Articoli filtrati per data: Sabato, 09 Marzo 2019

"L’amore è paziente, benevolo è l’amore; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7)

Gesù è il modello dell’amore sponsale. I coniugi devono amarsi “come Cristo ama la Chiesa” (Ef 5,25): l’avverbio greco kathòs, che traduciamo “come”, non rende tanto un complemento di modo, per il quale si usa generalmente os: qui, come in altri passi[1], usato in riferimento a Cristo, indica quasi un complemento di materia: “Amatevi dello stesso amore con cui Cristo ama la Chiesa”. Solo riempiendosi di quest’amore, solo radicandosi in Dio nella preghiera, nell’ascolto della Parola e mediante la partecipazione ai sacramenti, gli sposi riusciranno a colmarsi vicendevolmente, in ogni circostanza, di quell’amore di agape che è l’amore dativo, totale, sempre fedele, scevro di ogni egoismo, tenace e tenerissimo, che è proprio di Dio e che Cristo ci ha manifestato nella sua umanità.

Nel capitolo IV dell’Amoris laetitia Papa Francesco fa esegesi dell’Inno all’Amore di 1Cor 13,4-7. Ma l’amore a cui il Papa chiama gli sposi altro non è che essere uno per l’altro esperienza di Gesù stesso. Qualcuno potrebbe notare che l’inno all’amore di 1Cor 13 non parla di Cristo, tuttavia è anche vero che Paolo si è sforzato di riproporre ai Cristiani di Corinto, che erano tentati di strumentalizzare i doni dello Spirito per affermare sé stessi, l’esperienza di Cristo che ci ha salvato con la “follia” della croce (cfr. 1Cor 1,18), che è il massimo dell’amore. Non è un caso che l’elogio più alto della carità san Paolo lo abbia fatto nella Lettera che contiene i tratti più forti e caratteristici della theologia crucis. Per questo possiamo parafrasare l’inno della carità mettendovi come soggetto Gesù stesso: “Gesù è paziente, è benigno; Gesù non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Gesù tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Gesù non avrà mai fine.

Gli sposi devono sempre avere Gesù come modello dell’amore reciproco. Per questo ora vogliamo rileggere questo stupendo inno per chiederci in quale misura stiamo riattualizzando nella vita di coppia e di famiglia questi tratti dell’amore di Cristo.

L’amore è paziente. La pazienza si mostra quando non ci si lascia guidare dagli impulsi e si evita di aggredire. La pazienza si manifesta accogliendo l’altro per quello che è, con i suoi limiti e difetti. Quando invece “pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette… allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira.. e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia” (AE 92).

Altre volte – spero questo sia l’atteggiamento prevalente – non pretendiamo che l’altro sia perfetto, però in nome del Vangelo che ci parla di “correzione fraterna” rischiamo – dicendo che vogliamo il suo bene, correggendo i suoi difetti – di fare la correzione ponendoci su un gradino più su. Non si può essere veramente pazienti e non si può correggere gli altri se non si è umili, cioè se non si ha una concezione realistica di sé. Non si tratta solo di conoscenza di sé (avere un quadro realistico dei propri punti forti e dei propri difetti), ma anche di amarci così come siamo, con un amore umile. Quando ci si ama in maniera realistica, cioè consapevoli delle proprie povertà, si è più capaci di amare l’altro con le sue povertà.

 Addirittura San Paolo così ci esorta: “Ciascuno di voi in tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso… Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,3-5). Gesù, che è Dio fatto uomo, ed è l’uomo perfetto, non si è posto nei nostri riguardi su un gradino superiore, non ha dato spazio a quell’orgoglio che ha rovinato l’uomo, ma ci ha accolti con umiltà.  Questo è il sentimento di Gesù di cui dobbiamo rivestirci: l’umiltà. E San Paolo continua indicandoci l’umiltà di Gesù: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se  stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana  umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8). Dove si vede se uno è umile? Quando ci sono le umiliazioni. Non c’è umiltà senza accettazione delle umiliazioni. Dove si vede la grande umiltà di Gesù? Nel fatto che Gesù stava zitto nel momento dell’umiliazione più grande. Egli, che è Dio, anziché giudicarci, è rimasto in silenzio. Ha avuto pazienza. Non per nulla il verbo greco makrothyméi utilizzato da Paolo nell’inno all’amore letteralmente vuol dire: ha l'animo lungo. Sa attendere, e non in virtù di una pazienza rassegnata e passiva che subisce il peccato. Quando l'A.T. caratterizza Dio come makròthymos (nella trad. greca dei LXX), lo fa sempre in un contesto in cui la longanimità di Dio esprime la sua volontà di salvezza nei confronti dell'uomo, fragile e peccatore.

Possiamo chiederci: amiamo il nostro coniuge con un amore umile? Con un amore longanime, paziente, che sa dare tempo alla persona amata? Che sa apprezzare anche i piccoli miglioramenti? Sa festeggiare le piccole conquiste?

L’amore è benigno. Segue la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che l’amore  è caratterizzato dal servizio e utilità all’altro, è un’azione dinamica e creativa nei suoi confronti. “Indica – scrive papa Francesco - che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. L’amore non è solo un sentimento… Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole» (EE 230). In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire” (AL 93-94).

Ma anche qui oserei aggiungere un particolare importante. Gesù, al giovane ricco che gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?», risponde: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio» (Lc 18,18-19). La bontà è quindi la prerogativa di Colui – di Dio e di Gesù che ce l’ha rivelato nella sua umanità - che gode nel fare per primo il bene, nel suscitare solo e sempre bene attorno a sé. Siamo buoni quando amiamo per primi, quando godiamo di fare il bene! Inoltre la bontà è una qualità creativa: «Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona…» (Gen 1,3-4). Dopo aver creato ogni cosa, il Signore ha detto: «E’ cosa buona». La bontà è creativa. Vuole il vero, autentico bene dell’altro e trova il modo per realizzarlo. Allora in questa prospettiva di creatività della bontà possiamo chiederci: di che cosa ha più bisogno il mio coniuge in questo momento?  In che modo posso concretamente realizzarlo?

Seguono ora alcuni aspetti negativi, quelli del non amore.

L’amore non è invidioso. L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io.

Gesù ci ha messi in guardia dall’invidia nella parabola degli operai nella vigna, quando quelli della prima ora mormorano contro il padrone perché ha dato ad essi la medesima paga – un danaro – a quelli dell’ultima ora: “Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo!”. E Gesù, nella figura del padrone della vigna, risponde: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te.  Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” (Mt 20,13-15).  Allora possiamo dire che “il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro” (AL 95).

L’amore non si vanta, non si gonfia. Mentre l'invidioso soffre perché ritiene di essere inferiore o che gli altri lo stimino tale, l'orgoglioso invece va all'eccesso opposto. Si vanta di ciò che ha; o si gonfia, nel senso che millanta doti che non ha. Tra i due atteggiamenti c'è una notevole differenza: nel primo, il vanto nasce da pregi esistenti; nel secondo, ci si gonfia per qualità immaginarie, facen­dosi una idea troppo alta di se stessi (cf. Rm 12,16). In ogni caso ci allontaniamo dalla verità e dall'amore di Dio, dal quale abbiamo ricevuto tutto ciò che abbiamo: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto perché te ne vanti, come non l'avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). La carità che deriva ed è ispirata dall' amore di Dio, è consapevole dei suoi doni, è rispettosa ed umile: “Non valutatevi più di quanto è con­veniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede Dio gli ha dato” (Rm 12,3).

“Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro”. Inoltre l’amore “non si ingrandisce” di fronte agli altri. A volte “ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più ‘spirituali’ o ‘saggi’… Alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole” (AL 97). “È importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. […] Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. […] L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà” (AL 98)

L’amore non manca di rispetto (amabilità). “Essere amabile – scrive papa Francesco - non è uno stile che un cristiano possa scegliere e rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore”…  Lo sguardo amabile sull’altro “non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro… L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. […] Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano” (AL 100).

 L’amore non opera in modo rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. Infatti il verbo verbo aschemoneì qui usato letteralmente significa fare qualcosa privo di “schema” (a-schemon), privo di forma, di buona figura, di decoro. Al contrario agire in modo nobile, elegante, di bella maniera è tipico dell’amore. Paolo scrive: “Camminiamo con decoro (eushernònos)... Non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non fra contese e gelosie” (Rm 13,13). La carità agisce sempre con bellezza e decoro. Ha la sua nobiltà a livello di modi, di parole, di pensieri: “Nes­suna parola cattiva esca dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione... Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno ira, clamore, e maldicenza con ogni sorta di malignità... lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità, cose tutte sconvenienti” (Ef 4,29.31; 5,4). I toni e lo stile della carità non sono mai bassi; al contrario, essa si muove a livelli di bellezza e di decoro, attin­gendo ai valori più alti che l'uomo possa amare ed onorare: “Tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8).

Nei Vangeli non troviamo questo verbo. Tuttavia c’è un episodio significativo della passione, quando la guardia, durante il processo del sinedrio, dà uno schiaffo a Gesù, dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?”.  E Gesù reagisce con amabilità, cioè risponde mostrando la verità senza aggressività, con dolcezza di tratto e di parole, invitando così la guardia a riflettere. Dice infatti: “Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).

C’è da chiedersi: le nostre parole verso il coniuge sono sempre amorevoli? Sappiamo incoraggiarlo? Il nostro tratto – atteggiamenti e parole – esprimono il nostro desiderio di vivere l’impegno feriale dell’onorare mio marito / mia moglie che ci siamo presi nel giorno del matrimonio?

L’amore non cerca il proprio interesse. “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4). È la generosità dell’autentico amore. Seguendo l’esempio di Cristo che “si sottopose alla croce disprezzando l'ignominia” (Eb 12,2), il credente, imitando l’amore di Dio, non cerca la propria gloria, la propria affermazione ma, al contrario, dà la vita per l’altro. Il che esige che il nostro cuore sia purificato da ogni forma di infantile egocentrismo, dall’egoismo e dal narcisismo. In positivo, invece, chi ama possiede la sapienza del vangelo. Segue Gesù che ci ha amati per primo, fino alla morte e alla morte in croce. Sa che è vero quello che ci ha detto Gesù: “Vi è più gioia nel donare che nel ricevere” (At 20,35).

Al contrario della chiusura nei miei interessi egocentrici ed egoistici, l’amore trova la gioia nel donare. La gioia, che dovrebbe regnare nella vita coniugale e che Gesù, il beato per eccellenza, vuole donare a chi crede in lui: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv  15,11).

Nel «c'è più gioia nel dare che nel ricevere» c’è una grande sapienza. La pienezza di vivere, infatti, viene conseguita quando non la si cerca direttamente, quando, in altre parole, ci si è dimenticati di se stessi e dei propri problemi per rivolgersi all’altro con gratuità. Il paradosso del dono esprime il paradosso della felicità, più volte riscontrato: essa può giungere soltanto in sovrappiù. Quando ci si dona a qualcuno, si sperimenta una soddisfazione che non può essere paragonata ad alcun guadagno materiale: la gioia del dare non conosce confronti.

Kierkegaard notava in proposito: «La porta della felicità si apre verso l'esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla sempre di più»[2]. Quanto più si cerca di possedere la feli­cità, tanto più essa diventa sfuggente e irraggiungibile: è la parabola del nostro tempo, troppo preoccupato di sé e del proprio star bene, scoprendosi così sempre più triste e incapace di vivere. Come per la conquista di Gerico (cfr Gs 6,1-22), la felicità arriva quando si è oc­cupati in altro, che cattura il cuore; essa sopraggiunge, in sovrappiù, come un dono gratuito.

Inoltre la gratuità implicita in questo gesto invita l'altro ad aprirsi e a dare il meglio di sé. «Si dice che Warden Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi»[3]. Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, ma il fatto di sentirsi importanti per qualcuno dà spazio a un diverso atteggiamento nei con­fronti della vita, più propositivo e meno vittimistico, sperimentando una sorta di inedita pienezza di vivere. È allora anche un bel gesto di amore permettere l’altro di amarmi!

Possiamo chiederci: nella nostra relazione di coppia regna la gioia? Se no, o non sempre, perché?

L’amore non si adira. “Adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci” (AL 103). “Come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!». La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore” (AL 104).

Perdono. Scrive papa Francesco: “Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. […] Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immagina re sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare” (AL 105). “Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione” (AL 106).

L’amore non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. L’amore soffre per le ingiustizie (calunnie, offese, comportamenti altrui, vere e proprie ingiustizia) che il coniuge riceve dagli altri (in ambito parentale, lavorativo, ecc.). Il coniuge che ama partecipa della beatitudine di coloro che piangono (Mt 5): soffre con chi soffre. Al contrario l’amore si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità, le sue buone opere.

Seguono ora quattro espressioni positive molto importanti: l’amore tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

L’amore tutto copre. Detto così, a prima vista questa affermazione farebbe capire che l'a­more è disposto a scusare tutto, e a giustificare o coprire di oblio, quasi ad ignorare le responsabilità degli altri. Il verbo greco, stego, parla di una copertura che fa pensare a quella di una casa (come in Mc 2,4) o di un rifugio. Riferito a Dio, lascia intravedere la sua volontà di offrire rifugio a chi ricorre con fiducia a lui. II Salmo 91 (90) prega così: “(L'Altissimo) ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio. La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte” (v. 4-5).

La letteratura deuteronomica propone spesso questa immagine. Par­lando dell'amore e tenerezza di Dio per il suo popolo, ricorda che “lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'a­quila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali” (Dt 32,11). Abbiamo qui due immagini che si completano e presentano la protezione di Dio in termini tutt'altro che di possessività: da una parte la pupilla dell'occhio che viene custo­dita come cosa preziosissima ed unica, dall'altra le ali che non solo pro­teggono come nel salmo citato, ma vengono usate per educare i propri piccoli a godere le altezze, a non temerle e librarsi in volo come la tenera madre.

Ricordiamo infine le parole con cui Gesù apostrofa Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gal­lina raccoglie i pulcini sotto le ali e voi non avete voluto” (Mt 23,37). In queste parole è espressa tutta l'amarezza di Gesù nel constatare come le visite di Dio miravano sempre a raccogliere e proteggere quel popolo che però ha risposto sempre con diniego a queste proposte di amore.

Nella condotta cristiana, quindi, l'espressione esorta ad offrire protezione, difesa e baluardo per il fratello che dovesse trovarsi in difficoltà o in peccato, senza esporlo alla vergogna o alla disperazione.

“Gli sposi che si amano e si appartengono – scrive papa Francesco - parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio.

È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata” (AL 114).

L’amore tutto crede (ha fiducia). Credere qualcosa (in greco pisteuo con l'accusativo) indica un affi­dare cose e interessi propri ad un altro perché si ha fiducia in lui, si punta sulle sue capacità, sulla sua volontà di corrispondere all'atto di fiducia. Dio affida alla coppia umana importanti compiti circa il mondo creato da lui: “Siate fecondi e moltiplicatevi, soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra” (Gen 1,28).

Il Salmo 8 riconosce ed esalta questo assoluto atto di fiducia che Dio compie nell'uomo, tanto piccolo davanti al resto del mondo, eppure tanto grande per il potere che riceve: “tutto (LXX: panta) hai posto sotto i suoi piedi, tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna, ecc.” (vv. 6­8).

Dio crede nell'uomo, perciò lo crea libero, lo lascia in balia del suo volere (cfr. Sir 15,15s; Dt 11,26ss). Stima le sue possibilità, incoraggia il suo cammino, al di là di ogni apparente limite.

Anche Gesù crede nell’uomo. Ha creduto nei 12 che egli stesso ha scelto dopo una notte di preghiera. Conosce i loro cuori e conosce anche le loro debolezze. Per questo li ha messi in guardia: “Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi Fratelli” (Lc 22, 31-32). Ha creduto anche a Giuda: non era inevitabile il suo tradimento…

La carità, virtù cristiana effusa da Dio nei nostri cuori, imita e riflette questo aspetto dell'amore divino: sa dare e infondere fiducia nei fratelli e nei propri simili. Questo modo di essere promuove una gara nello stimarsi vicendevolmente (cf. Rom 12,10), attiva la ricerca del bene tra noi e con tutti (cfr. 1Ts 5,15), tenendo ciò che è buono e positivo (v. 21). “Credere tutto” equivale a far venire fuori capa­cità reali, promuovere la realizzazione di possibilità e talenti, latenti in ogni essere umano, in attesa di un atto di fiducia per mettersi attivamente in cammino.

“Questa fiducia – scrive papa Francesco - rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna” (AL 115).

L’amore tutto spera. L'amore di Dio non si ferma di fronte al peccato e alle aberrazioni dell'uomo, ma al di là dei fatti presenti, apre prospettive di salvezza e di bene. Il profeta Ezechiele esprime mirabilmente questa “speranza” di Dio che scavalca ogni fatalismo: "Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà e non morirà. Nessuna delle colpe che ha commesso sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata Forse che io ho piacere della morte del malvagio - dice il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? [...] Ha riflettuto, si è allontanato dalle tutte le colpe commesse; egli certo vivrà e non mo­rirà" (18,21-23. 28).

Questa speranza di Dio nel ritorno dell'uomo si esprime nel toccante atteggiamento del padre del figlio prodigo, che ne scorge da lontano la figura: "Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò" (Lc 15,20). Se lo vide da lontano, vuol dire che non lo aveva mai dimenticato, mai tolto dal suo cuore o ripudiato. Ma nutriva sempre attese e speranze nel suo ritorno. Ecco perché non aspetta che il figlio arrivi da lui, ma è lui che commosso prende l'iniziativa: corre verso di lui, gli si getta al collo, lo bacia. Vice­versa il fratello maggiore non solo si sente estraneo alla festa organizzata per il ritorno di suo fratello, ma preclude ogni speranza nei suoi confronti, perché lo ha già giudicato e condannato.

Qui appare la grande differenza tra Dio Padre, capace di sperare sempre e l'uomo chiuso nella negatività dei suoi giudizi. La carità che tutto spera non è se non quella di Dio. Solo accogliendola nei nostri cuori, e diventando suoi figli adottivi (cf. Rm 5,5; 8,15), possiamo imitare l'a­more di lui realmente e universalmente (panta) aperto alla speranza.

Gesù stesso spera. Ha gli stessi atteggiamenti e sentimenti del Padre verso l’uomo. E quando utilizza i “guai” per apostrofare l’ipocrisia dei farisei e degli scribi, lo fa sempre sperando la loro conversione.

In riferimento alla coppia, l’amore che tutto spera, in connessione che il “il tutto crede”, “indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra” (AL 116).

L’amore tutto sopporta. Dei quattro verbi contenuti in questo versetto, il primo e l'ultimo vanno interpretati in maniera conseguenziale. Se “coprire” significa, come si è detto, protezione e difesa del fratello, così “sopportare”, anche sulla base di ciò che dice il verbo greco, hypoméno, va analogamente inteso in relazione ad un atteggiamento positivo di sostegno e di fedeltà. Dire allora che la carità tutto sostiene o sopporta va inteso nel senso positivo di un amore che resta al suo posto in fedeltà e perseveranza, che non cede né a delusioni né a scoraggiamenti.

Nella lettera agli Ebrei l’autore così ci esorta: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo” (Eb 12,3).

Papa Francesco interpreta questo “tutto sopporta” anche in riferimento alle contrarietà della vita. Così scrive: “Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare” (AL 118).   

Concludendo potremmo osservare che i quattro verbi hanno una di­sposizione che ci fa pensare ad una casa: agli estremi, il tetto e le fonda­menta (“copre” e “sostiene”), ai lati i pilastri portanti della fiducia e della speranza. Nella stessa 1 Cor Paolo afferma: “la carità edifica (alla lettera: costruisce la casa, oikodomei)” (8,2), per cui la carità ha realmente il potere di unificare ed edificare tutta la nuova creazione (panta) – e in particolare il matrimonio fondato sul sacramento -, come una grande casa.

Possiamo chiederci: come viviamo nella coppia questi 4 atteggiamenti che fanno del nostro matrimonio una casa nella quale regna la tenerezza e l’amore di Dio? Una casa capace di accogliere la vita (i nostri figli, le persone con le quali siamo in relazione) e promuoverla?

 ________

[1] Cfr. Ef 5,29; Gv 13,34.

[2] S. KIERKEGAARD, «Aut-aut», in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, 10.

[3] I. YALOM, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1997, 30. Per un approfondimento, cfr G. CUCCI, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.

Beati i poveri in spirito

dall’avarizia al dono

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Chi sono i poveri in spirito

Gesù annuncia che la felicità, la gioia, è possibile nel già della nostra vita («Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3), e non solo del futuro. E «la parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine» (GE 64).

Ma chi sono i “poveri in spirito”? Sono gli 'anawim, i fedeli osservanti e devoti, spesso emarginati e disprezzati. Un esempio di essi nel Vangelo: la povera vedova di cui lui solo si accorge.

Seduto di fronte al tesoro, (Gesù) osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una povera vedova, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,41-44).

Gesù chiama a sé i discepoli. Stanno guardando altro. Forse stanno ancora pensando a ciò che Gesù aveva appena detto contro i maestri della legge: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere» (Mc 12,39-40). Sono falsi maestri di vita! Questi «Hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6,2.5.16).

Chi è invece il vero maestro? È chiaro, è Gesù. Ma egli stesso, seduto come maestro, ci addita quella povera vedova. Vuole che impariamo la lezione ultima. Quella donna per lui è una vera maestra di vita, è espressione del Vangelo che Gesù ha proclamato.

«Tutti hanno gettato parte del loro superfluo – spiega Gesù -… lei invece…». Questa donna consegna tutta se stessa in quello che dà. A questa donna non è rimasto niente se non il Signore; non ha altra ricchezza se non Lui. Come Gesù darà tutto se stesso per amore degli uomini, questa donna dà tutta se stessa per amore di Dio.

Un appunto: si noti qui il duplice comandamento – amore per Dio (espresso dalla donna) e amore per gli uomini (espresso dal dono di Gesù) che Gesù, poco prima, aveva dato come risposta alla domanda dello scriba: «Qual è il primo di tutto i comandamenti?» (cfr. Mc 12,28-32).

Mi piace pensare che la povera vedova ha vissuto non solo il primo comandamento, ma anche il secondo. Le due monetine – particolare precisato dall’evangelista – forse rappresentano proprio questo. Chi ama autenticamente il Signore come un povero, facendo di Lui il proprio tesoro, ama anche i fratelli.

Chi ha viaggiato nei paesi del terzo e quarto mondo sa bene che ci sono tanti poveri – ricchi di fede e di amore per il Signore – che vivono con gioia e sanno condividere con semplicità quello che hanno. Anche loro sono degli autentici maestri. E forse ce ne sono anche vicino a noi, nei “santi della porta accanto” (cfr. GE 6-9). Ma degli uni e degli altri c’è il rischio di non vederli perché guardiamo da un’altra parte. Quale? All’illusione della ricchezza.

 

L’illusione della ricchezza

Di essa Gesù ci mette in guardia:

«Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, beni e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Così è di chi accumula per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,14b-21).

«Stolto!» – chiama Gesù quest’uomo. Ma perché, al contrario dell’insegnamento del Maestro, uno dei simboli più radicati nell’immaginario dell’uomo moderno è l’associazione tra felicità e ricchezza, con i suoi molteplici derivati (consumismo, potere, accumulo)?[1] Perché dobbiamo guardare oltre l’apparenza.

Si noti che i ricchi, ai quali il mondo spesso guarda come persone riuscite e felici, spesso non si rendono conto di aver aperto un baratro nel quale essi stessi rischiano di precipitare. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001, dopo aver mostrato come gran parte della ricchezza negli Usa sia concentrata nelle mani dell’% della popolazione, commenta: «Gli appartenenti al primo 1 per cento hanno le case più belle, l’istruzione migliore, i dottori più bravi e lo stile di vita più piacevole, ma c’è una cosa che i soldi non sembrano aver comprato: la comprensione che il loro destino è legato a quello dell’altro 99 per cento di esistenze. Come mostra la storia, questo è qualcosa che il primo 1 per cento alla fine capisce. Spesso, tuttavia, lo impara troppo tardi»[2].

L’idea che la felicità sia associata a guadagnare e ad avere sempre di più porta a un aumento di stress e infelicità, a una disumanizzazione e perdita della propria dignità, perché genera quella che è stata chiamata «la corsa dei topi». Robert Kiyosaki, un imprenditore statunitense, per descrivere questo meccanismo riprende appunto l’immagine del topo che corre sulla ruota di una gabbia non arrivando mai da nessuna parte: allo stesso punto di arrivo conduce lo sforzo di chi mira a uno status di benessere posto sempre un passo più avanti di quanto realizzato. Più si guadagna e più ci si sente indigenti. L’immagine suggerisce anche il degrado inquietante a cui l’essere umano finisce per prestarsi, fino a diventare una cavia ammaestrata. Solo alla fine della vita si rende conto di aver sprecato le proprie energie ed essere stato privato dei propri sogni.

 

Le conseguenze dell’avarizia

Le conseguenze della perversione dell’avarizia – cioè dello scambiare il fine (la ricerca della felicità) con i mezzi (il denaro) – sono le seguenti.

• La perdita del senso del gratuito e dunque il senso dell’esistere. Si pensi ad es. alla reazione di Giuda di fronte allo spreco di profumo operato dalla donna nei confronti di Gesù (cfr. Gv 12,5); ogni cosa viene valutata per ciò che se ne può ricavare («trecento denari» precisa Giuda), e ogni altro elemento, relazionale o affettivo, passa inosservato. “Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12,8). Sembra con ciò intendere che si può incontrare Gesù solo nella gratuità e nell’amore, due realtà che sfuggono alla comprensione dell’avaro, perché nascono dallo stupore, dalla constatazione dell’essere nei termini di un dono offerto con generosità a fondo perduto, suscitando sentimenti esattamente opposti all’avarizia. L’amore e la gratuità suppongono infatti l’assenza di lucro, di un tornaconto personale.• All’avaro – come abbiamo visto nella parabola dell’uomo ricco - sfugge il senso della contingenza di ciò che ha, non si accorge che le cose che ha accumulato non gli appartengono veramente, e difatti dovrà lasciarle ad altri; riprendendo una parabola del vangelo, quella dell’amministratore disonesto (cfr. Lc 16,1-13), ognuno è soltanto amministratore di ciò che gli è stato affidato affinché possa fare del bene ad altri, e questo bene diventa l’unica ricchezza che gli appartenga veramente, l’unica ricchezza che non può essere rubata o andare perduta.• La paura e il senso di insicurezza. Il denaro, ben lungi dal rassicurare, quando diventa fine in se stesso aumenta le paure: la paura di perdere ciò che si è guadagnato, la paura che un rivale si aggiudichi prima quell’affare bramato, che balzi innanzi nella scala sociale rendendo vana la fatica di una vita...... Per un curioso meccanismo psicologico, quando si cerca un’eccessiva sicurezza, che il denaro dovrebbe assicurare, si ottiene il risultato esattamente contrario, l’ansia e l’insicurezza si diffondono e prosperano con sempre maggiore intensità. E questo è esattamente lo stato d’animo caratteristico degli avari:

«Essi sono sempre nell’agitazione e la loro anima non ha riposo. La premura di possedere ciò che ancora non hanno fa sí che considerino nulla quello che hanno già. Da un lato, tramano nell’apprensione di perdere ciò che già hanno accumulato e, dall’altro, lavorano per possedere altre cose, il che vuol dire nuovi motivi di paura»[3].

I padri sottolineano spesso l’angoscia mortale che assilla l’avaro, considerata come una serpe che si morde la coda; più possiede e più viene posseduto da ciò che lo spinge ad accumulare, e cioè l’ansia e la paura[4].

La tristezza. Essa è legata alla delusione di non poter mai trovare pienamente quello che brama, ma di sentirsi sempre più indigente: «Come il mare non è mai senza flutti e senza onde, allo stesso modo l’avaro non è mai senza tristezza»[5]. C’è una sorta di strano masochismo in questo vizio, in quanto ciò che si ritiene essere l’unica fonte di felicità, rende in realtà angosciati, fino a rovinarsi la vita: «Non solo gli avari si privano della gioia di ciò che hanno e di ciò che non osano usare a loro piacimento, ma anche di quello di cui non sono mai sazi e hanno sempre sete: vi può essere qualcosa di più penoso?»[6].• Disturbi psicologici e psicosomatici. Il conto che l’avarizia presenta alla vita di chi la coltiva è pesante: nevrosi, incapacità di staccare dal lavoro, di riposarsi, scomparsa di qualunque interesse che sia privo di “interessi”, disturbi del sonno.• Asocialità. Crisi dei legami matrimoniali e familiari in genere, perdita delle amicizie. C’è un legame stretto tra avarizia e antisocialità: l’avaro si trova a suo agio solo in compagnia delle sue cose, le uniche di cui può fidarsi: «L’immagine è quella di un personaggio triste, solitario, abbandonato dagli amici, poco loquace, sempre sospettoso, spesso brusco e arrogante, nel migliore dei casi maleducato»[7], perché l’avarizia abbruttisce l’animo, rende grossolani, superficiali, spenti, infelici, soli, in una parola disumani. La solitudine dell’avaro si mostra anche nella sua tendenza all’invidia delle cose altrui, che gli appaiono come più belle e desiderabili delle proprie. E dunque in tal modo l’avaro non è mai soddisfatto di ciò che ha.

Il frutto conclusivo che riassume tutta la sua esistenza è la polvere, la distruzione di ciò che ha di più caro. Il denaro, avendo preso il posto di Dio, si rivela per quel che è: un nulla che ha annientato tutto il suo essere. Della vita di un avaro infatti non si può dire nulla al di fuori delle cose da lui accumulate: esse sono state la sua vita.

 

«C’è più gioia nel donare che nel ricevere!» (At 20,35)

La felicità, come insegna Gesù, ha una dimensione relazionale e affettiva. Essa è indispensabile per la felicità proprio perché, a differenza della logica della ricchezza, dove tutto ha un prezzo, essa appartiene alla categoria del gratuito. Facciamo due esempi.

• La Hochschild, docente di socilologia a Berkely, aveva intrapreso una ricerca sui limiti del commerciabile con un esperimento, e in modo particolare le conseguenze del monetarizzare anche le prestazioni umane che normalmente vengono svolte tra persone che si vogliono bene, come il viaggiare insieme, il partecipare alle feste, il massaggiare in modo dolce, l’occuparsi di faccende domestiche, ecc. È chiaro che i risultati di tale ricerca hanno messo in luce la perdita dei sentimenti, di quella dimensione romantica e un po’ ingenua che caratterizza l’innamorato e che rimane una delle esperienze più belle e irripetibili della vita: il meraviglioso intreccio dell’amore, con i due partner che si prendono cura l’uno dell’altro, si amano e sono legati spiritualmente, viene ridotto a una prestazione a pagamento, meccanizzata e senza sentimento. Le cose più belle non hanno prezzo, anche se sono in commercio.

Delle conseguenze di questa monetarizzazione la Hochschild se ne accorse in modo lucido anche dalla reazione di sua figlia, quando scoprì che la sua festa di compleanno in realtà era stata allestita da una persona pagata dalla madre. La delusione sul suo volto era più eloquente di ogni discorso. Per quanto l’organizzazione fosse impeccabile, era artificiale, senza cuore; in essa si erano smarriti, insieme ai sentimenti, anche le persone: «”Capii in quel momento di aver oltrepassato il limite” […], il limite di aver varcato il confine del commerciabile tracciato dalla figlia»[8]. E il limite è la disponibilità a perdere tempo, a fondo perduto, con le persone che amiamo.

• Il secondo esempio lo traiamo dalla ricerca condotta dall’équipe della British University of Columbia (Usa) che ha mostrato che non esiste alcuna relazione tra i soldi spesi per se stessi e la gioia di vivere. Al contrario, alla fine si avverte tristezza. Quando invece si compra qualcosa per gli altri, ci si sente più felici di prima. E, questo, indipendentemente dal reddito percepito.

I ricercatori hanno tentato di testare questa differenza fornendo una somma di denaro (5.000 dollari ca.) a 16 impiegati, chiedendo loro quanto si sentissero felici (in un’ipotetica “scala della felicità”) un mese prima di ricevere la somma, e poi un mese e due mesi dopo averla spesa. Coloro che si sentivano più felici, non solo rispetto al resto del gruppo ma anche in rapporto al periodo precedente, erano coloro che avevano impiegato i soldi per fare contenti altri. «Il modo in cui il bonus veniva speso influiva sul grado di felicità di chi lo riceveva in misura maggiore dell’entità del bonus stesso»[9]. Non contenti, gli autori dello studio hanno svolto la stessa indagine su 46 studenti, con i medesimi risultati: la somma ricevuta, per quanto modesta (dai 5 ai 20 dollari), rendeva più felice il suo possessore quando veniva utilizzata per i bisogni altrui.

Donare rende felici. Perché si è felici quando ci si propone di fare felici gli altri. Poveri o ricchi, non fa differenza. Capita, anzi, che i poveri siano più generosi dei ricchi. Strano, ma vero: nel Vangelo i gesti generosi vengono da chi sembra non contare nulla, come nel brano della peccatrice perdonata (cfr. Lc 7,36-50), chi è ricco è più riluttante a donare, spesso dà il superfluo, di malavoglia, e facendolo pesare.

Gesù, guardando le offerte gettate nel tesoro del tempio, fa notare che chi è povero, chi non pretende di possedere e riconosce con gratitudine che ciò che riceve è dono, può veramente donare, anzi diventa dono.

 

L’arte di ridere di sé

Un frutto non molto evidente, forse, ma proprio dei poveri: il saper ridere di sé.

«Arte difficile, che non s’insegna in nessuna università. Arte imprescindibile se si vuole sfuggire a quei due grandi demoni della vita umana: quello che ci incita ad adorare noi stessi e quello che ci spinge a odiarci dall’interno del nostro stesso cuore. […]

Adorare sé stessi è una faccenda piacevole. E sebbene ne siano più tentati i cosiddetti uomini pubblici (i quali, dato che passano metà della vita su pulpiti, cattedre, piattaforme o piedistalli, hanno la facile tendenza a dimenticare la loro effettiva statura), coglie anche coloro che obiettivamente hanno ben pochi motivi per quell’auto-adorazione.

Peggio ancora quelli che odiano sé stessi. Sono milioni. Persone che non si perdonano di non avere realizzato tutti i loro sogni, persone che sono deluse di sé e trasformano quella delusione in amarezza e permalosità.

Per quanto si tenda a credere il contrario, non è affatto facile amare umilmente sé stessi, accettarsi come si è, lottare per essere quanto più possibile migliori, ma sapendo sempre che raggiungeremo questo miglioramento restando brutti come siamo, grassi come siamo e non più brillanti di quello che siamo. Nel comandarci di amare il prossimo come noi stessi, Dio ci ha comandato anche di amare noi stessi come il prossimo»[10].

In primo luogo il sentimento profondo, basilare, il più costante: il povero nell’anima sente che né si adora né si odia, ma ama umilmente sé stesso, si accetta per com’è e lotta per migliorare (cuore idealista) senza smettere di essere com’è e di accettarsi con spirito, senza arrabbiarsi e senza inasprirsi (testa di umorista semiscettico). Come diceva il curato di campagna di Bernanos alla fine della sua vita: «Sono riconciliato con me stesso, con questa povera spoglia»[11]. In secondo luogo, descrive lo sguardo: il povero in spirito ha uno sguardo compassionevole verso le persone, come quello dei genitori verso i loro piccini, e spoglio verso le cose.

Anche la Sacra Scrittura invita il credente a imparare a ridere di sé stesso, perché non deve avere paura delle proprie debolezze e miserie; lo libera dalla preoccupazione di apparire migliore di quello che è; lo libera anche dal giudizio degli altri, che tanto fa soffrire e impedisce di sorridere delle proprie piccinerie, mettendosi un vestito troppo stretto, che non consente di respirare. L’umorismo diventa così un segno di libertà e di verità verso sé stessi, perché si è consapevoli che la propria stima viene da un Altro[12].

Riesci a ridere delle tue abitudini, del tuo comportamento, delle tue stranezze? Sai riconoscere le tue incoerenze per sorriderne con lucidità e benevolenza?

 

Persone di fede

«Dio – dice san Giacomo – ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi mediante la fede» (Gc 2,5). Il Regno rappresenta, nella beatitudine, l'offerta della grazia, la povertà in spirito la risposta di fede dei poveri e dei piccoli. «È come se Gesù dicesse: Beati voi poveri «perché avete creduto»[13].

In questa prospettiva Maria è il modello sublime di questa beatitudine. È la beata perché è la credente. Beatitudine espressa da Elisabetta (Lc 1,45), ma anche da Maria stessa nel Magnificat («D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»: Lc 1,48). Se fede vuol dire accogliere dinamicamente il Dio di Gesù Cristo nella propria vita e lasciarsi coinvolgere nel suo mistero di sofferenza, morte, resurrezione e gloria, Maria certamente è stata una singolare donna di fede. Nel suo itinerario di fede, che ha conosciuto anche le “notti”, Maria ha sempre guardato al Figlio, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).

 

Povertà di sé, adorazione e preghiera

Tra la povertà in spirito e l’adorazione del Padre esiste una relazione splendida e feconda. Infatti rispetto al nostro Padre creatore, che ci ha dato la vita e ci sostiene in essa, siamo, per così dire, sempre «materialmente» poveri. Ma è una scelta libera, sotto il profilo spirituale, quella di riconoscerci creature e adorarlo con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze. Povera nell’anima è la Madonna che traduce il sentimento della sua piccolezza e del dovere tutto a Dio in pura lode, in adorazione piena di gioia e in desiderio di dare gloria al Signore.

Nell’adorazione del Padre, e del Figlio che ha inviato nel mondo, avviene il Regno. Quando si santifica il suo nome, il Regno dei cieli si apre e viene tra noi stabilendosi come volontà che dirige e ordina le azioni di coloro che lo accolgono liberamente. E in aggiunta ci dà il pane, ci perdona, ci libera dalle tentazioni e da ogni male. Quel Regno che è come celato, sotterraneo, velato, nascosto, si apre ed entra in vigore, assume valore, realtà, là dove qualcuno sceglie la povertà spirituale, là dove qualcuno sceglie di non afferrare ma di dare, di non auto-adorarsi ma di adorare il Padre, là dove qualcuno sceglie di non voler possedere né dominare né accampare diritti ma condivide, si spoglia, serve, ama.

La preghiera al Padre – anche quando è preghiera di domanda – è sempre vissuta nell’atteggiamento del povero che non ostenta se stesso, né moltiplica le parole, come fanno i pagani, per essere ascoltato; entrato nella cella del proprio cuore si rivolge con fiducia al Tu, consapevole che Egli «sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,8).

 

___ NOTE ____

[1] Anche quando il sogno della felicità non si realizza, rimane la convinzione che si tratti comunque del male minore. Come nota Woody Allen, «il denaro non dà la felicità, figuriamoci la miseria».

[2] J. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Torino, Einaudi, 2014, 453.

[3] San Giovanni Crisostomo, Commento al vangelo di Matteo, LXXXI, 4.

[4] Cf. San Gregorio Magno, Moralia, XV, 19

[5] San Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XVI, 21.

[6] San Giovanni Crisostomo, Omelie su 1 Corinzi, XXII, 5.

[7] C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000, 120.

[8] A. Russell Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, Bologna, il Mulino 2006, 55-58.

[9] E.W. Dunn – L. B. Akin et Al., «Prosocial Spending and Well-Being: Cross-Cultural Evidence for a Psychological Universal», in Journal of Personality and Social Psychology, n. 104, 2013, 635-652.

[10] J.L. MARTIN DESCALZO, «El arte de reírse de sí mismo», in Razones para la esperanza, Sociedad de educación Atenas, Madrid 1991, 80-81.

[11] G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1965, 272.

[12] R. POUDIER, L’umorismo nella Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996.

[13] Cfr. R. Cantalamessa, Le beatitudini evangeliche. Otto gradi verso la felicità, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, 15-16.

09 Marzo 2019

Myriam 2019

Carissimi Lettori di Myriam, l'inizio di un nuovo anno ci induce a riflettere sul tempo che Dio ci dona, per realizzare ancora nel nostro oggi il Suo piano di amore e di salvezza. E questo piano di amore, così come ci viene più volte presentato da S. Paolo nelle sue Lettere Apostoliche,è che noi possiamo essere santi come Lui è Santo...(Padre Carlo Rossi)

09 Marzo 2019

La donna di valore

La donna di valore

 

festa della donna

TESTO BIBLICO

Proverbi 31,10-31

 

10 Una donna di valore, chi la troverà? Lontano dal corallo il suo prezzo.
11 Confida in lei il cuore di suo marito bottino non mancherà.
12 Arreca a lui bene e non male tutti i giorni della sua vita.
13 Cerca lana e lino, lavora con il gusto delle sue mani.
14 È come le navi di un mercante da lontano fa venire il suo cibo.
15 Si alza quando è ancora notte, dà cibo alla sua casa, e porzione alle sue serve.
16 Esamina un campo e lo compera, con il frutto delle sue mani pianta una vigna.
17 Cinge con forza i suoi fianchi e rafforza le sue braccia.
18 Gusta con piacere che il suo commercio va bene non si spegne di notte la sua lampada.
19 Le sue mani stende verso il fuso, e le sue palme afferrano la rocca.
20 Le sue palme apre al bisognoso e le sue mani stende al povero.
21 Non teme per la sua casa, se nevica, perché tutta la sua casa è rivestita di scarlatto.
22 Si è procurata delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti.
23 È stimato alle porte suo marito, quando siede con gli anziani del paese.
24 Tuniche fa e vende, cinture dà al mercante.
25 Forza e dignità il suo vestito, sorride al giorno che viene.
26 La sua bocca apre con sapienza, un’istruzione di bontà sulla sua lingua.
27 Vigila l’andamento della sua casa, pane di pigrizia non mangia.
28 Si alzano i suoi figli e la dichiarano beata, suo marito per lodarla:
29 «Molte donne hanno fatto prodezze, ma tu hai superato tutte».
30 Ingannevole la grazia e fugace la bellezza, la donna che teme il Signore, essa merita lode.
31 Date a lei dal frutto delle sue mani, lodino lei alle porte le sue opere.

 

COMMENTO

 

Potrebbe sembrare un testo molto maschilista, ossia l’elogio di una donna che sia utile all’uomo. E quindi la nostra lettura e commento del brano sarebbe inutile, perché tradirebbe una cultura che non ha più diritto di cittadinanza. Ma è proprio così?

Anzitutto si noti una cosa: che già al suo tempo questo poema, tratto dal libro della Sapienza, si poneva in contrasto con la cultura dominante. Infatti esso non esalta la bellezza della donna, non descrive inoltre il suo aspetto fisico e non menziona sentimenti d’amore. Di questa donna si sottolinea soprattutto quello che fa. Questa descrizione è sicuramente una critica alla letteratura dedicata alle donne nel Vicino Oriente Antico, la quale era soprattutto interessata all’aspetto fisico della donna e fortemente caratterizzata in senso erotico. Contro l’ideale della perfezione femminile riflessa appunto nella poesia erotica diffusa e coltivata nel contesto delle corti reali e degli harem, il poema acrostico glorifica piuttosto l’agire attivo di una donna impegnata nei normali affari di famiglia e sociali.

Ma che importanza ha per l’autore del poema questo fare instancabile (si alza quando è ancora notte e, d’altro canto, la sua lampada non si spegne neppure di notte)? Non si tratta dell’elogio dell’iper-attivismo, ma di un fare che corrisponde a un progetto preciso, a una previa valutazione attenta (v. 16) – quindi una donna che riesce a realizzare ciò che desidera -; un fare, probabilmente, che non è solo materiale, ma una seconda e più importante finalità: la cura delle relazioni in famiglia e non solo. Tali relazioni per la donna di valore sono più importanti delle cose stesse che fa e dei beni, che sono solo degli strumenti. Il tesoro sono le persone con le quali lei vive in relazione!

Allora più che un testo maschilista, tale poema rappresenta davvero l’ideale – certamente con espressioni iperboliche – di un ritratto femminile caratterizzato dalla sapienza. E qui per “sapienza” non si intende solo un fatto di conoscenza; sapiente è colui che sa vivere, che vive con “gusto” la sua vita.

 

Per un profilo della donna di valore

a) Il “fare”. Addirittura questa donna fa delle cose che solitamente facevano gli uomini: compra un campo, pianta una vigna (cfr. v. 16), fa affari (cfr. v. 24) e insegna (cfr. v. 26). Il lavoro non è visto come compito degli schiavi, come avveniva invece nella colta Grecia, bensì come obbedienza al comando di Dio: “riempite la terra e soggiogatela” (cfr. Gen 1,28). Nel secondo racconto biblico della creazione Dio pose l’essere umano nel giardino appena creato (cfr. Gen 2,15) non solo per prendersi cura dell’esistente (custodire), ma anche per lavorarvi affinché producesse frutti (coltivare). L’uomo, mediante il lavoro umano, è chiamato a far emergere le potenzialità che Dio stesso ha inscritto nelle cose. Si pone nei confronti della creazione come con-creatore di un mondo, creato bello e buono dal Creatore.

La donna del cantico fa proprio questo: con il suo lavoro rende più bello l’ambiente umano familiare ed extrafamiliare.

 

b) A servizio della vita. Con il suo lavoro la donna-sapiente è a servizio della vita. Dei suoi familiari, anzitutto, che hanno “doppio vestito” (v. 21), nonché coperte per ripararsi del freddo della notte (cfr. v. 22), ma anche di chi è nel bisogno (cfr. vv. 19-20). Le mani che si muovono alacremente dal mattino alla sera, sono anche stese verso i poveri.

In questa prospettiva acquista senso il riferimento al «timore del Signore» che si trova alla fine del poema (v. 30). La fede della donna non si manifesta qui attraverso gesti rituali o atteggiamenti devozionali, ma si incarna in gesti concreti di solidarietà che esprimono il senso profondo del progetto di società che la legge del Signore, la sua istruzione, si propone di costruire tra gli uomini. Un progetto alternativo a quello vigente nelle società di ieri e di oggi, centrato, in genere, sul potere, sul prestigio, sul denaro; un progetto, invece, nel quale ogni uomo viene soccorso dal Signore nel suo bisogno, ma attraverso le mani di un fratello.

 

c) Una donna “forte”. L’inizio del poema (v. 10), che dà il tono a tutto ciò che segue, è costituito da un’espressione chiara, ma difficile da tradurre: ʾēšet ḥayil, che viene tradotta dalla LXX con ἀνδρείαν (virile) e dalla Vulgata con mulierem fortem. Il termine ḥayil ricorre 222 volte nella Bibbia ebraica e si riferisce a vari ambiti: alla forza [1], spesso con riferimento a uomini che sono soldati[2] , oppure alla ricchezza[3], al profitto[4]. Generalmente, uomini di questo tipo sono legati al potere, proprietari di beni, persone capaci.

In cosa consiste allora la “fortezza” di questa donna? È chiaro che qui non si parla di una fortezza fisica, ma della fortezza d’animo, propria di chi non si lascia prendere dalla pigrizia, come si afferma chiaramente al v. 27: “pane di pigrizia non mangia”. Il libro dei Proverbi stigmatizza numerose volte l’insipienza del pigro[5] e, in particolare in 21,25, così afferma: “I desideri del pigro lo portano alla morte, perché le sue mani rifiutano di lavorare”. Una donna, quindi, che non si lascia prendere dalla pigrizia, e la allontana prontamente come una tentazione.

 

d) Una donna che vive con “gusto”, gioiosa. All’inizio del libro dei Proverbi si afferma che l’uomo sapiente può gustare nel suo cuore le delizie e dolcezze dalla sapienza stessa (cfr. Pr 2,10). Se, infatti, la sapienza non è solo conoscere le cose ma anche vivere con gusto, con sapore, la nostra donna vive in tal modo il suo impegno. Gesù stesso nel vangelo sostiene che chi vive la sua sapiente parola deve essere una persona “salata”, e avverte che chi nono ha tale gusto fa, paradossalmente, la fine del sale insipido: “a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Mt 5,13; Lc 14,34).

Oserei aggiungere, alla luce delle parole di Gesù, che tale donna deve essere anche felice. In At 20,35 infatti leggiamo: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”. Gioia che la donna prova nel servire con amore i familiari e chi è bisognoso. Gioia, quindi, che è il risultato inaspettato dell’amore. Paradosso molto vero: la gioia si trova quando non la si cerca, quando si è dimentichi di sé e si vive con libertà interiore i propri servizi per amore. La gioia, quindi, non può essere raggiunta in modo diretto. Oggi, come sappiamo, c’è una grande ricerca di gioia, ma paradossalmente chi cerca di ottenerla per sé, mediante il possesso egoistico dei beni, il piacere del godimento, il potere e ogni altra autoaffermazione sulle cose e sui beni creati, si ritrova, alla fine, con in cuore vuoto.

 

e) Una donna religiosa. Al v. 30 si afferma espressamente: “la donna che teme il Signore… merita la lode”. Nel libro dei Proverbi si afferma chiaramente che non si può conseguire la sapienza senza il timore del Signore[6]. Vi si intrecciano un’azione divina e una disposizione umana. La sapienza, infatti, è un dono che il sapiente si dispone a ricevere dall’alto, dall’Unico che possa abbracciarne e afferrarne i segreti misteriosi e inaccessibili. E la preghiera è il luogo più appropriato per chiederla al Signore. D’altra parte ciò si integra, senza contrasto, con la coscienza di una sapienza che è il risultato di una ricerca assidua, di un esercizio di riflessione e di intelligenza per conoscere al meglio la realtà circostante con il gioco delle sue regole vitali. Tuttavia rimane vero che risulta vano ogni sforzo di ricerca umana della sapienza, se il Signore non interviene a donarla.

Ecco l’atteggiamento di questa donna: è sapiente perché aperta ad accogliere la sapienza che Dio dona. Non è una persona orgogliosa, ma umile; ed è, nonostante tutto il suo assiduo impegno, anche una donna di preghiera.

È interessante ciò che afferma il v. 11 del cantico: “In lei confida il cuore del marito”. Al di fuori di questo testo e di Gdc 20,36, infatti, la Scrittura condanna la fiducia riposta in qualcosa o in qualcuno al di fuori del Signore[7]. L’eccezione costituita da Pr 31,11 eleva la donna forte, che teme il Signore, al più alto livello di competenza e di spiritualità. 

f) Una donna bella. Al v. 10 del cantico la donna è paragonata ai «coralli» o alle «perle», gioielli. Eppure in tutto il cantico non si parla, come abbiamo già accennato, della bellezza fisica della donna, né dei suoi gioielli, anzi si afferma: “Ingannevole la grazia e fugace la bellezza” (v. 30). Eppure questa donna è davvero bella. Di quale bellezza? Di quella interiore. Ricordiamo l’insegnamento di San Paolo nella sua lettera a Timoteo: “Alla stessa maniera facciano le donne, con abiti decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce e ornamenti d'oro, di perle o di vesti sontuose” (1Tm 2,9). Anche Pietro, sulla stessa linea, esorta le donne cristiane: “Il vostro ornamento non sia quello esteriore - capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti -; cercate piuttosto di adornare l'interno del vostro cuore con un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio. Così una volta si ornavano le sante donne che speravano in Dio” (1Pt 3,3-5a). Questo deve essere – secondo Pietro – il vero ornamento della moda femminile. Conta ben poco l’ornamento esteriore, mentre va curato il “cuore”, la parte più intima e profonda della persona, la sede della coscienza, da dove sgorgano i pensieri, i desideri e le decisioni. In altre parole Pietro esorta le donne a passare dal piano delle belle cose (monili e vestiti preziosi) si passa al piano dell’essere, quasi a dire che il vero ornamento non sta in ciò che si indossa ma in ciò che si è. Insomma, va coltivata una bellezza integrale che non si limiti all’aspetto fisico, né puramente alla cura dell’anima: una bellezza che tocca l’intero comportamento e trasfigura tutta la persona.

 

Una donna difficile da trovare?

Il v. 10 del cantico, che paragona la bellezza della donna ai gioielli che non sono alla portata di tutti e che non sono neppure facili da trovare, ma esigono una ricerca attenta. Così è la donna di cui il cantico intesse le lodi. Ma è proprio così? Certo, la tradizione cristiana conosce divere donne ufficialmente riconosciute sante. Sono state davvero donne “forti”, che hanno combattuto non solo con le difficoltà della vita, ma anche con Colui che si oppone al vero bene dell’uomo, colui che cerca di vanificare ciò che Dio stesso desidera per l’uomo, Colui che fin dalla Genesi ha cercato di guastare il progetto bello della creazione divina.

E’ chiaro che anche questa domanda va “girata “ a ciascuno di noi: che donna intendo essere?

 

 Padre Michele Babuin, omv

____ NOTE ___

 

[1] Cfr. Gdc 3,29; 1Sam 2,4; Sal 18,33.40; Qo 10,10; Zc 4,6.

[2] Cfr. Gs 1,14; Gdc 6,12; 11,1; 2Re 24,14; 1Sam 16,18; 1Cr 12,9; 2Cr 17,13.

[3] Cfr. Gen 34,29; Nm 31,9; Dt 8,17; 1Re 10,2; 2Cr 9,1; Ez 28,5; Zc 14,14.

[4] Cfr. Ez 28,5; Gb 20,18.

[5] Cfr. Pv 6,6.9; 10,26-27; 13,4; 15,9; 19,24; 20,4; 21,25; 22,13; 24,30; 26,13; 26,14-16.

[6] Cfr. Cf. Pr 1,7.29; 2,5; 8,12-14; 9,10; 15,33. 

[7] Cfr. 2Re 18,21; Sal 118,8-9; Is 36,5; Ger 5,17; 12,6; 48,7; Ez 33,13; Mi 7,5; ecc.

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