciuto'. Avrei voluto riportarli in vita. E invece devo vivere con tutto questo”». A quelle parole, stupendo se stessa, Godobo si trovò ad abbrac­ciarlo, provando una profonda pena per lui[13].

Per quanto riguarda l'Italia, non si possono non ricordare gli episodi, per lo più nascosti ma altrettanto significativi, di coloro che decisero di perdonare gli assassini dei loro mariti, figli, fratelli, parenti, amici, durante i sanguinosi anni del terrorismo. G. Bachelet, figlio del professor V. Bachelet, ucciso a Roma dalle Brigate Rosse, in occasione dei funerali del padre volle ricordare i suoi assassini, accordando loro il per­dono, suo e dei familiari, e auspicando il loro ravvedi­mento. Anni dopo, un gruppo di ex terroristi indirizzò un memoriale al p. A. Bachelet, fratello della vittima, in cui riconoscevano di essere stati sconfitti non dalle armi dell'esercito, né dai programmi politici, ma da quel gesto accordato loro, un gesto che aveva frantu­mato la loro ideologia: «Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante il funerale del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevo­cabile [...]. E se abbiamo cercato di cambiare, ciò è avvenuto anche perché qualcuno ha testimoniato per noi, davanti a noi, della possibilità di essere diversi»[14].

Ben presto a questa lettera seguirono degli incon­tri, che con il tempo sciolsero nelle vittime rancori e diffidenze, per lasciare posto a nuovi sentimenti, e suscitarono negli assassini il desiderio di riparare in qualche modo al male compiuto.

 

La gioia dei miti e dei misericordiosi

Quale è la sorgente della gioia, della beatitudine dei miti e dei misericordiosi? Dio stesso. In chi si “sintonizza” con l’agire di Dio, Dio si rivela a lui, si dona a lui. È – lo capiamo bene – una gioia che passa attraverso la “prova”, la fatica di affrontare la violenza con la mitezza, di pazientare di fronte ai limiti dell’altro, di vincere il rancore con il perdono che genera vita. Proprio lì dove molti si fermano nella sofferenza, il credente scopre la singolare presenza di Dio. Al punto che questa esperienza diviene sapienza, nel senso latino di sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

 

--- NOTE ---

[1] Cfr. Pr 6,34; 15,1; 16,14; 19,19; 27,4.

[2] Cfr. Pr 15,18; 22,24; 29,8.11.

[3] Cf. Pr 14,29; 15,18; 16,32.

[4] C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000, 60.

[5] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 46, a. 1.

[6] Cfr. https:// www.avvenire.it/agora/pagine/mitezza; http://www.interessicomunjournal.it/cultura/lelogio-della-mitezza-cuore-nella-ragione/

[7] S. Tommaso d’Aquino, 3 Sent., d. 35, 1,2,I.

[8] In Luca questo verbo compare tre volte: per la risurrezione del figlio della vedova di Naim (cfr. Lc 7,13); per l'accoglienza da parte del padre del figlio prodigo (Lc 15,20) e qui per il samaritano. Tre situazioni di emarginazione e di impurità assoluta esprimono per Luca la giustizia di Dio, la sua misericordia. “Avere compassione” dunque, dal punto di vista di Dio, significa protendersi al bisogno dell'altro per rigenerarlo a vita nuova.

[9] L'olio nell'antichità era noto per le sue proprietà terapeutiche. Il vino per la sua componente alcolica era invece usato come disinfettante nelle ferite.

[10] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 6.

[11]  Diario di suor Maria Faustina Kowalska, LEV, Città del Vaticano 2000.

[12] C. REGALIA - G. PALEARI, Perdonare, cit., 59.

[13] Cfr. G. Godobo Madikizela, A Human Being Died That Night: A South African Story of Forgineness, Houghton, Marines Books, 2004.

[14] A. BACHELET, Ritornate a essere uomini! Risposte di ex terroristi, Rusconi, Milano 1989, 16: corsivo nel testo.

Ultima modifica il 23 Marzo 2019

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