Articoli filtrati per data: Sabato, 15 Maggio 2021

Incontri sulla Sacra Scrittura. Appuntamento alle ore 16,00 in sala del Rosario per chi vuole partecipare di persona e in streaming sul canale Youtube di Padre Michele Babuin: 

https://www.youtube.com/channel/UCzGZlWm8IITlevGMDX6-44w 

sul sito del Santuario, per chi segue da casa. Tema dell' incontro: Giacobbe, la storia di una conversione.

Per chi desidera approfondimenti può scrivere a Padre Michele:

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CALENDARIO PROSSIMI INCONTRI: sabato; 15 maggio; 19 giugno.

 

in News

Chiariamo innanzi tutto il concetto di vita spirituale. Cos’è la vita spirituale? Di quale vita parliamo?

Non parliamo della nostra vita fisica, né di quella affettiva, né psichica, né razionale. Molte volte si scambia la vita spirituale con la dimensione affettiva, psicologica o razionale e si finisce per ritenere di avere una vita spirituale buona misurandola con la bontà dei nostri sentimenti, con la capacità di relazioni non spigolose e il possesso di un certo benessere psicologico oppure con la bontà e ricchezza delle nostre riflessioni. La vita spirituale ingloba la dimensione fisica, affettiva, psicologica e razionale, tutte le dimensioni della persona, ma non si lascia circoscrivere da nessuna di esse. La vita spirituale si irradia in tutte le dimensioni e le trasfigura, in un irradiamento graduale a misura del nostro passo personale con cui camminiamo nella strada dell’amore di Dio.

La vita spirituale è la vita nello Spirito Santo, immersa nello Spirito Santo che è l’Amore del Padre e del Figlio e significa lasciarsi possedere sempre più dallo Spirito fino a che Egli non diventi il principio agente di tutte le dimensioni e facoltà della mia persona per cui quel «non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me» (Gal 2,20) che possiamo dire già dal momento del battesimo e poi, al termine del cammino della maturazione dell’amore, sarà detto da ciascuno di noi con pienezza di verità.

Lo Spirito Santo, dono del Padre e del Figlio, mi viene dato come Dono di cui appropriarmi. Cosa c’è di più mio di ciò che mi è stato dato in dono? Sappiamo ormai da molto cosa significhi che Gesù ci ha donato la sua figliolanza e il Padre suo, inseriti in Lui nel s. Battesimo, il Padre suo è diventato anche Padre nostro; abbiamo anche capito cosa significhi che la Madre di Gesù è diventata anche la nostra Madre, ma forse non abbiamo ancora capito cosa significhi che il suo Spirito è diventato nostro, è diventato il mio Spirito. Lo Spirito Santo esprime la più profonda identità della persona di cui è possesso. È nello Spirito che abbiamo ricevuto l’identità nuova nell’immersione battesimale nella Persona Divina del Figlio. Ora lo Spirito mi viene donato come mio, ma essendo Amore, io lo possederò nella misura in cui lo accolgo come mio e gli apro le porte della mia persona perché Lui possa agire come mio Spirito: «Egli non vuol forzare la nostra volontà, prende ciò che gli diamo, ma non si dà interamente a noi finché noi non ci diamo interamente a lui» (Teresa d’Avila, Cammino di Perfezione, 29,12). «La mia vita è cambiata, dirà s. Caterina da Genova, da quando ho consegnato le chiavi di casa mia allAmore»:

– […] l’Amore sempre più mi liberava da tutte le imperfezioni interiori ed esteriori, e, a poco a poco, le consumava, e quando ne aveva consumata qualcuna, allora la mostrava all’anima, che, al vederla, più si accendeva d’amore. Ed era tenuta in così tal grado, che in sé non poteva vedere alcuna cosa che ostacolasse questo Amore, perché si sarebbe disperata, avendo sempre necessità di vivere con quella purezza che Lui ricercava. Se c’era da togliere un’imperfezione, all’anima non le era mostrato né lasciato vedere, né le era dato pensiero di provvedervi o di prendersene altra cura, così come se non le appartenesse.  Avevo dato così le chiavi di me stessa all’Amore con l’ampia potestà di fate tutto quello che era necessario, senza alcun rispetto, per gli  amici o per il mondo, affinché in tutto quello che la legge del puro Amore ricercasse, niente le mancasse. E quando vidi che accettò la cura e andava conseguendo lo scopo, quieta mi voltai verso questo amore guardando le sue necessarie e graziose operazioni che faceva con tanto amore, e con tanta sollecitudine e con tanta giustizia, che né più né meno operava con soddisfazione della natura interiore ed esteriore, se non per quello che era necessario (e stavo così occupata nel vedere questa sua opera, che, se mi avesse gettata con l’anima e con il corpo nell’Inferno, non mi sarebbe sembrato se non tutto amore e consolazione). Vedevo questo Amore avere l’occhio tanto aperto e puro e la vista sottile da vedere tanto lontano, che restavo stupefatta per le tante imperfezioni che trovava, e me le mostrava talmente chiare, che le dovevo confessare. Mi faceva vedere molte cose, che a me e agli altri sarebbero sembrate giuste perfette, mentre l’Amore le considerava all’opposto, di modo che in ogni cosa trovava difetto». (Caterina da Genova, Vita mirabile, Dialogo, Trattato del Purgatorio, Città Nuova, 128)

Quando parliamo della nostra vita spirituale, parliamo della vita nello Spirito di Cristo che vive in noi, non è una vita che ha inizio in noi, come se sgorgasse da noi da un determinato momento, ma è la stessa vita di Gesù Cristo, il Figlio Prediletto incarnatosi  nel seno purissimo della Vergine Purissima per la nostra salvezza. Parliamo della vita di Lui, Lui ha detto di Sé: «Io sono la Vita» (Gv 11,25; 14,6), questa “Vita” viene tutta dal Padre che la comunica dall’eternità e nell’eternità al Figlio: «Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26) e «il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5,21). Questa sua vita l’abbiamo ricevuta nel santo battesimo, o meglio noi nel santo battesimo siamo stati introdotti nella sua Vita, Vita che scorre dall’eternità, perché Lui è la Vita e ce la comunica incorporandoci a Lui inserendoci come membra viva “del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24): «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4). Non si tratta della nostra vita che viene abilitata a delle qualità particolari, ma della sua che vive in noi: «Voi in me e io in voi» (Gv 14,20).

«Infatti il Cristo non getta in noi un debole principio di corpo, o poche gocce di sangue, ma ci comunica perfettamente il suo Corpo e il suo Sangue. Egli non è semplicemente causa della vita come i genitori, è la vita; non si chiama vita perché sia causa di vita, come per esempio chiamava luce gli apostoli perché furono per noi guide di luce (cf M t 5,14). Si chiama "vita", perché egli è colui per cui realmente si vive: è lui la vita» […] Cristo è più nostro di quel che è da noi. È propriamente nostro perché siamo stati costituiti membra e figli ed abbiamo in comune con lui la carne, il sangue e lo Spirito, e ci è più prossimo non solo di quel che è frutto in noi dell'ascesi, ma anche di quel che procede dalla natura, poiché egli si è rivelato più strettamente congiunto a noi dei nostri genitori. Perciò, non tutti siamo chiamati a portare frutti di sapienza umana o a resistere fino alle lotte supreme del martirio, ma tutti siamo tenuti a vivere la vita nuova in Cristo e a dar prova della giustizia ad essa conforme. […] Non solo il Cristo è più unito a noi dei nostri congiunti per sangue ed anche dei genitori, ma perfino di noi stessi»  (Nicolas Cabasilas, La vita in Cristo, 612d. 613c. 660b).

Questa Vita che è Lui stesso il Risorto la comunica attraverso il dono del suo Spirito, infatti è lo Spirito Santo, l’Amore del Padre e del Figlio, che ci comunica questa “Vita”: «È lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,63). «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). È lo Spirito che dà la vita, è lo Spirito che ci fa vivere e agire.

 

Articolo tratto da: Myriam "Chiamati alla santità" (n. 1 del 2019)

Il brano molto noto delle Nozze di Cana (Gv 2,1-11) inizia con le parole: «Il terzo giorno». Con questa espressione Giovanni mette il segno di Cana in relazione con altri due eventi, entrambi datati al «terzo giorno»: la rivelazione di Dio sul Sinai e il mistero pasquale di Cristo. Il brano molto noto delle Nozze di Cana (Gv 2,1-11) inizia con le parole: «Il terzo giorno». Con questa espressione Giovanni mette il segno di Cana in relazione con altri due eventi, entrambi datati al «terzo giorno»: la rivelazione di Dio sul Sinai e il mistero pasquale di Cristo. Sul Monte Sinai, Dio rivela la sua gloria ad Israele e gli dona, tramite Mosè, la legge con la quale sancisce l’Alleanza. Cana è la replica di quanto è avvenuto al Sinai: l’acqua, con la quale Gesù fa riempire le giare, è simbolo dell’Antica Alleanza, o più precisamente di quella Legge che, essendo scritta sulla pietra e non sui cuori, non poteva fondare un’alleanza interiore, ma solo esteriore. L’acqua viene trasformata in vino, simbolo del sangue di Cristo e quindi di quell’ora che dà inizio a quella comunione profonda per cui l’umanità intera viene assorbita nella vita stessa di Dio. Cana è il segno anticipatorio della Pasqua di Cristo, che sancisce la Nuova Alleanza, la comunione intima e profonda tra Dio e l’umanità.Nella Bibbia, poi, al tema dell’alleanza è continuamente legato quello delle nozze, per cui si parla, in modo metaforico, di alleanza nuziale tra Dio e il suo popolo.Anche a Cana il contesto è quello di uno sposalizio, dove è presente Maria, la Madre di Gesù. Per l’evangelista, la figura di Maria è centrale ed è da lei che l’attenzione si proietterà poi su Gesù. Giovanni lo fa notare dicendo: «Fu invitato alle nozze anche Gesù» (v. 2).  Durante la festa viene a mancare il vino e Maria si accorge di questa mancanza, per cui interviene presentandola al Figlio. La Madre si avvicina al Figlio e gli dice semplicemente: «Non hanno vino…». Non si tratta di una richiesta, ma di una semplice constatazione: Maria non chiede nulla, non esige nulla, non si impone. (...). L’interesse della Madre va a coloro che non hanno, a coloro il cui grido è sommesso o per incapacità di esprimerlo o per impossibilità di manifestarlo. Maria lo percepisce, anche in mezzo al frastuono della festa.A Cana, probabilmente, altri si erano accorti che il vino veniva a mancare, ma non sapendo cosa fare hanno preferito far finta di non vedere, di non sapere, di non ascoltare.Un primo atteggiamento che ammiriamo in Maria è proprio la sua capacità di ascolto.Non è facile ascoltare. Per ascoltare, è necessario fare silenzio. Ma anche il silenzio è qualcosa che fa paura e che non è abituale nella vita quotidiana.(...) Abbiamo paura del silenzio.Guardiamo allora a Maria. Una donna di poche parole e di tanti silenzi, di tanta contemplazione: Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore (Lc 2,19).(…) Nei Vangeli Maria parla appena quattro volte: all'annuncio dell'angelo; quando intona il Magnificat; quando ritrova Gesù nel tempio; e a Cana di Galilea. Poi, dopo aver raccomandato ai servi delle nozze di dare ascolto all'unica parola che conta, lei tace per sempre.Maria ci insegna che ascoltare, in silenzio, è lasciare che la Parola abiti nei nostri cuori e li trasformi in amore. La Parola ascoltata, meditata, custodita si fa carità, si traduce in gesti concreti di prossimità e di condivisione. È ciò che succede a Cana. Maria vede la difficoltà del momento perché ha saputo mettersi in ascolto e quindi ha potuto percepire ciò che è inascoltato, inavvertito, addirittura inespresso.Quanti gemiti inespressi restano ogni giorno non percepiti, quanti gemiti inespressi di persone vicine a noi, ma che non vediamo, non ascoltiamo, non capiamo! Eppure ancora oggi l’umanità geme, non ha vino, le sue giare sono vuote. È sempre Maria che presenta al Figlio le carenze che impediscono di vivere la gioia nuziale della vita. La mancanza di vino rappresenta tutte le carenze esistenziali, che suscitano numerosi gemiti.Pensiamo al gemito che invoca benessere. Siamo, purtroppo, abituati a vedere, lungo le vie delle nostre città, i “senzatetto” che dormono per strada avvolti da cartoni; uomini, donne e bambini che chiedono l’elemosina in condizioni miserevoli.  (...)A questi gemiti sommersi si contrappone, spesso, una cultura di indifferenza e di scarto, secondo quanto affermato da Papa Francesco nel suo primo viaggio, a Lampedusa (v. EG, 54).Un altro gemito inespresso è la solitudine che molte persone soffrono, quasi sempre a causa di relazioni ferite, non autentiche, egoistiche, poco profonde, fondate spesso sull’apparenza e sul tornaconto, che portano le persone a non fidarsi, creando condizioni di disagio, di insicurezza e quindi di distacco da tutto e da tutti. (...)Sempre più soffocato è il gemito degli indifesi quali i bambini maltrattati, abusati, abortiti; o delle donne vittime di violenza domestica. (...)Gemito del mondo odierno è la grande crisi esistenziale, che conduce a non percepire più il vero senso della vita, creando un vuoto profondo, privo di entusiasmo e di speranza nel futuro. Anche in questo caso, per attenuare questo disagio, le persone ricorrono, spesso, ad ogni mezzo: il cibo, le droghe, la televisione e internet, il sesso o relazioni “usa e getta”; tutti mezzi che si rivelano prima o poi inefficaci, quando non generano serie problematiche di dipendenza che conducono a vere patologie. (...)Non è da sottovalutare il gemito di chi ha smarrito Dio e vive una profonda crisi religiosa. È significativa, a questo proposito, l’espressione coniata da Giovanni Paolo II: apostasia silenziosa, un’apostasia che veste oggi, soprattutto, l’abito dell’indifferenza o del relativismo religioso (Ecclesia in Europa, 9). Molti uomini oggi vivono come se Dio non ci fosse, illudendosi di aver trovato un “paradiso” senza di Lui, ma l’esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un “inferno”, poiché prevalgono le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di pace, di gioia e di speranza.Ho menzionato solo alcuni dei gemiti del mondo contemporaneo, ma sono molti di più, alcuni percepiti e altri no. Se il cuore dell’uomo è spesso indifferente o sordo di fronte ad essi, il cuore di Maria è attento, percepisce e s’immedesima, facendosi tutt’uno con chi soffre e piange in silenzio, perché il Cuore di Maria è un cuore materno. Una meraviglia tra le meraviglie create da Dio è proprio il cuore delle madri, colme di amore grande e sempre pronto a tutti i sacrifici. Ricorrere alla madre è un istinto della vita: è il primo grido del bambino nella culla, l’ultima invocazione del malato sul letto di morte. Dio non ha voluto che la vita spirituale fosse meno umana di quella naturale e così ha creato il cuore di Maria, mettendovi dentro l’infinito amore, l’immensa tenerezza e compassione del suo Cuore divino. Maria, come Dio, nutre quell’amore viscerale che è pronto a chinarsi su chi ha bisogno e a fare proprie le sofferenze, i gemiti della povera gente. Maria lo fa in modo discreto. A Cana, infatti, non provvede personalmente, ma mette in luce e affida il problema al Figlio, lasciandogli l’iniziativa, perché ha fede in Lui, sa di poter contare su di lui.A questo punto avviene un fatto a prima vista sconcertante. Alla constatazione della Madre: «Non hanno vino…», Gesù risponde: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (v. 4). Quella di Gesù è per tutti una reazione inattesa. Un noto biblista, il cardinale Vanhoye, ne dà una profonda spiegazione e precisa innanzitutto, che il testo greco dice letteralmente: «Che cosa a me e a te, donna?». È un’espressione frequente nell’AT ed indica sempre la messa in discussione di una relazione tra persone. Gesù usa la stessa espressione verso la Madre, perché vuole mettere in discussione la sua relazione familiare con Lei. (...)Quello di Gesù, dunque, non è un rifiuto, al contrario. Gesù ha un rapporto specialissimo con la Madre, entrambi sono inseparabili.(...)Quindi, se a Cana si ha l’impressione che Gesù voglia marcare la distanza tra lui e la madre, in realtà, chiamandola Donna, la proclama Nuova Eva, cioè inizio di una nuova umanità di cui lei è Madre. Con la sua espressione, Gesù vuole far capire che, poiché sta per iniziare la nuova alleanza, occorre un cambiamento di relazione. Niente può più essere come prima: Le cose di prima sono passate, dice il Signore: Ecco, io faccio nuove tutte le cose (Ap 21,4-5). Anche Maria deve accettare un cambiamento nei propri rapporti con il Figlio. (...)Gesù usa un’altra espressione, che di solito viene tradotta in forma negativa: Non è ancora giunta la mia ora (Gv 2,4). Continua a precisare il cardinale Vanhoye che nei manoscritti più antichi non si mettevano segni d’interpunzione. Pertanto la frase di Gesù può essere interpretata o come negativa o come interrogativa: Non è forse ancora giunta la mia ora? Secondo quest’ultima forma, Gesù vuole sottolineare che è già giunta la sua ora. Adesso non è più l’ora di Maria, cioè il tempo in cui la madre deve guidare il figlio, ma è l’ora di Gesù, l’ora in cui Gesù deve prendere l’iniziativa e realizzare il piano di Dio, compiere la volontà del Padre.Pertanto, l’intervento apparentemente brusco del Figlio non è un rimprovero alla Madre, ma l’invito ad un cambiamento di relazione.Che cosa fa Maria? Si sottomette perfettamente all’invito di Gesù, acconsente alle parole di Gesù, accetta un cambiamento di relazione e diviene così doppiamente madre, in quanto Madre di Gesù e Madre dei discepoli del Figlio. Gesù affida a Maria questa nuova missione: essere Madre dei suoi discepoli, Madre della Chiesa. Maternità che raggiungerà il suo apice ai piedi della croce: «Donna, ecco tuo figlio», «figlio, ecco tua madre» (Gv 19,26-27). Si tratta dell’ultimo atto che il Figlio di Dio ha compiuto qui sulla terra e che è il dono estremo del Suo amore: ci dona Maria come Madre. Cana è un’anticipazione di questa maternità. Gesù vedeva già in lei la Donna che con fede, speranza e carità sconfinate, dava il suo apporto indispensabile alla missione redentrice del Figlio. (...)In quanto Madre, Maria invita i suoi figli a sottomettersi anch’essi alla volontà di Dio: Qualsiasi cosa vi dica, fatela (Gv 2,5). L’ascolto dei gemiti dell’umanità diventa esortazione a fidarsi di Dio e ad affidarsi a Lui, ad accogliere la Parola e a lasciarsi plasmare da Essa. A Cana, Maria esorta i figli ad avere fede nel Figlio, in Colui che ha dato la vita per tutti noi, morendo sulla croce. È questo dono di Sé che costituisce il fondamento della nostra fede e del nostro affidamento al Signore Gesù. (…) L’esortazione di Maria a fidarsi di Dio non esula dall’impegno: Qualsiasi cosa vi dica, fatela. I servi sono spronati a fare, ma in docile sottomissione al volere di Dio, in obbedienza alla sua Parola. A Cana Maria ci insegna che ciò che conta non è cercare la soluzione ai problemi – e a questo proposito echeggiano alle mie orecchie le parole di Gesù: «Senza di me non potete fare nulla» e «Io sono la Via, la Verità e la Vita» - ma ciò che conta è avere fede in Lui e assumere un atteggiamento di accoglienza operosa, che consente a Dio di fare storia insieme a noi, al di là delle nostre umane possibilità,Qualsiasi cosa vi dica, fatela. Sono le ultime parole di Maria, una sorta di testamento spirituale. Da Cana in poi, Maria non parla più, ha detto l’essenziale. Come Madre della Chiesa e nella Chiesa, ella prega e intercede perché i suoi figli aprano il loro cuore alle «parole di vita eterna» (Gv 6,68).Vorrei dire due parole su Fatima, dove, come a Cana, Maria ha un posto centrale. Gli anni in cui sono accaduti gli eventi di Fatima sono anni di grande sofferenza, di distruzione e di morte (Prima Guerra Mondiale), l’inizio di un secolo (XX sec.), che è andato caratterizzandosi per l’affermarsi di regimi totalitari, lo sfaldarsi di certezze e di valori solidi, l’affermarsi dell’esperienza dell’assenza e della lontananza di Dio fino ad arrivare a negare la sua esistenza. In questo contesto storico, drammatico, in cui i gemiti dell’umanità sono numerosi ed angoscianti, Dio si fa presente ed operante attraverso Maria. In Lei traspare la tenerezza e la misericordia di Dio, che non è indifferente alla situazione delle sue creature, che non abbandona il peccatore nella sua colpa, che non dimentica i miseri nella loro sofferenza e che apre la porta alla speranza, indicando la via che conduce a Lui: il Cuore Immacolato di Maria. Immacolato perché radicalmente e pienamente abitato da Dio mediante il suo Spirito. Un cuore che sente il dolore dei figli e offre loro materna protezione.Il «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» riecheggia a Fatima, dove la Vergine Maria esorta a mettere Dio al centro della nostra vita, a fare di Lui e della sua volontà la ragion d’essere della nostra esistenza. A Fatima, Maria ci insegna, inoltre, ad avere compassione verso chi soffre, ad «aprire il cuore all’universalità dell’amore» (Benedetto XVI), ad essere solidali con i fratelli e le sorelle che sono nel bisogno.Fatima è veramente un messaggio di speranza per i gemiti inconsolabili. E ancora una volta è la fede della Madre che comunica coraggio ai deboli cuori umani, lasciando una promessa confortante: Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà.

 

Articolo tratto da: Myriam "Chiamati alla santità" (n. 1 del 2019)

Vi è una domanda che il venerabile Lanteri rivolgeva ai suoi contemporanei e che andrebbe fatta ai cristiani di oggi: «Si è aperto su di voi il bel lume della fede, perché dunque ritornate alle vanità delle antiche superstizioni?».

Avere uno spirito di fede autentico aiuta ad essere realisti ed a non illudersi con letture superficiali del mistero umano. Stare ai fatti significa riconoscere la Realtà dello Spirito Santificatore, Spirito che è talmente Libero che sfugge alle reti delle persone schematiche ed ideologiche.

Costoro, invece, s’accontentano del visibile e del sensibile, incollando l’essere umano al presente, facendogli perdere il senso della storia. Cer­cano il soddisfacimento delle tendenze più basse, fino a lasciarsi dominare dall’aggressività e dalla sensualità più sfre­nate, condizionati da spettacolo, eco­nomia e correnti ideologiche. Il trinomio “sangue, sesso e stupidità”, favorisce l’involuzione dallo stato di persona redenta a quello di essere selvaggio, tramite la scristianizzazione dell’uomo occidentale. Una lenta rivoluzione rende l’essere umano un essere quasi incapace di Dio, un uomo bestiale che «non comprende le cose dello Spirito» (1 Cor 2,14), un uomo in cui una sensibilità morbosa e ribelle schiavizza la volontà ed acceca l’intelletto.

Con una sensibilità disordinata, un’attenzione abitualmente distratta da innumerevoli e mutevoli sollecitazioni inutili o dannose, l’europeo di oggi rischia seriamente di passare la propria vita in maniera incosciente e irresponsabile, appagato temporaneamente da false spiritualità. Si viene così a realizzare la sinistra frase di Sigmund Freud (1856-1939): «noi non viviamo, ma siamo vissuti da potenze oscure e incontrollabili».

Sordi alle ispirazioni celesti e ciechi alle realtà divine, si vive una vita “alienata”, ossia estraniata da sé e dalla realtà oggettiva. La salute e la bellezza corporea sono rovinate dalle proprie passioni disordinate e dai numerosi idoli che queste si costruiscono.

Mons. Vincenzo Tarozzi, segretario per le lettere latine di papa Leone XII (1760-1829), affermò che Lanteri «non è soltanto un maestro, ma un genio di santità». Questi trovò in Cristo la sorgente della vita vera.

Il Divin Maestro aiuta a capirci, a percepire i problemi, a riunirci in modi innovativi ed a costruire il domani, con una vita santa. E questo lo ha trasmesso anche a noi. Aprirmi allo Spirito Santificatore significa che io vivo oggi il mistero luminoso dell’Incarnazione, senza lasciarmi condizionare dal tempo storico.

Padre Diesbach ha aiutato il giovane Bruno a non chiudersi in una fede di facciata, ma a ricercare la santità, tramite una spiritualità mariana ben veicolata dagli Esercizi Spirituali ignaziani. Diesbach trasmise a Lanteri chiavi di lettura illuminate come le seguenti: 1) chi segue pigramente il Signore, si caratterizza di ripetizioni; 2) innovativa è la persona veramente fedele, in quanto risponde con modalità nuove alle urgenze umane, praticando i carismi donati da Dio. Dio è colui che chiama. Fin da giovane Bruno Lanteri si guardò bene dal «fare il sordo alla voce che mi chiama», dal rifiutare la chiamata a vivere una relazione di amore con il Signore.

Lanteri considerò una viltà il non seguire le orme impresse da Gesù Crocifisso: «amiamoLo! SeguiamoLo!». E per bene seguire Gesù fece una «preghiera fervente e confidente a Gesù e a Maria Santissima per ottenere questa grazia».

Lanteri si abituò a chiamare Gesù fin dal mattino, per averLo nella mente, nel cuore e sulla bocca. Gesù diede senso e significato alla sua vita ed il fondatore insegnò agli altri a fare lo stesso: «segnatevi tre volte di croce: in fronte, sulle labbra, sul cuore. Dite: Gesù nella mia mente, Gesù nella mia bocca, Gesù nel mio cuore».

«La volontà di Dio è la nostra santificazione. Iddio ci chiama alla santità e ci dà i mezzi per giungervi sicuramente». In altre parole, per capire cosa devo fare, io devo meditare cosa richieda la mia vocazione e come mettere a frutto la grazia ricevuta. Gradualmente, con il tempo, con l’aiuto di Maria Santissima, utilizzando i mezzi disposti dalla Divina Provvidenza, Lanteri comprese la sua vocazione personale, cioè l’unicità a cui Dio lo chiamava.

La fedeltà alla propria vocazione comporta difficoltà ed il dovere vivere in tempi difficili, ma la più grande difficoltà Lanteri la vide nell’essere umano stesso, che è il primo nemico di sé e causa esso stesso della propria rovina. Il fondatore sintetizzò il concetto con questa espressione: «homo sibi hostis et pestis», cioè l’essere umano è il proprio nemico e pestilenza.

La condizione umana è contrassegnata da “ignoranza”, “inclinazione al male” e dall’influsso pestilenziale del peccato personale; un esempio: «il peccato d'un Davide, quale peste non attirò sulla nazione tutta?».

Per diventare un autentico cristiano, l’uomo ha bisogno di alcune basilari condizioni psicologico-morali: egli deve “rientrare in sé”, diventare padrone di sé mettendo ordine nella propria anima, conscio della propria condizione di creatura e missione di cristiano, attento alla realtà esterna oggettiva, in cui parla Dio.

Il biografo Pietro Paolo Gastaldi (1827-1902) ha evidenziato come Lanteri sia stato suscitato dalla grazia del Signore per il bene delle anime: nella sua vita si trovano esempi per la propria santificazione e per lavorare «per le anime redente da Gesù Cristo, facendoLo riverire ed amare».

Il fondatore ed i primi Oblati rivelarono così di avere una particolare “adrenalina”, sorta dalla loro unione con Cristo. Lanteri ha sottolineato con vigore la necessità di «essere con Lui» (Mc 3,14), radice di ogni apostolato per «essere come Lui» (Mc 3,15).

In particolare il ven. Lanteri curò i sacerdoti e su come fossero proprie del sacerdozio la santità e lo zelo della gloria di Dio e della salvezza delle anime. Ha scritto:

«Pensando alla dignità così grande ed incomprensibile ed infinita del nostro Sacerdozio, ed alle occasioni così frequenti di esercitarlo con promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime agli occhi di Dio stesso così preziosa, non so darmi pace che tra tanti sacerdoti così pochi siano solleciti di esercitare un così grande ministero, e tanto più pochi poi che lo esercitino veramente bene, e con quello spirito che si deve, a segno che può veramente dirsi in questo senso “molti sono chiamati, pochi eletti” (Mt 22,14).

Non saprei attribuire un tale disordine ad altro se non che poco si conosce in che cosa consista la sostanza del nostro Sacerdozio, non se ne comprendono i fini altissimi e l'importanza di promuoverli. Poco si studiano i mezzi e la pratica di un così grande ministero. Irriflessione inescusabile, a mio giudizio, come inescusabile è chiunque si assume un impiego qualunque senza sapere in che consiste e con quali mezzi deve adempierlo, onde non dubito che debba rendersene strettissimo conto al Signore».

Il cardinale Luigi Lambruschini (1776-1854) asserì che Pio Bruno Lanteri: «per desiderio di veder professate dal clero le buone dottrine e fiorire in esso lo spirito di santità, aveva divisato di stabilire nel Piemonte una Congregazione il cui scopo fosse appunto quello d’insegnare al Clero le dottrine approvate dalla Santa Sede Apostolica, di combattere quelle che essa non approvava e di mettere i propri alunni alla disposizione dei vescovi per annunziare la Parola divina».

Di fronte all’esistenza degli errori, non si chiuse nella disperazione o nello scoraggiamento, non si riempì di bugie. Ha scritto: «ordinariamente la bugia è figlia del timore e della pusillanimità. Infatti le bugie sono proprie dei fanciulli, dei servi e delle serve, perché deboli e timorosi (cfr Col 3,22). Un uomo che non ha cuore di portare in fronte la verità, non ha cuore da uomo. Non così sono i santi».

Credeva che la storia umana avrà il suo termine con il Giudizio Universale. Allora —ha scritto il ven. Lanteri—

«si scopriranno le vere intenzioni, gli indegni raggiri, le azioni abominevoli e le falsità con cui ora si cerca di nasconderle con tanta cura alla conoscenza degli uomini. Tutte, dalle prime alle ultime, si scopriranno, come se s'effettuassero in quel punto con quella stessa malizia di spirito e perversità di cuore e raggiro di opere. Si scopriranno le calunnie che seminaste per screditare l'altrui condotta, lo spirito di vendetta, le adulazioni, le simulazioni, le menzogne che ora non compaiono, si scopriranno gli odi fieri ed implacabili che si spacciano per semplici antipatie, gli insidiosi raggiri che si stimano tratti di prudenza, si scopriranno le tante rapine che ora si lodano quali frutti di saggia industria».

Il 3 settembre 1826, scrivendo a mons. Giovanni Marchetti (1753-1829), Lanteri notò: «è veramente deplorabile vedere ora la Chiesa, nostra cara Madre, più che mai combattuta nel suo Capo, ma per ora il Signore vorrà da noi il combattimento soltanto, e non ancora la vittoria. Quando pure meno ci penseremo, vedremo risorgere la Luce».

L’autentica libertà è quindi quella della persona che si lascia condurre dallo spirito, cosa che avviene mediante la preghiera. «Con la preghiera —ha scritto il ven. Lanteri— svaniscono le difficoltà delle imprese: la preghiera salva Daniele dal furore dei leoni, prepara un asilo a Giona, difende i tre giovani nella fornace di Babilonia, fa risorgere il figlio della vedova di Sarepta, rompe le catene di Manasse e lo rimpiazza sul trono. La preghiera penetra nei cuori dei re per cambiare i loro disegni, e disarmare le loro collere».

Con l’aiuto degli angeli e dei santi dobbiamo proseguire nel cammino di santità. Per capire dove ci troviamo attualmente abbiamo un metro secondo il ven. Lanteri : «Non credete mai d'aver fatto un gran progresso nella virtù finché non potrete sopportare una correzione senza scusarvi, una confusione senza turbarvi, una mortificazione senza lamentarvi, una calunnia senza risentimento, un comando senza repliche».

 

Articolo tratto da: Myriam "Chiamati alla santità" (n. 1 del 2019)

Il Concilio Vaticano II ai capitoli 39 e 40 della Lumen Gentium, afferma che tutti siamo chiamati alla santità.Il Concilio Vaticano II ai capitoli 39 e 40 della Lumen Gentium, afferma che tutti siamo chiamati alla santità.Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Gaudete et exultate, richiama fortemente questa nostra vocazione universale e ci ricorda che la vera santità, è espressa chiaramente e in modo speciale in due quadri del Vangelo di Matteo. Il primo sono le Beatitudini (sottovoce aggiungerei: tutto dei capitoli 5 – 6 e 7 di Matteo ), e il secondo quadro è il giudizio finale del capitolo 25, 31-46 (cioè le opere di misericordia).In questa esortazione il santo Padre nel capitolo quarto descrive, poi, alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale. Lui le chiama “espressioni spirituali”che, a suo giudizio, sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui il Signore Gesù ci chiama.Quali sono?1) Sopportazione, pazienza e mitezza; 2) Gioia e senso dell’umorismo; 3) Audacia e fervore; 4) La comunità; 5) Preghiera costante.
Il papa sottolinea questi temi perché sono cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che egli considera di particolare importanza. 

1) Sopportazione, pazienza e mitezza

La prima di queste “espressioni spirituali” è rimanere centrati in Dio, rimanere saldi in Dio che ci ama e sostiene sempre. Solo così è possibile sopportare e sostenere le contrarietà, le vicissitudini della vita, come anche le “aggressioni” degli altri, le loro infedeltà e i loro difetti. La testimonianza di santità in questo nostro mondo volubile e aggressivo è fatto di pazienza e di costanza nel bene. Chi si appoggia a Dio e vive alla sua presenza non si lascia trascinare dall’ansietà, dall’istinto e non evita chi gli procura sofferenze e disagi. S. Paolo scrivendo ai Rom. 12, 17 invita i cristiani di quella città a “non rendere male per male”, “a non farsi giustizia da se stessi (v. 19) e a “non lasciarsi vincere dal male, ma vincere il male con il bene”. D'altronde Dio stesso è “lento all’ira e grande nell’amore”, Gesù agisce così con noi! Papa Francesco ricorda che il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, ma è capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli, evitando la violenza verbale che distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro con gli altri, ma piuttosto li considera “superiori a se stesso” (Fil. 2, 3).Il papa poi ricorda che l’umiltà può mettere radici nel cuore dell’uomo solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà, né santità, perché la santità che Dio dona alla sua Chiesa viene dalle umiliazioni del suo Figlio: questa è la via.Il papa scrivendo queste cose si riferisce alle umiliazioni quotidiane, di coloro che evitano di parlare bene di se stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, ma non per scappare dalle responsabilità; e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore: “Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio” (1Pt. 2, 20).Non dico, aggiunge Papa Francesco, che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui. È una grazia da chiedere, da supplicare: “Signore, quando vengono le umiliazioni, aiutami a sentire che mi trovo dietro di te, sulla tua via”.

2) Gioia e senso dell’umorismo

Quanto detto finora non implica uno spirito triste, acido, malinconico, o un basso profilo di se stessi. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Anzi illumina gli altri con uno spirito positivo, ricco di speranza. Essere cristiani è “gioia nello Spirito Santo” (Rm 14, 17), perché all’amore di carità segue necessariamente la gioia. I profeti nell'A.T. annunciavano il tempo di Gesù, che noi stiamo vivendo, come una rivelazione della gioia: “Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme” (Is. 40, 9); “Gridate di gioia o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri” (Is. 49, 13); “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso” (Zc. 9, 9). E la bella esortazione di Neemia 8, 10: “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”.Maria SS. cantava: “il mio spirito esulta...” (Lc. 1, 47) e Gesù stesso “esultò di gioia nello Spirito Santo” (Lc. 10, 21). Quando Lui passava “la folla intera esultava” (Lc. 13, 17). Dopo la sua risurrezione, dove giungevano i discepoli si riscontrava “una grande gioia” (Atti 8, 8). A noi Gesù dà una sicurezza: “Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia… Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv. 16, 20-22). E in Gv. 15, 11: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.è anche vero che ci sono momenti bui, momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale, che, come dice il papa nella Evangelii Gaudium, “si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di la di tutto”. È una sicurezza interiore da cui scaturisce una serenità piena di speranza.Il Papa dice che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, cioè stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio. Gesù ci vuole positivi, grati e non troppo complicati. S. Francesco d’Assisi era capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare il Signore per la brezza che accarezzava il suo volto.È chiaro che il Papa si riferisce a quella gioia che si vive quando si è in comunione fra noi, quando si condivide e si partecipa. L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri: “rallegratevi con quelli che sono nella gioia” (Rom. 12, 15). Se invece ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia.

3) Audacia e fervore

Nello stesso tempo la santità è PARRESIA, è audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo. “Non abbiate paura” (Mc. 6, 50). “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt. 28, 20). Queste parole ci permettono di camminare e servire la Chiesa con quell’atteggiamento pieno di coraggio che lo Spirito Santo suscitava negli Apostoli spingendoli ad annunciare Gesù Cristo.San Paolo VI menzionava tra gli ostacoli dell’evangelizzazione proprio la carenza di PARRESIA, cioè la mancanza di fervore. Il Signore ci chiama a navigare al largo e a gettare le reti in acque profonde. Ci invita a spendere la nostra vita al suo servizio. Aggrappati a Lui, abbiamo il coraggio di mettere tutti i nostri carismi al servizio degli altri. È bene riconoscere la nostra fragilità, ma mettiamola nelle mani di Gesù e noi lanciamoci nella missione ricevuta in dono. Siamo fragili è vero, ma portatori di un tesoro che ci rende grandi e può rendere più buoni e più felici coloro che l’accolgono. Specialmente quando viviamo situazioni di scoraggiamento (malattia, vecchiaia, mancanza di vocazioni), abbiamo bisogno della spinta dello Spirito Santo per non essere paralizzati dalla paura e dai calcoli umani.Quando gli Apostoli provarono la tentazione dello scoraggiamento, si misero subito a pregare insieme chiedendo il dono della PARRESIA: “E ora Signore volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola” (Atti 4, 29). E la risposta quale fu? “Quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza” (Atti 4, 31).Dio è sempre novità e spinge ogni giorno a ripartire con coraggio, sempre confidando nel suo aiuto. Dopo la risurrezione, quando i discepoli partirono in ogni direzione, “il Signore agiva insieme con loro” (Mc. 16, 20).L’abitudine ci seduce e ci dice che non ha senso cercare di cambiare le cose, che non possiamo far nulla di fronte a certe situazioni, che è sempre stato così e che tuttavia siamo andati avanti ugualmente. Per abitudine, alcune volte, non affrontiamo più il male e permettiamo che le cose vadano come vanno, o come alcuni hanno deciso che debbano andare. Lasciamo che il Signore venga a risvegliarci, a dare uno scossone al nostro torpore, a liberarci dall’inerzia, dall’abitudinarietà.

4) In comunità

La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri.Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. S. Giovanni della Croce diceva: “stai vivendo con altri perché ti lavorino e ti esercitino nelle virtù”. La vita comunitaria è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Questo lo ha vissuto anche Gesù nella vita comunitaria con i suoi discepoli e con la gente semplice del popolo. Il Papa vuole che ci soffermiamo a riflettere su come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari: il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa; il piccolo particolare che mancava una pecora; il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine; il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda; il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano; il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba...La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri, è luogo della presenza di Gesù Risorto che la santifica secondo il progetto del Padre. “Tutti siano una cosa sola; come tu Padre sei in me ed Io in te”.
5) In preghiera costante.- “Infine, - conclude il Papa - ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione”. Il santo è una persona dallo spirito orante che ha bisogno di comunicare con Dio. Non c’è santità senza preghiera. San Giovanni della Croce raccomandava di procurare di stare sempre alla presenza di Dio. E perché questo sia possibile sono necessari momenti dedicati solo a Dio, in solitudine con Lui. Per Santa Teresa d’Avila la preghiera è “un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo essere amati”.Tutti abbiamo bisogno di questo silenzio carico di presenza adorante.La preghiera fiduciosa è una risposta del cuore che si apre a Dio a tu per tu, dove si fanno tacere tutte le voci per ascoltare la dolce voce del Signore che risuona nel silenzio. E solo in tale silenzio è possibile discernere, alla luce dello Spirito, le vie di santità che il Signore ci propone. Quindi per ogni discepolo è indispensabile stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui, imparare sempre.Papa Francesco ci ricorda, poi, che la preghiera dovrebbe essere sempre ricca di memoria. La memoria delle opere di Dio è alla base dell’esperienza dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Se Dio ha voluto entrare nella storia, la preghiera deve essere intessuta di ricordi.Guarda la tua storia, quando preghi, e in essa troverai tanta misericordia. Nello stesso tempo questo alimenterà la tua consapevolezza del fatto che il Signore ti tiene nella sua memoria e non ti dimentica mai. Di conseguenza ha senso chiedergli di illuminare persino i piccoli dettagli della tua esistenza, che a Lui non sfuggono.Il Papa conclude questo quarto capitolo della sua esortazione, evidenziando come la lettura orante, meditata della Parola di Dio, più dolce del miele e spada a doppio taglio, ci permette di rimanere in ascolto di Gesù Maestro, affinché sia lampada per i nostri passi e luce sul nostro cammino. L’incontro con Gesù nelle s. Scritture conduce poi all’Eucarestia, dove la stessa Parola diventa presenza reale di Colui che è Parola vivente. E quando riceviamo la santa Comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli permettiamo di trasformarci in Lui: “non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”.

 

Articolo tratto da: Myriam "Chiamati alla santità" (n. 1 del 2019)

Solo 15 anni di vita eppure una vita piena, riuscita! Carlo Acutis venerabile, presto Beato…

Lasciava questa terra per il cielo, il 12 ottobre 2006, a solo 15 anni di età, per una leucemia fulminante, che in pochi giorni gli fece raggiungere la “Vetta”. “Mamma, io da qui non esco vivo” – “offro tutte le mie sofferenze per il Papa e per la Chiesa, per non fare il purgatorio ed andare diritto in Paradiso”.

Come si può, oggi, a 15 anni, esprimersi così, con tanta serenità davanti alla morte, che improvvisamente ti raggiunge, mentre mente e cuore inseguono progetti e sogni meravigliosi?

Carlo ha potuto. “Non io, ma Dio”: questo era il suo motto e l’amicizia con Dio è stata, il tutto della sua vita … una vita “ vissuta - dice la mamma - nella consapevolezza che non va sciupata inutilmente dietro a sciocche chimere, ma va santificata minuto per minuto, perché passa veloce”. Infatti, al termine della sua esistenza dirà: “Sono contento di morire perché ho vissuto la mia vita senza sciupare neanche un minuto in cose che non piacciono a Gesù”.

Carlo era nato a Londra il 3 maggio 1991, perché i suoi genitori si trovavano lì per lavoro, ma già nel settembre dello stesso anno mamma e papà rientrano a Milano e, a Milano, Carlo cresce e vive i suoi 15 anni.

Trascorre la sua breve esistenza tra il computer, gli amici, lo sport, la scuola, i divertimenti, la passione per il sassofono e per gli animali, il volontariato, ma ha una marcia in più: l’amicizia con Gesù e con Maria. “Mi piace tanto parlare con Gesù di tutto quello che vivo e che sento”, dice. Custodisce dentro di sé un gran desiderio di santità, attratto dalle figure di S. Francesco, S. Antonio, Santa Bernardette e dai pastorelli di Fatima, di cui ammira l’umiltà, la semplicità e la capacità di fare sacrifici per i peccatori. Anche lui vorrebbe portare tutti a Gesù.

Dal giorno della sua Prima Comunione, ricevuta con permesso speciale a soli 7 anni, proprio per la sua purezza e maturità spirituale, è fedele alla messa quotidiana e alla comunione eucaristica: “la sua autostrada per il cielo” (così la definisce), alla confessione settimanale, al rosario giornaliero, a una razione giornaliera di Parola di Dio e a un po’ di adorazione, prima o dopo la messa.

 È amico di tutti e tutti lo cercano. E’ sempre pronto ad aiutare i compagni in difficoltà. Non nasconde mai ai compagni la fonte della sua felicità: in camera sua c’è un grande quadro di Gesù e tutti lo possono vedere. Gioca volentieri a pallone con gli amici, ma li invita anche ad andare a messa con lui e a riconciliarsi con Dio attraverso una buona confessione. Ha un cuore umile e ardente che lo rende contagioso… difficile resistergli. In classe, nelle discussioni suscitate da qualche insegnante, non perde occasione di testimoniare la sua convinzione nel valore della dignità umana e dei suoi principi morali. I genitori stessi lo definiscono, fin da piccolo, un figlio un po’ extraterrestre…ma non lo ostacolano mai.

È un appassionato evangelizzatore e, naturalmente, è originale anche nel trasmettere la fede. Appassionato di informatica, usa il computer pe “indicare il cielo”. Pur riconoscendo i limiti del mondo virtuale, ne sa vedere le potenzialità e le sfrutta positivamente al servizio del Signore. E’ un genio dell’informatica e si adopera instancabilmente per realizzare alcune mostre (la più famosa è quella sui miracoli eucaristici), che attraverso internet hanno raggiunto il mondo intero e, anche ora, a 13 anni dalla sua morte, continuano ad essere strade che portano al Signore, come lui desiderava.

La mostra dei miracoli eucaristici, si può definire il suo capolavoro. Vi ha impiegato tre anni di lavoro e vi ha speso tanto impegno, desiderando raggiungere un numero incalcolabile di persone, per dare loro la possibilità di essere credenti, innamorati dell’Eucaristia, certi della presenza reale del Corpo e del Sangue di Nostro Signore nell’Ostia Consacrata. La diffusione nel mondo di questa mostra ha dell’incredibile. Attualmente le visite mensili al sito, provenienti da tutto il mondo, sono di 50.000 per ogni lingua.

Il suo domestico indiano, sacerdote bramino, induista, conosce Carlo da quando ha 4 anni. La testimonianza della sua fede e della sua carità lo convertono al cristianesimo. Di Carlo dice: “è stato per me un maestro di vita cristiana autenticamente vissuta e un esempio di moralità eccezionale”.

Si distingue anche nel campo della carità e volentieri dona la sua paghetta e i suoi risparmi a persone di cui conosce le necessità e ai barboni che gravitano intorno alla sua parrocchia. Sono amici, amici che presenzieranno anch’essi al suo funerale.

http://www.centriculturali.org/img/news/11044.jpg" />Il papa ha additato questo ragazzo come modello ai giovani di tutto il mondo nella esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit, perché sul suo esempio la giovinezza sia vissuta come un tempo di fioritura e di donazione.                

 

Articolo tratto da: Myriam "Lasciamoci salvare da Cristo" (n. 1 del 2020)

Maria a Fatima propone a tre bambini, Lucia, Francesco e Giacinta (e tramite loro ad ognuno di noi), di vivere il Vangelo, con alcune specificità contenute nel suo invito: «Volete OFFRIRVI a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Lui vorrà mandarvi, come atto di riparazione per i peccati da cui è offeso e di supplica per la conversione dei peccatori?» (stupendo programma di vita!!!).Maria a Fatima propone a tre bambini, Lucia, Francesco e Giacinta (e tramite loro ad ognuno di noi), di vivere il Vangelo, con alcune specificità contenute nel suo invito: «Volete OFFRIRVI a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Lui vorrà mandarvi, come atto di riparazione per i peccati da cui è offeso e di supplica per la conversione dei peccatori?» (stupendo programma di vita!!!).
Quindi chiunque voglia conoscere, o approfondire, il messaggio di Fatima, e la sua spiritualità, deve leggere e meditare la vita dei tre pastorelli, perché loro hanno capito e vissuto integralmente. Di questi tre veggenti voglio parlare di s. Giacinta, la più piccola dei tre; personaggio che probabilmente già conoscete per aver letto o ascoltato in altre occasioni. Ma oggi la vogliamo ricordare insieme, alla luce di quanto già detto precedentemente.
Giacinta, nata l’11 marzo 1910, entra nella storia degli eventi di Fatima nel 196, a circa 6 anni, con le apparizioni preparatorie dell’Angelo del Portogallo, e a circa 7 anni, nel 1917, con le apparizioni della Vergine SS.ma, rivelatasi poi in Ottobre con il titolo di Madonna del santo Rosario.
Giacinta è una bambina normale con le qualità e i difettucci comuni a tutti i bimbi della sua età, ed è cresciuta in seno ad una famiglia profondamente cattolica. Ma gli avvenimenti del 1916 prima, e del 1917 poi, marcano profondamente l’anima di Giacinta e, a partire da queste esperienza, la grazia di Dio e la santità irrompono nella sua vita, provocando in lei una vera inondazione di soprannaturale.
Al dire di Lucia, questa bimba fu un vero “angelo di Dio”, a tal punto che dopo le apparizioni, chiunque ne aveva la possibilità desiderava stare, anche per poco, in sua compagnia, parlare con lui, ascoltarla, o soltanto starle vicino in silenzio quando lei si ammalò allettandosi. Questo è talmente vero che nelle disposizioni per la causa di beatificazione, molti hanno testimoniato che la vicinanza di questa bimba comunicava, trasmetteva, emanava una grande pace, come quando si è in chiesa; aggiungo io: perché era diventata un tabernacolo vivente…, era posseduta dalla presenza di Dio.
Ciò che sappiamo s. Giacinta Marto lo dobbiamo principalmente alle “Memorie” di suor Lucia, scritte per obbedienza al vescovi di Leiria-Fatima; in modo speciale alla prima Memoria del Dicembre 1935, la più ricca di informazioni sul messaggio di Maria e di notizia sui suoi cuginetti, in modo speciale su Giacinta, la sua carissima amica di infanzia.
Giacinta ha “ascoltato” e “accolto” le parole di Maria. Ha accolto il suo invito e lo ha vissuto perfettamente, secondo la volontà di Dio, diventando una perfetta fatimina, una perfetta incarnazione del messaggio di Maria, diventando un’offerta a Dio gradita!
Io non sono un esperto di Fatima, ma soltanto un conoscitore “fai da te” e, secondo la mia modesta opinione, l’elemento che più colpì Giacinta del messaggio di Fatima, fu la visione delle conseguenze del peccato, cioè l’offesa a Dio e il castigo eterno dei peccatori che finivano nell’inferno. (Il Ven. Lanteri voleva che noi Oblati ci mettessimo sulla bocca dell’inferno per salvare le anime!) 
La piccola rimase molto impressionata dalla visione dell’inferno avvenuta il 13 Luglio, e non soltanto in maniera sensibile come era naturale, ma soprattutto nel suo spirito e questo si incise profondamente nel suo cammino spirituale. Dopo la visione del castigo eterno dell’inferno, Giacinta apparve la più preoccupata dei tre per la sorte delle anime, che con il loro modo di vivere si autocondannavano all’inferno. Cercò quindi di fare tutti i sacrifici a lei possibili per ottenere la salvezza dei peccatori; anche perché la Madonna nel mese di Agosto aveva affermato che «molti vanno all’inferno perché non c’è chi si sacrifichi e preghi per loro» (questa è un’affermazione che deve farci riflettere molto).
Giacinta ripeteva spesso ad alta voce, come una giaculatoria: «Quanta compassione sento per i peccatori! Se potessi mostrare loro l’inferno!». E durante la sua malattia diceva a Lucia: «Io vado in cielo, ma tu che rimani quaggiù, mi raccomando, dì a tutti com’è l’inferno, perché non facciano più peccati e vadano là». (Ed io? Ho questi sentimenti?...
A questo punto della mia riflessione ritengo doveroso fare una precisazione importante per dare “luce teologica” a questo tema.In un suo discorso sul tema di cui stiamo riflettendo, san Giovanni Paolo II affermava: «Noi crediamo che Dio nel suo Amore Misericordioso può volere soltanto la salvezza di tutti gli uomini; in realtà è la creatura che si chiude al suo Amore. E l’inferno sta ad indicare, più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia». Infatti, aggiungo io, Dio non ci ha creati per mandarci all’inferno, ma per donarci il suo Paradiso, per farci partecipi della sua Beatitudine eterna.
Giacinta era un bambina sensibile e delicata, ed essendo rimasta particolarmente addolorata per le persone in via di perdizione, come ho già detto, spessissimo si soffermava a pensare al loro ostinato rifiuto dell’Amore di Dio. I peccatori, e la loro salvezza eterna, erano diventati i suoi prediletti nella preghiera e nei sacrifici. E sottolineo che, quello di Giacinta, non era uno sterile ed emotivo dispiacere, NO! La piccola si preoccupava in modo vitale per coloro che erano in pericolo, pregando e sacrificandosi in ogni modo e senza sosta per loro.S. Giacinta per i peccatori accettò ogni tipo di sacrificio, spirituale, fisico, psicologico, affettivo, TUTTO! I suoi sacrifici abituali erano: digiuni, privarsi del bere, alzarsi di notte per pregare prostrata per terra, gli interrogatori assillanti che la stancavano molto, accogliere tutti con amore e pazienza: i visitatori, gli invadenti, subire serenamente gli insulti, le calunnie, le umiliazioni, le malattie, la solitudine in ospedale, il morire da sola senza la compagnia della sua adorata mamma e di Lucia. Dio stesso dovette intervenire per “alleggerire” l’entusiasmo penitenziale dei tre pastorelli. Infatti il 13 Settembre la Madonna disse ai veggenti che Dio era contento dei loro sacrifici e preghiera, ma vietava loro di portare di notte la cordicella che stringeva loro la vita (“delicatezza” del Signore…!!!!)
In questa bimbo rinasciamo una delle più belle espressioni della carità cristiana, che la fa partecipare liberamente, con tutta se stessa, all’opera redentrice di Cristo. Veramente e con ragione possiamo esultare nello Spirito Santo esclamando con Gesù: «Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelati ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te» (Mt 11,25).
Lucia stessa, quando scrisse le Memoria, affermò che Giacinta si lasciò compenetrare da un grande spirito di mortificazione e di penitenza «per una grazia speciale di Dio, ricevuta per mezzo del Cuore Immacolato di Maria»; grazia che, a suo dire, le fu concessa perché potesse diventare una grande messaggera di Fatima.Voglio offrirvi una breve riflessione di Lucia perché è interessante. Lei dice che alcune persone, anche pie e devote, non vogliono parlare dall’inferno ai bambini per non spaventarli; ma dio, tramite Maria, non esitò a mostrarlo a tre bambini, una dei quali aveva sette anni, sapendo benissimo che ne avrebbe avuto un orrore enorme! Riflettiamo!
Ma oltre l’amore per la salvezza dei peccatori la piccola Giacinta aveva nel suo cuore altri due grandi amori: al Santo Pare, che vedrà in una visione, e al Cuore Immacolato di Maria.
Questi erano quasi sempre le tre intenzioni principali, anche se non esclusive, che si proponeva nell’offerta delle sue preghiere e dei suoi sacrifici.
Possiamo porci al domanda: questi bambini come sono arrivati a capire come vivere la loro offerta a Dio? Leggendo qua e là ho scoperto che, oltre l’azione dello Spirito Santo, il primo aiuto venne loro dall’Angelo della Pace, quando nella sua seconda apparizione al pozzo di Lucia, nell’estate del 1916, alla domanda posta da quest’ultima, di come potersi sacrificare, l’Angelo rispose: «Di tutto ciò che potete fatene un sacrificio». Poi un sacerdote che successivamente diventerà il suo primo direttore spirituale, don Faustino Jacinto Ferreira, prevosto di Olival, dietro richiesta dei bambini, che chiedevano come mortificarsi, suggerì loro: «Figli miei se avete voglia di mangiare qualcosa, lasciatelo e mangiatene un altro, così offrirete un sacrificio a Dio; se vi piace giocare, non giocate, così offrirete un sacrificio a Dio; se vi interrogano e voi non potete evitarlo, pensate che è Dio che così vuole e offritegli anche questo sacrifico». Ecc….!Questi suggerimenti ci dicono qualche fu l’atmosfera religiosa in cui crebbero i tre bambini, che persero molto sul serio questi insegnamenti.
Ma un’altra domanda che possiamo porci è: «Come era intesa dai tre pastorelli la dinamica sacrificale per cui tanto accettavano di soffrire per offrire?». Nei carteggi che parlano di questi bambini si esclude categoricamente qualsiasi forma di patologie psichiche, psichiatriche e neurologiche. La dinamica sacrificale è questa: il credente offre al Signore una rinuncia, cibo – acqua – affetti – cosa che piacciono, oppure una sofferenza del corpo o dell’anima, unendo tutto alla passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo e mettendo a questa offerta un’intenzione salvifica: riparazione dei peccati, conversione dei peccatori, liberazione delle Anime sante del Purgatorio, o anche la richiesta di grazie particolari, ecc. Il Signore accoglie e benedice “l’amore” con cui si offrono le cose suddette e, in risposta, agisce secondo quanto richiesto, se è secondo la sua volontà.
Velocemente dico qualcosa sull’altro grande amore di s. Giacinta: il Santo Padre. La Madonna aveva detto loro: «Il Santo Padre avrà molto da soffrire», e i pastorelli rimasero fortemente impressionati e addolorati da questa rivelazione. Nella terza memoria Lucia racconta che un giorno i tre andarono a trascorrere le ore della siesta presso il pozzo della famiglia Marto. Giacinta sedette sul pozzo, mentre Francesco e Lucia si recarono a cercare miele selvatico tra le spine. Poco dopo Giacinta chiamò i due, chiedendo loro: «Avete visto il Santo Padre?». «No», risposero. «Non so come è stato – disse la piccolina – io ho visto in una casa molto grande, inginocchiato davanti a un tavolo, con le mani sul volto, il Santo Padre in pianto. Fuori dalla casa c’era molta gente, alcuni tirano sassi, altri imprecavano e dicevano molte parolacce. Povero Santo Padre! Dobbiamo pregare molto per lui».
Giacinta ricordava le parole della Santa Vergine che disse: «Se i peccatori non smettono di offendere Dio, scoppierà una guerra peggiore di quella in corso e il papa avrà molto da soffrire» (come poi realmente è avvenuto).Quella visione del “vescovo vestito di bianco”, con il volto in lacrime, fu per lei un nuovo grande monito. Da allora ogni volta che offriva i suoi sacrifici a Gesù aggiungeva sempre: «e per il Santo Padre».
Quanto amore, quanto carità cristiana in questa piccola bambina morta il 20 Febbraio 1920, all’età di dieci anni, con una maturità immensa!
Concludo questo mio intervento con l’invito a voi, e a me, di chiedere ai santi Pastorelli, in particolare a s. Giacinta, di intercedere per noi, perché se nel cuore sentiamo ammirazione e siamo attratti da questa piccola grande santa, potrebbe voler dire che, nel nostro piccolo, abbiamo anche noi la chiamata a vivere ciò che la Vergine santa ha chiesto a Fatima nel 1917.
La Chiesa canonizzando Giacinta e suo fratello Francesco garantisce, con la sua infallibilità, che questo cammino spirituale, percorso da loro, conduce alla santità, conduce alla perfezione evangelica a cui tutti siamo chiamati.

Articolo tratto da: Myriam "Lasciamoci salvare da Cristo" (n. 1 del 2020)

Negli scritti e nella vita del ven. Lanteri non troviamo discorsi particolari rivolti ai giovani.  Sappiamo che da sacerdote ha avuto un’attenzione particolare per gli studenti universitari.

Credo, tuttavia, che con la sua vita dica qualcosa anche ai giovani di oggi, per incoraggiarli a non venire meno nell’avere ideali grandi e nella capacità di reagire.

Il 29 agosto 2013, salutando i giovani papa Francesco ha detto: «Quando un giovane mi dice: “Che brutti tempi, questi, Padre, non si può fare niente!”, lo mando dallo psichiatra … Perché non si capisce un ragazzo che non voglia fare una cosa grande, scommettere su ideali grandi».

La volontà di Dio è da scoprire, non da creare, e può essere trovata. Dio stesso verrà in aiuto per tale ricerca, in ogni situazione, «perché Tu non abbandoni chi Ti cerca, Signore» (Sal 9,11). «Signore, insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana» (Sal 142,10).

Voglio liberamente fare parte di quella generazione che cerca il Suo volto? (Sal 23,6). «I leoni sono miseri e affamati, ma a chi cerca il Signore non manca alcun bene» (Sal 33,11).

Questo è possibile per chi sa che è Dio a dare senso alla propria vita. Ciò aiuterà a superare enormi ostacoli, che per alcuni sono improponibili, scandalosi per le limitate forze umane.

«Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio» (Papa Francesco).

Pio Bruno Lanteri è stato giovane; durante quel tempo la grazia lo ha temprato e formato.

Non è stato un tempo facile, essendo cresciuto senza una madre. Quando aveva quattro anni, a Pio Bruno Lanteri venne a mancare la mamma, morta a 34 anni.

Si può capire che non fu facile la sua giovinezza, ma poté contare sull’aiuto del papà e delle zie.

Di questa privazione non ne fece una scusa per allontanarsi da Dio. Anzi, fin da giovane cercò di piacerGli e di essere generoso nei Suoi confronti, disprezzando i timori vani.

Ebbe un esempio positivo nel proprio papà, che –primario dell’Ospedale di Santa Croce– si mise al servizio del bene pubblico, distinguendosi per scienza durante l’epidemia che colpì la città negli anni 1774 e 1775. Il dottor Pietro, stimato per l’integrità morale, era chiamato “padre dei poveri” per la carità. Quando questi si ammalavano facevano chiamare il medico bravo e buono; egli andava volentieri, li curava con amore ed in quanto all’onorario faceva loro sconti o non voleva che se ne parlasse. A volte era lui stesso ad aprire il borsellino per lasciare i soldi necessari per comprare le medicine. Alla cura generosa per il corpo –s’era il caso– aggiungeva consigli per la salute dell’anima.

Talvolta Bruno lo accompagnava nelle visite ai malati; si rese conto di come agisse la Provvidenza: se una persona diventa malata, un’altra può visitarla ed aiutarla; se uno è affamato, un altro può provvedergli il cibo.

Come suo padre, anch’egli detestò l’insipienza e l’opinionismo superficiale, prediligendo lo studio e la riflessione._240190 Amava le scienze matematiche e quegli autori che con una fede profonda vedevano nell’Universo un significato profondo. Con logicità ricercò Dio, notando i limiti di tanti pensatori del suo tempo: «I filosofi, con tutta la loro scienza, hanno ignorato la vita eterna e la strada per arrivarvi, l’Incarnazione, gli Angeli, i demoni, la Chiesa e non hanno che una conoscenza ben scarsa dell’immortalità dell’anima. Eppure non vi è niente di più grande che queste verità e le donne più ignoranti le conoscono tutte sapendo il Simbolo (Credo)».

Come tutti i giovani, anche Bruno si faceva tante domande. Amava però avere delle risposte. Per questo stimò la catechesi, che aiuta le persone ad amare Dio, convinto che «è migliore l’amore di Dio che la conoscenza di Dio». È l’amore per Dio che porta a non cadere in polemiche amare e dispute infruttuose, e ad impegnarsi perché nessuno dei fratelli vada perduto.  

Dal papà ebbe una forte educazione cristiana all’amore ed al timore di Dio, inteso nel senso di paura di perdere Dio.

La fede del giovane Bruno non era però un talismano portafortuna od un credere opportunista in un Dio-tappabuchi. Nonostante la sua fedeltà a Dio le prove non gli mancarono.

Quando aveva 17 anni ebbe un nuovo grande dolore. Il 28 maggio 1776 morì la sorella Teresa, all’età di 24 anni: la settima bara che il dottor Pietro vedeva uscire dalla sua casa.

Non è improbabile che questo ultimo lutto abbia lasciato un grande vuoto nel cuore di Bruno, facendogli ricordare ancora una volta, e quasi toccare con mano, il «vanità delle vanità, tutto è vanità» (Qo 1,2), la vanità e vacuità di tutte le cose umane, la tremenda realtà della morte e l’unica cosa necessaria nella vita: amare Dio e vivere sempre uniti con Lui. Bruno, come il padre, non si buttò nell’alcol o nel fumo, con la scusa delle delusioni personali e dei vuoti affettivi.

Non ricercò la persona che potesse al momento soddisfare alle esigenze del proprio cuore. Si preoccupò di amare in grande, avendo i Sacri Cuori di Gesù e di Maria come oggetto del suo amore. Decise di divenire sacerdote.

All’inizio degli studi teologici Bruno fu confuso da un suo compagno di studi, il cavalier Giovanni Carlo Pellegrini di Castelnuovo, che gli passò testi di autori rigoristi. Fu portato così a valutare le cose con il metro della giustizia e non con quello della misericordia.

Presso l’opinione pubblica gradualmente si stavano facendo strada principi che oggi caratterizzato la modernità: il ragionare sulla religione, il dilagare della superstizione che conduce all’apostasia, l’ergersi dell’opinione in idolo, l’estromissione della Chiesa per una religione civile e l’ideologia dello Stato.

Per la confusione che trovò in tanti insegnanti e professori universitari, ricercò una persona che ragionasse con la propria testa e che lo aiutasse nel vedere le cose con purezza di cuore. La trovò in Nikolaus Albert von Diesbach, un sacerdote di ricca esperienza di vita. Nobile di famiglia e protestante, poi militare, quindi cattolico, sposato e papà, diseredato dalla famiglia e vedovo, quindi gesuita, … Insomma, un uomo ricco di umanità e spiritualità. Diesbach lo aiutò a lasciarsi guidare dalla ragione e dalla fede per incontrarsi con Gesù Cristo.

Al sacerdote svizzero si deve molto per la rinascita dello zelo sacerdotale, specie grazie alle «Amicizie Cristiane». In esse si preoccupò di formare cristiani, che –consapevoli della gravità del momento– contrastassero l’offensiva antireligiosa con una fede profonda ed influissero l’opinione pubblica tramite la diffusione della buona stampa.

Lanteri apprese da padre Diesbach a stare in mezzo alla gente con lo zelo ingegnoso della carità. É importante l’«intelligentia caritatis»: non una carità-elemosina, sbrigativa, allontana-scocciatore, ma una carità intelligente, come evidenziò san Tommaso d’Aquino (1225-1274).

Finita la giornata, specialmente nei giorni freddi, il giovane Lanteri cominciava con Diesbach un’altra attività non meno impegnativa e fruttuosa.

Passavano sul finire della giornata sotto i portici della fiera, per trovarvi qualche povero mendicante, lavoratore disoccupato o giovane spazzacamino sceso dalle vallate alpine ed abbandonato a se stesso. Con carità lo portavano a casa del sacerdote svizzero, gli permettevano di lavarsi, lo ristoravano con del cibo, gli insegnavano a pregare e facevano una breve istruzione religiosa.

Diesbach e Lanteri avrebbero voluto soccorrerli tutti, ma era impossibile; perciò quello che non potevano fare tutto in una volta, procuravano di farlo per gradi, cominciando da chi era più povero ed abbandonato.

Per questo Lanteri, una volta sacerdote, insegnò ai giovani da lui seguiti spiritualmente a considerare eventi, fatti, esperienze, seduti al proprio tavolo od in ginocchio davanti a Dio. Invitò a rileggere i significati, i segni –spesso sfuggenti– della vita, nel proprio intimo, per interpretarli con grande senso di fede.

Lanteri propose ai giovani modelli costruttivi. Non ci si doveva limitare ad essere culturalmente preparati: era necessario esser dotati d’una profonda spiritualità. Insegnò ad unire la memoria a Dio Padre, l’intelletto al Figlio e la volontà allo Spirito Santo; in questo modo la memoria mantiene la presenza di Dio, l’intelletto vede e giudica secondo i principi di fede, la volontà è unita a quella di Dio.

Si deve accendere la lucerna della propria coscienza e ritrovare l’originaria e genuina immagine di Cristo. La gioia di chi ritrova se stesso è condivisa dagli Angeli di Dio quando «un solo peccatore si converte» (Lc 15,10), infatti tutta la loro aspirazione mira alla riuscita della nostra vita: essi desiderano ardentemente che noi viviamo secondo il disegno di Dio.

Nel momento in cui si chiudeva una stagione e se ne apriva un’altra, Lanteri non ha educato i giovani a fermarsi a rimpiangere il tempo passato. Piuttosto ha insegnato a leggere, pregare, meditare, confrontarsi, chiarendo il senso ed il modo della propria missione, verificando se le ispirazioni fossero solo umane o se avessero del divino.

Non si è preoccupato per la cura delle strutture, ma delle persone; per lui «un’anima è una diocesi», come insegnava san Francesco di Sales (1567-1622).

Nell’azione pastorale non ci si doveva limitare di giungere a tutti gli uomini; si doveva pensare di arrivare a tutto l'uomo: al suo intelletto, alla sua volontà ed alla sua memoria.

Lanteri invitava a costruire un santuario nel proprio cuore. È nel profondo di noi stessi che dobbiamo leggere la direzione da prendere.

Oggi che la società non è più cristiana, ogni giovane deve trovare nel proprio cuore–santuario la forza per vivere da vero discepolo di Cristo.

Auguro ai giovani di seguire gli esempi e la saggezza del ven. Pio Bruno Lanteri, sacerdote ed amico.

 

Articolo tratto da: Myriam "Lasciamoci salvare da Cristo" (n. 1 del 2020)

Christus vivit, Cristo vive. Così s’intitola l’Esortazione post-sinodale che papa Francesco rivolge affettuosamente «ai giovani e a tutto il popolo di Dio», pastori e fedeli. L’amicizia con Cristo è il tema centrale dell’Esortazione apostolica. Christus vivit è un canto all’amicizia con il Signore. Con colui che «è l’eternamente giovane, e vuole donarci un cuore sempre giovane» (CV 13). «La giovinezza è un tempo benedetto per il giovane e una benedizione per la Chiesa e per il mondo. È una gioia, un canto di speranza e una beatitudine. Apprezzare la giovinezza significa vedere questo periodo della vita come un momento prezioso e non come una fase di passaggio in cui i giovani si sentono spinti verso l’età adulta» (CV 135).

La vera giovinezza

Ma che cos’è la giovinezza? Non è semplicemente un fatto di età: «la vera giovinezza consiste nell’avere un cuore capace di amare» (CV 13); e, allo stesso tempo, capace di aspirare a grandi ideali: «Un giovane non può essere scoraggiato, la sua caratteristica è sognare grandi cose, cercare orizzonti ampi, osare di più, aver voglia di conquistare il mondo, saper accettare proposte impegnative e voler dare il meglio di sé per costruire qualcosa di migliore» (CV 15). Ed esorta: «Non bisogna pentirsi di spendere la propria gioventù essendo buoni, aprendo il cuore al Signore, vivendo in un modo diverso. Nulla di tutto ciò ci toglie la giovinezza, bensì la rafforza e la rinnova: “Si rinnova come aquila la tua giovinezza” (Sal 103,5)» (CV 17).

Riprendendo l’episodio del giovane ricco di Mt 19,20-22 che si avvicina a Gesù per chiedere cosa deve fare per ottenere la vita eterna, ma poi declina la proposta esigente del Signore («Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi»), papa Francesco osserva che «in realtà il suo spirito non era così giovane perché si era già aggrappato alle ricchezze e alle comodità. Con la bocca affermava di volere qualcosa di più, ma quando Gesù gli chiese di essere generoso e di distribuire i suoi beni, si rese conto che non era capace di staccarsi da ciò che possedeva. Alla fine, “udita questa parola, il giovane se ne andò, triste” (v. 22). Aveva rinunciato alla sua giovinezza» (CV 18).

La giovinezza di Gesù ci illumina e ci coinvolge nella Risurrezione

Papa Francesco invita i giovani a contemplare il Gesù giovane che ci mostrano i Vangeli, «perché in Lui si possono riconoscere molti aspetti tipici dei cuori giovani. Lo vediamo, ad esempio, nelle seguenti caratteristiche: «Gesù ha avuto una incondizionata fiducia nel Padre, ha curato l’amicizia con i suoi discepoli, e persino nei momenti di crisi vi è rimasto fedele. Ha manifestato una profonda compassione nei confronti dei più deboli, specialmente i poveri, gli ammalati, i peccatori e gli esclusi. Ha avuto il coraggio di affrontare le autorità religiose e politiche del suo tempo; ha fatto l’esperienza di sentirsi incompreso e scartato; ha provato la paura della sofferenza e conosciuto la fragilità della Passione; ha rivolto il proprio sguardo verso il futuro affidandosi alle mani sicure del Padre e alla forza dello Spirito. In Gesù tutti i giovani possono ritrovarsi» (CV 31). Ed è importante vivere l’amicizia con Lui, che è risorto, perché «vuole farci partecipare alla novità della sua risurrezione. Egli è la vera giovinezza di un mondo invecchiato ed è anche la giovinezza di un universo che attende con “le doglie del parto” (Rm 8,22) di essere rivestito della sua luce e della sua vita. Vicino a Lui possiamo bere dalla vera sorgente, che mantiene vivi i nostri sogni, i nostri progetti, i nostri grandi ideali, e che ci lancia nell’annuncio della vita che vale la pena vivere» (CV 32). Il giovane che si lascia rinnovare da Cristo è chiamato a sua volta ad essere missionario: «Il Signore ci chiama ad accendere stelle nella notte di altri giovani» (CV 33).

Al servizio del rinnovamento della Chiesa

È bello constatare che papa Francesco crede nella capacità dei giovani di contribuire ad un rinnovamento della Chiesa. Per una Chiesa che sia «giovane». Ed è tale «quando è se stessa quando riceve la forza sempre nuova della Parola di Dio, dell’Eucaristia, della presenza di Cristo e della forza del suo Spirito ogni giorno. È giovane quando è capace di ritornare continuamente alla sua fonte (CV 35). La Chiesa di Cristo – continua papa Francesco – corre sempre il rischio di invecchiare quando rimane fissata sul passato, o, all’opposto, quello di illudersi di essere giovane «perché cede a tutto ciò che il mondo le offre, credere che si rinnova perché nasconde il suo messaggio e si mimetizza con gli altri»  (CV 35). Inoltre «può sempre cadere nella tentazione di perdere l’entusiasmo perché non ascolta più la chiamata del Signore al rischio della fede, a dare tutto senza misurare i pericoli, e torna a cercare false sicurezze mondane». «Sono proprio i giovani  che possono aiutarla a rimanere giovane, a non cadere nella corruzione, a non fermarsi, a non inorgoglirsi, a non trasformarsi in una setta, ad essere più povera e capace di testimonianza, a stare vicino agli ultimi e agli scartati, a lottare per la giustizia, a lasciarsi interpellare con umiltà. Essi possono portare alla Chiesa la bellezza della giovinezza quando stimolano la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste»  (CV 37).

Se questo è il grande contributo alla Chiesa che papa Francesco chiede ai giovani, «chi di noi non è più giovane ha bisogno di occasioni per avere vicini la loro voce e il loro stimolo, e la vicinanza crea le condizioni perché la Chiesa sia spazio di dialogo e testimonianza di fraternità che affascina. Abbiamo bisogno di creare più spazi dove risuoni la voce dei giovani: «L’ascolto rende possibile uno scambio di doni, in un contesto di empatia» (CV 38).

Il sì di Maria

Papa Francesco invita i giovani a guardare al sì di Maria, giovane. « La forza di quell’“avvenga per me” che disse all’angelo. è stata una cosa diversa da un’accettazione passiva o rassegnata. (…) È stato il “sì” di chi vuole coinvolgersi e rischiare, di chi vuole scommettere tutto, senza altra garanzia che la certezza di sapere di essere portatrice di una promessa. (…) Maria, indubbiamente, avrebbe avuto una missione difficile, ma le difficoltà non erano un motivo per dire “no”. Certo che avrebbe avuto complicazioni, ma non sarebbero state le stesse complicazioni che si verificano quando la viltà ci paralizza per il fatto che non abbiamo tutto chiaro o assicurato in anticipo. (…) Il “sì” e il desiderio di servire sono stati più forti dei dubbi e delle difficoltà» (CV 44).

Guardando a Maria anche i giovani possono dire il loro sì generoso e coraggioso. «Da lei impariamo a dire “sì” alla pazienza testarda e alla creatività di quelli che non si perdono d’animo e ricominciano da capo» (CV 45).

Giovani santi

Papa Francesco ricorda che tanti giovani hanno detto il loro sì e hanno dato la loro vita per Cristo, molti di loro fino al martirio. «Sono stati preziosi riflessi di Cristo giovane che risplendono per stimolarci e farci uscire dalla sonnolenza» (CV 49). «Attraverso la santità dei giovani la Chiesa può rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico. Il balsamo della santità generata dalla vita buona di tanti giovani può curare le ferite della Chiesa e del mondo, riportandoci a quella pienezza dell’amore a cui da sempre siamo stati chiamati: i giovani santi ci spingono a ritornare al nostro primo amore (cfr Ap 2,4)» (CV 50). E ne cita alcuni: San Sebastiano, San Francesco d’Assisi, Santa Giovanna d’Arco, il Beato Andrew Phû Yên, Santa Kateri Tekakwitha, San Domenico Savio, Santa Teresa di Gesù Bambino, i Beati Isidoro Bakanjail, Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo e Chiara Badano. Se questi giovani, insieme a tanti altri «che, spesso nel silenzio e nell’anonimato, hanno vissuto a fondo il Vangelo», anche i giovani di oggi che aprono generosamente il loro cuore a Cristo e vivono in intima amicizia con lui, possono con gioia, coraggio e impegno donare al mondo nuove testimonianze di santità (cfr. CV 63).

Una santità – precisa papa Francesco – che è personale, originale, unica: «Ti ricordo che non sarai santo e realizzato copiando gli altri. E nemmeno imitare i santi significa copiare il loro modo di essere e di vivere la santità: ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Tu devi scoprire chi sei e sviluppare il tuo modo personale di essere santo, indipendentemente da ciò che dicono e pensano gli altri. Diventare santo vuol dire diventare più pienamente te stesso, quello che Dio ha voluto sognare e creare, non una fotocopia» (CV 162).

Alcune indicazioni di percorso

In questa prospettiva papa Francesco offre alcune indicazioni per vivere in pienezza il dono della giovinezza:

- anzitutto vivere la giovinezza come «tempo di donazione generosa, di offerta sincera, di sacrifici che costano ma ci rendono fecondi»  (CV 108);

- non cedere al lamento, alla rassegnazione: «Quando tutto sembra fermo e stagnante, quando i problemi personali ci inquietano, i disagi sociali non trovano le dovute risposte, non è buono darsi per vinti. La strada è Gesù: farlo salire sulla nostra “barca” e prendere il largo con Lui! Lui è il Signore! Lui cambia la prospettiva della vita» (CV 141);

- perseverare sulla strada dei sogni. «Per questo, bisogna stare attenti a una tentazione che spesso ci fa brutti scherzi: l’ansia. Può diventare una grande nemica quando ci porta ad arrenderci perché scopriamo che i risultati non sono immediati. I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta. Nello stesso tempo, non bisogna bloccarsi per insicurezza, non bisogna avere paura di rischiare e di commettere errori» (CV 142);

- vivere pienamente il presente «usando le energie per le cose buone, coltivando la fraternità, seguendo Gesù e apprezzando ogni piccola gioia della vita come un dono dell’amore di Dio» (CV 147). «Mentre lotti per realizzare i tuoi sogni, vivi pienamente l’oggi, donalo interamente e riempi d’amore ogni momento. Perché è vero che questo giorno della tua giovinezza può essere l’ultimo, e allora vale la pena di viverlo con tutto il desiderio e con tutta la profondità possibili» (CV 148). E «questo vale anche per i momenti difficili, che devono essere vissuti a fondo… Egli è lì dove noi pensavamo che ci avesse abbandonato e che non ci fosse più alcuna possibilità di salvezza. è un paradosso, ma la sofferenza, le tenebre, sono diventate, per molti cristiani luoghi di incontro con Dio» (CV 149).

- vivere ogni giorno l’amicizia con Cristo: «Per quanto tu possa vivere e fare esperienze, non arriverai al fondo della giovinezza, non conoscerai la vera pienezza dell’essere giovane, se non incontri ogni giorno il grande Amico, se non vivi in amicizia con Gesù» (CV 150). E la preghiera è certamente il luogo privilegiato nel quale conversare con Gesù, con l’Amico, con il quale condividere le cose più segrete. «La preghiera è una sfida e un’avventura. E che avventura! Ci permette di conoscerlo sempre meglio, di entrare nel suo profondo e di crescere in un’unione sempre più forte. La preghiera ci permette di raccontargli tutto ciò che ci accade e di stare fiduciosi tra le sue braccia, e nello stesso tempo ci regala momenti di preziosa intimità e affetto, nei quali Gesù riversa in noi la sua vita. Pregando “facciamo il suo gioco”, gli facciamo spazio perché Egli possa agire e possa entrare e possa vincere» (CV 155).

- vivere l’amicizia vera e sincera con gli amici che sono al nostro fianco, che «sono un riflesso dell’affetto del Signore, della sua consolazione e della sua presenza amorevole. Avere amici ci insegna ad aprirci, a capire, a prenderci cura degli altri, a uscire dalla nostra comodità e dall’isolamento, a condividere la vita. Ecco perché “per un amico fedele non c’è prezzo” (Sir 6,15)» (CV 151).

- impegnarsi con coraggio nel sociale per contribuire alla costruzione di un mondo migliore. «Per favore – esorta papa Francesco – non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi siete quelli che hanno il futuro! Attraverso di voi entra il futuro nel mondo. A voi chiedo anche di essere protagonisti di questo cambiamento. Continuate a superare l’apatia, offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. Cari giovani, per favore, non guardate la vita “dal balcone”, ponetevi dentro di essa. … lottate per il bene comune, siate servitori dei poveri, siate protagonisti della rivoluzione della carità e del servizio, capaci di resistere alle patologie dell’individualismo consumista e superficiale» (CV 174).

- e, infine, essere missionari nei vari ambienti di vita. «Giovani, non lasciate che il mondo vi trascini a condividere solo le cose negative o superficiali. Siate capaci di andare controcorrente e sappiate condividere Gesù, comunicate la fede che Lui vi ha donato. Vi auguro di sentire nel cuore lo stesso impulso irresistibile che muoveva San Paolo quando affermava: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16)» (CV 176).

Ulisse od Orfeo?

Concludiamo con un’immagine. Ce la fornisce lo stesso Papa Francesco che, dopo aver esortato i giovani a non cedere al canto delle sirene, richiama due personaggi mitologici, entrambi positivi: Ulisse e Orfeo. Ma lui preferisce il figlio del dio della musica (Apollo) e della dea dell’eloquenza (Calliope) e lo propone ai giovani. Così scrive: «Ulisse, per non cedere al canto delle sirene, che ammaliavano i marinai e li facevano sfracellare contro gli scogli, si legò all’albero della nave e turò gli orecchi dei compagni di viaggio. Invece Orfeo, per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene. Ecco il vostro grande compito: rispondere ai ritornelli paralizzanti del consumismo culturale con scelte dinamiche e forti, con la ricerca, la conoscenza e la condivisione» (CV 223). E per realizzare questo grande compito nella Chiesa e nel mondo «bisogna mettersi molto in gioco, bisogna rischiare»! (CV 289).

 

Articolo tratto da: Myriam "Lasciamoci salvare da Cristo" (n. 1 del 2020)

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