Padre Michele

Padre Michele

«… perché vedranno Dio»

Questa è la promessa che Gesù fa ai puri di cuore: avere la possibilità di vederlo. Nell’AT a Mosè che chiede: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), Dio risponde: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Mosè vedrà Dio solo di spalle (cf. Es 33,21-23). Così Mosè può sperimentare la presenza di Dio nella sua vita, senza riuscire a fissarlo. La stessa esperienza è vissuta anche dal profeta Elia, che arriva a cogliere la misteriosa presenza di Dio solo nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12).

Gesù annuncia che l’impossibile è diventato possibile.

Ma che cosa significa propriamente «vedere Dio»? La formula biblica appartiene al linguaggio teologico per designare l'evento escatologico. «Vedere Dio» implica una comunione profondissima, che trasforma l'uomo: trasformazione iniziata nella vita del credente, ma che si compirà solo nella pienezza dell'eternità. È la visione dei beati nel paradiso. In questa prospettiva, Giovanni nella sua prima lettera mette in evidenza quello che già siamo diventati per grazia, insistendo sulla tensione verso il compimento futuro, quando sarà possibile vedere direttamente Dio e ciò comporterà la nostra piena realizzazione, determinando la completa conformazione a Lui:

«Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3,2-3).

Si noti che il vedere Dio è legato anche ad una certa purificazione. «Vedere Dio» dunque significa diventare come lui, essere trasformati a sua perfetta somiglianza, eliminando ogni ostacolo e ogni limite creaturale della condizione dell'uomo sulla terra.

Lo ribadisce anche Paolo nell'elogio dell’agàpē, per sottolineare il contrasto fra la visione presente e la tensione alla futura pienezza: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia» (1Cor 13,12).

Per capire la novità del vedere Dio «faccia a faccia» ricordiamo qui quale è il limite creaturale della nostra conoscenza in questa vita. Qualunque sia l’oggetto della mia conoscenza, supponiamo un fiore, essa avviene non per un’unione fisica del fiore con me – il fiore rimane esteriore -, ma per il fatto che una rappresentazione di esso - che chiamiamo idea – viene colta dalla mia mente.

Orbene, la nostra futura conoscenza di Dio sarà diversa da questo modo di conoscere che ci sembra tanto diretto. Avverrà, infatti, attraverso un’unione immediata tra Dio e l’intelligenza umana: la stessa essenza divina viene nella nostra mente come rappresentazione di se stessa, diventando per noi al tempo stesso oggetto e principio di conoscenza. In altre parole, i beati conoscono Dio nella modalità nella quale Dio, che è spirito, conosce se stesso; non dunque come qualcosa di estraneo ad essi, ma – essendo pienamente in lui (Dio sarà tutto in tutti) - come se si identificassero con lui.

 

«Vedere Dio in tutte le cose»

Sant’Ignazio di Loyola ci insegna che è possibile «vedere Dio in tutte le cose». Sa che Dio opera in questo mondo e abita in tutta la realtà (la natura, l’uomo, la storia). Questo Dio, che è Creatore e Signore, può essere “scoperto” o “riconosciuto” negli avvenimenti della vita quotidiana. A sant’Ignazio gli era divenuto facile riconoscere questa presenza del Signore che lo riempiva di gioia.

Certo, questo “vedere Dio in tutte le cose” non è la visione del cielo; tuttavia riconoscere questa sua presenza nella vita di ogni giorno è un’esperienza profonda che riempie il cuore di gioia. È come incontrare – e molto più – la persona che si ama. È sempre una gioia vederla, incontrarla!

Durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro papa Francesco a chiare lettere disse: «Dio è reale se si manifesta nell’oggi»; «Dio sta da tutte le parti». E il Papa spiega: «C’è la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi. […] Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. […] E richiede pazienza, attesa […]». «Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni»[1]. 

Ma per vedere Dio nella nostra quotidianità, per riconoscerlo e gioire dell’incontro con Lui è necessaria la purificazione del cuore. Perché? Perché vediamo le cose e gli altri colorate con le passioni del nostro cuore.

 

Per un’educazione al vedere

Le relazioni — con se stessi, con gli altri e con Dio — si dete­riorano a cominciare dalla vista. Tolstoj nota che Anna Karenina si accorge di non amare più il marito dalla maniera in cui lo guarda, concentrandosi su difetti mai notati prima: «“Dio mio! Perché gli sono venute quelle orecchie?”, pensò, guardando la sua lingua fred­da, e specialmente le cartilagini delle orecchie, che ora l'avevano colpita e che sostenevano le falde del cappello rotondo»[2].

Per san Tommaso, l'azione più grave contro la verità non è tan­to la menzogna, ma avere verso l'altro uno sguardo spietato, sen­za misericordia. Esso riflette in realtà il proprio sguardo interiore, amareggiato, incapace di gustare il bene.  Il primo passo per vedere bene consiste anzitutto nel rendere esplicita la maniera con cui si guarda il mondo, gli altri, e se stessi. Si pensi all'acquolina in bocca con cui il goloso vede il cibo, il lussurioso una donna o l'ava­ro il denaro, modalità che mostrano un atteggiamento cosificante o predatorio nei confronti dell'altro e delle cose. Se il mondo ci appare grigio, è perché porta il nostro colore. Il primato della misericordia richiede anzitutto il riconoscimento della difficoltà, presente in tutti, a vedere bene, cioè a vedere il bene. Come recita uno splendido racconto ebraico: «Un giorno un rabbino chiese ai suoi studenti: “Come fate a dire che la notte è giunta alla fine e che sta tornando il giorno?”. Uno studente suggerì: “Quando si può vedere chiaramente che un animale in lontananza è un leone e non un leopardo”. “No”, ribatté il rabbino. Un altro disse: “Quando si può dire che un albero produce fichi e non pesche”. “No”, replicò il rabbino. “È quando si può guardare il volto di un'altra persona e vedere che quella donna o quell'uomo sono tua sorella o tuo fratello. Perché, fino a quando non riuscirai a farlo, non importa quale momento della giornata sia, è ancora notte”»[3].

Se la qualità del nostro sguardo incide sul rapporto con il creato (cose, avvenimenti, persone), tanto più vale per Dio. Bisogna avere il giusto sguardo, gli occhi puri, per riconoscerlo nei segni della sua presenza, lì nella bellezza della creazione, ma anche – in prospettiva antropologica - dove c’è umiltà, amore, speranza, gioia… in noi (nella nostra interiorità) e negli altri.

• Il primo passo per vedere Dio è dunque prendere coscienza di ciò che c’è nel nostro cuore. C’è il grano e la zizzania insieme (cfr. Mt 13,24-30). Non possiamo estirpare la zizzania – quel male che c’è nel nostro cuore («Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie» - Mt 15,19) con le nostre forze, ma possiamo vigilare su essa. La lotta spirituale di chi non cede alle “tentazioni” che ci vengono dal nostro cuore impuro è indispensabile. Perché quanto più cediamo ad esse, tanto più occupano la nostra fantasia e la nostra mente – lasciandoci poi trasportare nelle azioni da esse –. E vediamo la realtà con queste lenti, con questa distorsione. In realtà rischiamo di diventare ciechi. Quanto più invece lottiamo contro queste passioni, tanto più le vinciamo con la grazia di Dio, tanto più vediamo correttamente. È questo l’aspetto ascetico del cammino spirituale.

La possibilità di guardare in ma­niera differente può giungere anche dalle persone e dalle situazioni più inaspettate. È l'insegnamento che ricaviamo da questa simpatica storiella: «Un monastero era in via d'estinzione: non c'erano vocazioni. Il morale era a terra e il futuro era tetro. Fra quanti andavano a visitare quel luogo, nessuno mostrava l'intenzione di fermarsi. Disperato, l'abate andò a trovare un suo amico saggio, un rabbino, per chiedergli consiglio. Il rabbino espresse il suo dispiacere e ammise che anche nelle scuole rabbiniche c'era penuria di studenti. Prima che l'abate se ne andasse, però, il rabbino gli confidò a bassissima voce: “Uno di voi è il messia”. L'abate tornò al monastero e condivise questa affermazione sconcertante con i suoi monaci, che non riuscivano a coglierne il significato. Nessuno di loro sembrava un candidato ve­rosimile. Il vecchio Beniamino era una persona piacevole, ma terri­bilmente pigro, quindi non poteva essere lui. Antonio era un uomo buono, ma gli piaceva troppo bere, e questo lo escludeva. Edoardo era estremamente ligio a tutte le regole, ma assai malinconico, dunque non era possibile che fosse lui il messia. Però da quel giorno comin­ciarono a guardarsi in modo nuovo: cominciarono a vedere segni di santità e di benevolenza che prima sfuggivano. Lentamente il mona­stero divenne un luogo più dolce e più felice. Le persone che anda­vano a visitarlo si fermavano di più e la comunità tornò a crescere. Il vecchio abate tornò allora dal rabbino e gli disse: “Grazie per avermi detto: ‘Uno di voi è il messia’. Non abbiamo ancora scoperto chi è, ma ora stiamo prosperando”. E il rabbino rise: “Veramente, io avevo detto: 'Nessuno di voi è il messia!'”»[4].

• Un passo successivo è chiedere la grazia di avere un cuore purificato, così da poter avere sempre una buona vista spirituale. Come per il cieco di Mc 8,23-26, si richiede una sorta di miracolo. Questa purificazione del nostro cuore normalmente, come per il cieco, avviene per gradi. Tanti santi hanno conosciuto questa grazia. Si pensi ad esempio alle notti dei sensi e dello spirito in San Giovanni della Croce e in Santa Teresa d’Avila.

«Quando mai ti abbiamo visto?» (Mt 25,37.44): è la domanda stupita dei presenti — dei salvati come dei dannati — nell'ap­prendere che il Signore era sempre stato vicino a loro senza aver­lo tuttavia minimamente notato. Eppure egli c’era! E si rende presente anche nella nostra vita, nelle persone, negli eventi. Egli stesso desidera che lo riconosciamo. «Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apria­mo, lentamente ci rende capaci di vedere»[5]. È lo sguardo di chi è diventato capace di notare ciò che è invisi­bile agli occhi, riconoscendo nella persona più sommessa e ordina­ria la presenza, silenziosa e discreta, di Colui che viene. Che ha promesso: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19).

 

Non solo vedere Dio, ma anche udirlo, gustarlo, odorarlo, toccarlo

Esiste una dottrina cattolica sui sensi spirituali, quelli dell’anima dove abita lo Spirito, per la quale sant’Ignazio di Loyola è fra i grandi maestri. Chi legge, infatti, gli Esercizi s’imbatte subito in quest’affermazione: “Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente” (2, 4). Questa teologia ha un illustre esponente in J.-J. Surin. Essa, però, è molto antica. Già Origene illustrava le potenzialità spirituali dei sensi scrivendo che la vista può fissare le realtà superiori; l’udito percepisce suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo e l’odorato avvertire i profumi che sono, secondo san Paolo, il buon odore di Cristo; c’è infine il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato con le mani il Verbo della vita[6]. Nell’area culturale latina sant’Agostino dirà: “Nessuna meraviglia che alla scienza ineffabile di Dio che tutto conosce, vengano applicati i nomi di tutti questi sensi corporali, secondo le diverse espressioni del linguaggio umano; lo stesso nostro spirito, cioè l’uomo interiore, – al quale, senza che l’uniformità del suo conoscere venga compromessa, giungono i diversi messaggi attraverso i cinque sensi del corpo, – quando intende, sceglie e ama la verità immutabile, vede quella luce a proposito della quale l’evangelista dice: Era la luce vera; e ascolta la Parola di cui l’evangelista dice: In principio era il Verbo (Gv 1, 9 1); e aspira il profumo di cui vien detto: Correremo dietro l’odore dei tuoi profumi (Ct 1, 3); e gusta la fonte di cui si dice: Presso di te è la fonte della vita (Sal 35, 10); e gode al tatto di cui vien detto: Per me il mio bene è lo starmene vicino a Dio (Sal 72, 28). E così non si tratta di un senso o di un altro, ma è una medesima intelligenza che prende nome dai vari sensi”[7].

Facciamo alcuni esempi di questa percezione citando alcuni interventi di papa Francesco.

Vista. Nel linguaggio di Francesco molto ricorrente è la parola “sguardo” e questo ha, fra l’altro, un’eco molto personale. Si rilegga, ad esempio, l’omelia in Santa Marta del 21 settembre 2013 (festa liturgica di san Matteo, che per il Papa ha una risonanza speciale perché rimanda alla scelta di vita) in cui parla dello sguardo di Gesù, che cambia la vita, porta a crescere e dà dignità.

«Uno sguardo che ti porta a crescere, ad andare avanti; che ti incoraggia, perché ti fa sentire che lui ti vuole bene». Proprio com’è accaduto per l’esattore delle tasse divenuto suo discepolo.

«Come era questo sguardo di Gesù»? Basti pensare a «come guardava i malati e li guariva» o a «come guardava la folla che lo commuoveva, perché la sentiva come pecore senza pastore».

E soprattutto occorre riflettere non solo su «come guardava Gesù», ma anche su «come si sentivano guardati» i destinatari di quegli sguardi. Perché — ha spiegato papa Francesco — «Gesù guardava ognuno» e «ognuno si sentiva guardato da lui», come se egli chiamasse ciascuno con il proprio nome.

Per questo lo sguardo di Cristo «cambia la vita». A tutti e in ogni situazione. Anche, ha aggiunto Papa Francesco, nei momenti di difficoltà e di sfiducia. Come quando chiede ai suoi discepoli: anche voi volete andarvene? Lo fa guardandoli «negli occhi e loro sono stati incoraggiati a dire: no, veniamo con te»; o come quando Pietro dopo averlo rinnegato, incontrò di nuovo lo sguardo di Gesù, «che gli cambiò il cuore e lo portò a piangere con tanta amarezza: uno sguardo che cambiava tutto».

Tornando alla scena evangelica, nella quale Gesù è a tavola con i pubblicani e i peccatori, egli “li li aveva guardati e quello sguardo su di loro è stato come un soffio sulla brace; hanno sentito che c’era fuoco dentro»; e hanno anche sperimentato «che Gesù li faceva salire», li innalzava, «li riportava alla dignità».

Infine il Papa ha individuato un’ultima caratteristica nello sguardo di Gesù: la generosità. È un maestro che pranza con la sporcizia della città, ma che sa anche come «sotto quella sporcizia ci fossero le braci del desiderio di Dio» desiderose che qualcuno le «aiutasse a farsi fuoco». E questo è ciò che fa proprio «lo sguardo di Gesù»: allora come oggi. «Credo che tutti noi nella vita — ha detto Papa Francesco — abbiamo sentito questo sguardo e non una, ma tante volte. Forse nella persona di un sacerdote che ci insegnava la dottrina o ci perdonava i peccati, forse nell’aiuto di persone amiche». E soprattutto «tutti noi ci troveremo davanti a quello sguardo, quello sguardo meraviglioso». Per questo andiamo «avanti nella vita, nella certezza che lui ci guarda e che ci attende per guardarci definitivamente. E quell’ultimo sguardo di Gesù sulla nostra vita sarà per sempre, sarà eterno».

Quanto all’udito è davvero il caso di estrarre un passo da ciò che disse ai Vescovi [ma serve anche a noi!] il 7 ottobre 2015 riguardo all’ascolto: “Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2, 7)”. Una volta il Papa ha detto: “Quando uno ha paura di ascoltare, non ha lo Spirito nel suo cuore”[8]. E soprattutto è importante “ascoltare con umiltà”. L’ascolto reciproco di cui parla Francesco ha senza dubbio il suo riferimento primario a quanto lo Spirito dice alle Chiese; ma è pure un richiamo a quel discernimento che tanto gli sta a cuore sì da fargli dire che oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nella capacità di discernimento spirituale[9].• Gusto. “Gustate e vedete com’è buono il Signore”, canta un salmo (34, 9) e sant’Agostino così commenta: “Si rallegrino tutti coloro che assaporano la sua dolcezza”[10]. Nell’omelia del 27 febbraio 2018 papa Francesco ha così commentato la pagina del Vangelo dove Gesù fa appello alla nostra conversione: “Il Signore in questo brano ci chiama così: ‘Su, venite. Prendiamo un caffè insieme. Parliamo, discutiamo. Non avere paura, non voglio bastonarti’ … Ehi tu, Zaccheo, scendi! Scendi, vieni con me, andiamo a pranzo insieme!”. Il gusto del Signore è il dono della gioia che si deposita nel nostro cuore quando accogliamo il suo Evangelo. Conosciamo le parole che intonano l’esortazione Evangelii gaudium: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”. La gioia di cui qui si parla è un sentimento e questo non è poco davvero; è, tuttavia, anche di più perché è dono dello Spirito; è segno dell’accoglienza di Gesù e del suo Evangelo: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Una volta il Papa ha aggiunto che “la gioia è il segno del cristiano: un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato … un cristiano senza gioia non è cristiano”[11].

In Amoris laetitia il richiamo al senso del gusto è davvero positivo: “Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: ‘Come delizierai gli angeli!’. È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui” (n. 129).

Perché non aggiungere a questo punto un richiamo a quella sulla Sacra Liturgia? È questa, difatti, il luogo privilegiato dove il cristiano apprende e vive il gusto di Dio e della fraternità: “Com’è dolce che i fratelli vivano insieme”, canta il Salmo (133, 1).

Odorato. È il quarto dei cinque sensi. È anch’esso importante, perché in grado di comunicarci ciò che altri sensi non riescono: non tocca e non vede, non ascolta né gusta, ma avverte, riconosce e riesce a distinguere ciò ch’è impersonale, da quanto invece è personalissimo e unico. L’odorato è in grado d’introdurre nel profondo della relazione, nell’intimità. Il Papa richiamò questo senso nell’omelia della prima Messa crismale presieduta in San Pietro, il 28 marzo 2013. Parlava ai sacerdoti e chiese loro di essere “pastori con “l’odore delle pecore”. L’interpretazione l’ha data lo stesso Francesco poche settimane dopo, parlando così ad alcuni vescovi: “Nell’omelia della Messa Crismale omelia di quest’anno dicevo che i Pastori devono avere ‘l’odore delle pecore’. Siate Pastori con l’odore delle pecore, presenti in mezzo al vostro popolo come Gesù Buon Pastore. La vostra presenza non è secondaria, è indispensabile. La presenza! La chiede il popolo stesso, che vuole vedere il proprio Vescovo camminare con lui, essere vicino a lui. Ne ha bisogno per vivere e per respirare! […] Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade”.

L’olfatto, il fiuto di cui parlava il Papa, dunque, è duplice. Le pecore, cioè i fedeli, devono sentire nel pastore un odore di santità. E, insieme, il pastore usa il suo “fiuto” per riconoscere nel sensus fidei dei fedeli le indicazioni dello Spirito “per trovare nuove strade”, per scegliere nuovi percorsi pastorali[12].

Tatto. Per san Bonaventura, poi, il tatto è fra tutti i sensi quello che più tiene insieme: realizza al massimo, infatti, il contatto fra due persone e così esprime la carità, che fra tutte le virtù teologali è la più unitiva. Quando si ama non ci s’accontenta di vedere e di guardare, ma si tende a toccare. A chi ama non basta udire, perché ogni voce è un appello a infrangere il muro della distanza, un’invocazione ad abbracciarsi. L’amore vuole sempre toccare. Ogni volto amato richiama una mano e ogni mano si tende verso il volto amato.

L’uso di Francesco del verbo toccare dev’essere letto anche in questo sfondo antropologico e di teologia spirituale. Egli comincia a parlarne in senso cristologico (“toccare la carne di Cristo”), ma giunge poi alla carità verso il prossimo. Durante la Veglia di Pentecoste del 18 maggio 2013 disse: “Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo”. E citando chi gli aveva chiesto: “Mi dica, quando lei dà l’elemosina tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?”, commenta: “Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo”.

 

Giovani senza Dio in Italia

Un’indagine del 2016[13] mostra che sono aumentati i giovani che non credono in Dio (il 5% in più degli ultimi 8 anni). Circa il 28% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha dichiarato di non credere in Dio, nel senso attribuito comunemente a questa espressione. I «piccoli atei», richiamati dal titolo del libro, sono presenti, nelle regioni più dinamiche, tra quanti hanno un’istruzione elevata e nelle famiglie di buona condizione socioculturale. Se questa tendenza fosse confermata, essi rischierebbero di prefigurare l’avanguardia moderna dell’Italia giovane, annunciando il futuro di un’Italia non credente proprio nei settori più significativi.

Quali sono le ragioni del loro ateismo? Sono diverse. Ciò che accomuna nel profondo l’insieme di questi giovani sembra essere una doppia convinzione: l’impossibilità di conoscere ciò che supera l’esperienza umana; e la consapevolezza di non aver bisogno di Dio per condurre una vita sensata, ricercando o ritrovando dunque altrove il senso di un’esistenza degna e compiuta (pp. 8s).

E’ interessante ciò che i giovani credenti affermano dei loro coetanei, cioè che, secondo loro, solo il 23% dei giovani crede in Dio, mentre il 70% non è coinvolto in un percorso di ricerca di tipo religioso.

Non sono queste delle motivazioni che ci provocano? Che ci interrogano se noi sappiamo riconoscere Dio, se conosciamo il suo amore, se ci rendiamo conto come opera in noi, negli altri, nella storia? Forse a questi giovani manca la nostra testimonianza…

 

Un cammino ascetico per risvegliare i nostri sensi spirituali

Vi do qui tre indicazioni di ciò che ci aiuta a risvegliare i nostri sensi spirituali. Non mi soffermo ad approfondirle. Ciascuno potrà trovare delle occasioni per conoscerle e viverle.

La vigilanza dei pensieri e dei sentimenti. Non possiamo lasciarci trasportare dai pensieri e dai sentimenti. Sant’Ignazio ci invita al discernimento: capire da dove essi provengono. Entrambi. Per assecondare quelli che vengono dallo Spirito e quelli che vengono dal Nemico (il nostro cuore malato, le tentazioni dal mondo in cui viviamo, il Tentatore).• La partecipazione alla liturgia. Lì si rivela la presenza di Cristo che parla nella Parola annunciata; quando facciamo la comunione possiamo assaporare l’amore di Cristo che ha spezzato per noi la sua vita e versato nel suo sangue per la salvezza, per la mia salvezza. Il pane è mangiato e assaporato con il gusto, e il gusto interiore lo consuma come l'amore della comunione. Assaporiamo la presenza di Cristo nella comunione con gli altri fratelli presenti nell’assemblea, nella comunione di fede e speranza suscitata dallo Spirito, ma anche la fraternità con cui ci riconosciamo fratelli /sorelle.• La preghiera. Lì, come ci insegna sant’Ignazio, possiamo «sentire e gustare le cose internamente». Nella preghiera non si tratta di nutrire pensieri elevati o riflessioni sublimi, né si tratta di fare grandi ragionamenti o lunghi discorsi. Per pregare basta fermarsi con semplicità su quella parola di Dio, su quell’ispirazione, su quell’esperienza che mi riempie il cuore e gustarla fino in fondo: attraverso di essa il Signore mi fa sentire il suo amore, mi parla… e, se io voglio, guida la mia vita.

 

Le conseguenze di una ricerca smodata del piacere

«Il piacere è un sentimento o un’esperienza, più o meno durevole, che corrisponde alla percezione di una condizione positiva, fisica o psicologica, proveniente dall'organismo. È considerato uno stato di contenuto opposto al dolore che può essere di breve durata o cronico»[14]. Il piacere non va disprezzato. Va accolto con libertà di cuore, come una dimensione del nostro esistere, quella della corporeità e della psiche.

Il rischio è quello di focalizzarsi nella ricerca del piacere come obiettivo principale della vita. In tal caso si ha una ricerca malata, inconsapevole, dell’assoluto. Tale ricerca non genera la gioia, proprio perché la gioia, come abbiamo visto, si pone su un altro piano; invece all’interno della gioia – ad esempio all’interno della relazione amorevole tra marito e moglie (agape) - ci può essere lo spazio del piacere (eros).

Quali sono i rischi di una vita focalizzata sulla ricerca del piacere? Anzitutto di paralizzare i sensi spirituali, in modo da non godere più dei beni dello spirito. Infatti i piaceri forti dei sensi del corpo – come insegna San Tommaso d’Aquino – «assorbono l’anima più di ogni altra cosa»[15]. La conseguenza è ovvia: non trovare mai la gioia agognata; di cadere, inoltre, nella spirale mortifera del vizio. Sappiamo che la prima conseguenza del vizio è la perdita della libertà; il soggetto fa sempre più fatica a staccarsi dal vizio, pur non trovandovi più il piacere e il fascino di un tempo, anzi avvertendo un sempre e maggiore disgusto e insofferenza[16]. Ci sono poi altre conseguenze gravi, disumanizzanti. Si pensi ad esempio a quelle della lussuria e della gola.

• La lussuria è di sua natura distruttiva, anzitutto perché nega la realtà, poiché il suo mondo è l’immaginazione, un mondo falso e superficiale, che spinge a fuggire l’intimità, la manifestazione dei sentimenti e della tenerezza. Ciò che viene distrutto, in particolare, è la fiducia nell’altro, la verità di un rapporto. Il lussurioso, in realtà, è una persona sola, senza amicizie, senza veri legami affettivi. Per di più oltre ad utilizzare l’altro come un oggetto per il proprio piacere, il vizio conduce il lussurioso a rivolgere all’altro richieste sempre maggiori, eccessive – si sa, infatti, che nel vizio si verifica un’assuefazione del godimento, per cui per poter provare lo stesso piacere bisogna aumentare le “dosi” – fino ad arrivare anche all’uso della violenza. • La gola. Un elemento in comune tra i vizi, ma che nella gola si trova esasperato, è l’aspetto della bruttezza (obesità) cui conduce. È facile poi intuire tutte le conseguenze sulla salute della persona obesa (in particolare le malattie cardiovascolari).

L’eccesso di cibo incide anche negativamente sulla ragione, non permettendo un uso corretto ed equilibrato di essa, danneggiando così il pensiero, la parola, la vita comune: «Quando le potenze corporali inferiori sono turbate per una sregolata ingestione di cibo, la stessa ragione, per conseguenza, è intralciata; e così è considerata figlia della gola l’ottusità della mente nell’intendere»[17].

I padri notano che con la gola si sviluppa non di rado anche la maldicenza, la curiosità, il pettegolezzo, una modalità di comunicazione che sembra prosperare nei salotti, nelle grandi tavolate, nell’ozio stancante e annoiato che si crea nel tempo di attesa tra una portata e l’altra, come se lo spirito, all’appesantirsi del corpo, diventasse anch’esso più grossolano e terreno nella sua maniera di esprimersi.

Il goloso rischia di diventare con facilità egoista ed avido dimenticando le persone che si trovano accanto a lui nonché il significato relazionale insito del pasto. Se, inoltre, il cibo è essenzialmente legato al senso della festa, della gioia, dell’allegria, il goloso purtroppo, con il suo comportamento compulsivo, si è precluso tutto ciò, diventando strutturalmente incapace di fare festa.

Sono solo due esempi per dire che il piacere deve stare nel suo giusto ordine ed equilibrio.

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[1] A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, 3918 (2013) 467-468.

[2] Tolstoj, Anna Karenina, Milano, Garzanti, 2008, 163.

[3] S. D. Sammon, Religious Life in America: A New Day Dawning, New York, Alba House, 2002, 95.

[4] T. Radcliffe, Prendi il largo!„., cit., 301 s.

[5] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte. Dall'ingresso in Gerusa­lemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano - Milano, Libr. Ed. Vaticana - Gar­zanti, 2012, 306.

[6] Cfr. Origene, Contro Celso 1, 48.

[7] S. Agostino, Comm. al vangelo di Giovanni 99, 4.

[8] Francesco, Omelia in Santa Marta del 28 aprile 2016.

[9] Francesco, 30 luglio 2016, ad alcuni gesuiti polacchi.

[10] S. Agostino, Comm Enarr. in Ps 5, 15-16.

[11] Francesco, Omelia in Santa Marta del 22 maggio 2014.

[12] Cfr. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 12.

[13] F. Garelli, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Bologna, il Mulino 2016.

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Piacere

[15] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 4t, a. 3.

[16] L’attuale ricerca psicologica parla di «assuefazione del piacere» e di «caduta del desiderio»: chi cerca il piacere come fine in sé stesso non lo trova mai (cfr. V. Frankl, Psychotherapy and Existentialism, Charion Books, New York 1967, 5).

[17] S. Tommaso d’Aquino, De malo, q. 14, a. 4.

La gioia che Dio vuole per ciascuno di noi

La gioia, sembrano volerci dire le Scritture nel loro insieme, è qualità divina e caratteristica precipua del Dio dei cristiani; non è qualcosa di esterno a Dio, ma è parte di lui o, come disse una giovane santa carmelitana, la cilena Teresa de los Andes, «Dio è gioia infinita». Non solo Dio è bellezza, come ripete sempre più frequentemente la teologia moderna, ma è gioia.

E non solamente è gioia, ma è proprio di Dio dare gioia. L’Alleanza è manifestazione esplicita di tale volontà divina di condivisione della gioia; essa avviene in vista di essa. Perché Dio non può godere da solo né sopporta la visione della sua creatura triste. Dunque la gioia è anche modo di essere, realtà interiore e manifestazione esteriore di colui che crede in questo Dio. Con mille ragioni per essere felice. E mille inviti a vivere così, e a manifestare questo modo di essere e di relazionarsi dei credenti, come appare nel Primo e nel Secondo Testamento.

Se diamo uno sguardo alla società in cui viviamo ci accorgiamo che c’è ben poca gioia.  I giovani sono i primi a sentirne la mancanza, ad avvertire il vuoto, l’insoddisfazione. Sono in aumento i suicidi. Eppure nella nostra cultura ci sono tante promesse di gioia, legate soprattutto al possesso dei beni. Ma sono promesse false. Per di più spesso non si si sente più nemmeno l’esigenza di accostarsi a Dio, di cercarlo. Certe pratiche religiose sono fatte più per abitudine che per convinzione.

Da un lato, come può parlare di felicità la Chiesa, coi suoi divieti, le sue penitenze e la croce come suo simbolo, a una società del benessere, dello sballo e delle emozioni estreme? Dall’altro, è esattamente l’attenzione a questo mondo odierno che ci fa scoprire come la felicità oggi sia diventata uno stress, un obbligo continuamente ribadito da mass media e pubblicità in un mondo ove l’ottimismo serve a indurre al consumo, e quanta tristezza profonda vi sia dietro una gioia superficiale e falsa, artificiale e passeggera, ove non si sorride quasi più, e il ridere – tutt’al più – è diventato rito televisivo collettivo e ripetitivo, di fronte alla solita, noiosa e imbecille battuta sul sesso. Inoltre, sempre nella cultura odierna, una volta la felicità era forse troppo lontana, magari rimandata al paradiso ove la cultura risentiva di una qualche radice cristiana; oggi si tenta invece di far credere che si possa raggiungere, a basso prezzo e in tempi brevi, nei nostri giorni sempre più frenetici. Salvo poi vedersela sfuggire di mano per un nonnulla, e doverla riconquistare sempre daccapo.

E allora, se questa è la situazione, i cristiani, uomini della gioia, del sorriso e del buon umore, devono diventare apostoli di essa. E la Chiesa, proprio perché «casa della Parola», deve diventare insieme casa e scuola di comunione nella gioia vera, tanto più umana quanto divina.

Insomma, la gioia è una cosa… seria, molto più di quanto pensiamo.

La vera fonte della gioia è radicata più profondamente, cioè nel cuore stesso, nella sua più remota intimità. Ivi abita Dio e Dio stesso è la fonte della vera gioia»6.

La gioia che ci dà Gesù non è quindi pura sensazione euforica, che passa. E’ una la gioia di cui parliamo, gioia cristiana non è legata alla soddisfazione dei sensi, è ben più profonda e sempre anche inedita.  Vediamo perché.

Tentiamo allora di vedere come radicare e recuperare questa gioia quale parte essenziale dell’identità del credente.

 

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33)

Gesù è venuto ad annunciare il Regno. «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo!» (Mc 1,15). Si tratta di accoglierlo. Il Regno è Gesù. E Gesù – illuminandoci con la via del Vangelo e sostenendo il nostro cammino con la sua grazia – vuole che in noi regni la gioia. Egli stesso ha detto: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Per chi cerca il regno di Dio, cioè Gesù, e vive il suo vangelo, cioè compie la volontà di Dio («la sua giustizia), oltre alla gioia Egli ci dà anche «tutte quelle cose… in aggiunta» (Mt 6,33). In altre parole a chi dedica le migliori energie alla ricerca del Regno e della sua giustizia, Dio ci dà le cose di cui, è un’aggiunta che viene data a chi vive da figlio e fratello.

Ma torniamo alla gioia. Le società occidentali hanno registrato miglioramenti notevoli su alcuni aspetti della vita rispetto a soli 50 anni fa: longevità, possibilità alimentari, cure mediche, accesso all’istruzione, libertà di spostamenti, libertà di scelta, diffusione capillare dei diritti. Nonostante ciò la percentuale di infelicità percepita è – secondo le ricerche statistiche - notevolmente aumentata. Negli ultimi anni la depressione è cresciuta di 10 volte; se un tempo il suo primo episodio si verificava attorno ai 30 anni, ora fa la sua comparsa a 13 anni. L’aumento di ricchezza non ha reso le persone più contente di prima, eppure la corsa al benessere economico rimane un mantra indiscusso, sordo a qualunque smentita[1].

C’è poi chi continua a cercare la felicità nell’autorealizzazione di sé, come carriera al lavoro, affermazione nell’ambito della politica e del sociale, nel narcisismo di chi ricerca il successo, ecc. Sono tentazioni che Gesù ha vinto nel deserto prima di iniziare la sua missione pubblica. Sono illusioni.

C’è anche chi ha cercato di  eliminare lo stato d’animo speculare alla felicità: la tristezza. Così, ad esempio, modo R. Nozick, un filosofo della politica, ha ipo­tizzato la creazione di una macchina capace di dare sensazioni gra­devoli su richiesta; eppure, invece di provare gioia, «collegarsi alla macchina è una specie di suicidio. […] Non c'è alcun contatto vero con una qualsiasi realtà più profonda, per quando se ne possa simu­lare l'esperienza. La macchina non soddisfa il nostro desiderio di essere in un certo modo»[2]. Una situazione piacevole ma artefatta finisce per spegnere il gusto di vivere.

La gioia, allora, va cercata nella giusta direzione. Gesù ce l’ha chiaramente indicata: cercare il Regno, cercare Dio e la sua volontà, vivere da figli. E se non abbiamo tale gioia Gesù ci dice: «convertitevi e credete al vangelo!». Ce lo dice anche indicandoci la condizione essenziale: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna». Cioè, paradossalmente, l’uomo si realizza ed è felice non nell’autorealizzazione, ma nella trascendenza di sé.

La gioia è possibile solo come conseguenza di una tensione di vita che conduce l’individuo fuori del proprio io, verso l’altro, verso ciò che è vero-bello-buono, verso il Regno, nei termini di Gesù. Allora la gioia gli sarà data – non è solo un effetto psicologico, è un dono dall’alto[3] – come un bene non cercato per sé. È in fondo, di là dell’apparenza, la logica del chicco di grano che cade a terra e muore, e alla fine produce molto frutto (Gv 12,24)… Ed è felice, ci è lecito pensare!

Capiamo allora i motivi per cui la gioia non la si trova: perché la si cerca male, nel modo sbagliato, facendone lo scopo immediato del nostro agire, o perché la si cerca per se stessi (ignorando l’altro o non cercando abbastanza e prima di tutto la sua gioia, e dunque dimenticando che la gioia è relazionale), o perché la si cerca per se stessa, come sensazione positiva, di relax e benessere psicofisico.

Al contrario la gioia, specie quand’è duratura e profonda, svela che il cammino di ricerca di senso (o del tesoro della vita) sta andando nella giusta direzione. Quando la gioia è stabile e intensa, anche se pacata e discreta, o quando resiste alle difficoltà della vita e dà la forza di affrontarne le intemperie, sta a dire che quel cammino è andato nel verso giusto. La gioia è anche segnale autenticante, insomma, del proprio itinerario di crescita, non è solo sensazione passeggera o stato d’animo, magari legato al carattere, più o meno innato o predisposto in tal senso.

 

«Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17)

Ed ecco un motivo profondo per gioire anche quando le cose non vanno come noi vogliamo, come ci aspettiamo. Perché spesso siamo arrabbiati con la vita. «La vita non è stata buona con me, da essa ho ricevuto più dolori che gioie... Non sono stato abbastanza compreso dagli amici, o aiutato dalla comunità... Ho anche sbagliato e realizzato poco, ma neanche ho ricevuto quel granché nella mia esistenza...». Sono frasi di persone credenti o consacrate al Dio della vita, ma in rotta con la vita. Certamente non si può pretendere di consolare con le solite pillole pseudo-rassicuratorie (tipo «c’è chi sta peggio di te» o «bisogna accontentarsi, qualche guaio è successo a tutti»), e neppure con la pillola «escatologica» dell’al-di-là che non ha niente in comune con l’al-di-qua («coraggio, la gioia non è di questo mondo, godremo solo nell’altro, dove finalmente sarà fatta giustizia!»). No, una certa gioia di vivere fa già parte del Regno quaggiù. Ed è gioia vera, frutto d’una percezione realistica della vita, non legata solo a ciò che abbiamo raggiunto con le nostre forze (perché sarebbe ancora una volta un’autoaffermazione), né legata alla circostanze favorevoli o meno, ma al nostro essere figli Dio, amati, e al nostro rispondere all’amore di Dio con il nostro sì all’amore di ogni giorno.

Quella voce che risuona da fuori ci vuole coinvolgere nella gioia stessa di Dio, che -  come per Gesù al Battesimo nel Giordano (Mt 3,17) e nell’episodio della Trasfigurazione (Mt 17,5) - si compiace delle nostre scelte, della nostra scelta rinnovata di vivere da figli nell’amore, nel dono sincero di sé.

Gioia è relazione, è sentire queste parole, e sentirle ognuno come rivolte a sé. Sentire che il Padre si compiace dei miei sforzi, del mio impegno, della mia rettitudine di cuore, delle mie scelte. E ci indica come modello il Figlio: ecco perché alla Trasfigurazione aggiungerà: “Ascoltatelo”.

 

«C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35)

Il paradosso del dono esprime il paradosso della felicità, più volte riscontrato: essa può giungere soltanto in sovrappiù. Quando si dona a qualcuno, si sperimenta una soddisfazione che non può essere paragonata ad alcun guadagno materiale: la gioia del dare non conosce confronti.

Kierkegaard notava in proposito: «La porta della felicità si apre verso l'esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla sempre di più»[4]. Quanto più si cerca di possedere la feli­cità tanto più essa diventa sfuggente e irraggiungibile. La si trova, invece – come già ditto sopra - nel dono di sé. Ed è sempre possible vivere il dono di sé, anche quando non si dona qualcosa. Per esempio dando il nostro tempo, l’attenzione, ascoltando con amore i problemi, le preoccupazioni, le sofferenze dei fratelli. Come pure valorizzando l'altro. «Si dice che Warden Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi. La gente ha bisogno di sentirsi necessaria»[5]. Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, spesso vengono relativizzate; inoltre il fatto di aver fatto del bene agli altri ci fa del bene, ci conferma nel nostro essere figli di Dio; e per di più si gioisce della gioia degli altri.

 

«Il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4)

Un vangelo molto illuminante che ribadisce quanto abbiamo sopra detto, è quello nel quale Gesù raccomanda al credente non tanto un certo tipo di comportamenti, tutti molto buoni in sé (elemosina, preghiera e digiuno), ma una motivazione coerente alla loro origine (cfr. Mt 6,1-6.16-18). È una chiarificazione importante, perché ci può aiutare a capire dove sia il nostro cuore o il tesoro per il quale godiamo.

Il Maestro qui parla a credenti, a persone che vivono e testimoniano la propria fede con atti corrispondenti: credenti praticanti, che soccorrono il povero, fanno digiuno e pregano il Padre che è nei cieli. Verrebbe da dire: meglio di così!? E invece non basta. Occorre fare tutto ciò con un atteggiamento preciso: senza «suonare la tromba» né «sfigurarsi la faccia», come dice con immagine molto colorita Gesù, né assumendo pose che attirino l’attenzione altrui (come «pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze»). Costoro si comportano così per farsi vedere e ammirare dagli uomini, e forse ci riescono, se gli va bene, ma in tal modo – dice sempre il Maestro – «hanno già ricevuto la loro ricompensa», dagli uomini ovviamente, consistente nell’apprezzamento immediato, di solito non definitivo, e che va di volta in volta riguadagnato, spesso anche faticosamente (con spreco inverecondo di energie). Ma è ricompensa o gioia da poco poiché dura un attimo ed è superficiale, è subito bruciata, perché non apre al mistero della dignità della persona, non ne raggiunge la dignità radicale né dà alcuna sensazione benefica definitiva (dal punto di vista della stima di sé), ma anzi normalmente aumenta ancor più il bisogno, come ben sappiamo, del consenso degli altri e dell’applauso, dell’audience e dell’indice di gradimento, fino a renderne dipendenti (come sempre più spesso succede pure a chi annuncia il vangelo in una società come quella di oggi, ove si è qualcuno solo se si è visibili e conosciuti da tutti).

Per questo il Signore suggerisce un atteggiamento esattamente contrario: fare elemosina, orazione e digiuno nel segreto, con questa motivazione: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Perché la gioia cristiana abita «nel segreto» dell’intimità con il Padre Dio, quello è il suo “luogo”. O rappresenta esattamente la ricompensa da parte di Dio per aver agito «nel segreto», cioè rettamente, cercando solo il suo volto. Il Padre che apprezza la trasparenza di chi fa il bene non per secondi fini, ma semplicemente perché attratto dal bene, anche quando nessuno l’applaude. Gesù ci rivela qui un Dio che si svela solo a chi cerca Lui solo e ha imparato a intercettare il suo sguardo, sguardo dolcissimo e penetrante, che dona alla creatura la certezza di una positività definitiva, le fa sentire un amore che l’avvolge tutta («lo ricompenserà»: azione che continua nel futuro e dà stabilità nella percezione positiva di sé).

Il cristiano è esattamente colui che ha imparato a godere di questo sguardo poiché si ritrova in quegli occhi, o è colui che trova la sua gioia nello stare – da solo – di fronte a Dio e nel lasciarsi da lui guardare, e cerca spesso tale sguardo come ciò che dà un senso alla vita e a tutto quel che fa, senza più bisogno di diventare importante o di cercare visibilità o di compiere cose grandi che facciano colpo e gli attirino consensi. Se Dio è colui che «è» nel segreto, anche il figlio suo ama stare e vivere nel segreto, non farsi notare né cercare le luci della ribalta, per dare invece importanza anche alle cose piccole, quasi avere il culto del piccolo e dei gesti semplici perché in essi è più facile cercare e trovare Dio solo… Non per falsa umiltà né facendosi violenza. Ma perché la sua gioia è nell’incrociare gli occhi di Dio!

La gioia dunque, ribadiamo anche ora, è relazionale, è essere guardati da un occhio amoroso, qualcosa che si riceve, dunque. Ma è anche qualcosa che raggiunge la persona alle fonti dell’io, e che la stessa avverte molto in profondità dentro di sé, nella sua intimità più intima e personale, ed è sensazione profonda e discreta, serena e sicura: relazionale al massimo grado e pure del tutto personale.

Colui, invece, che non ha sperimentato questa gioia o che non ha fatto crescere in sé tale tipo di sensibilità, è condannato a elemosinare come un accattone l’attenzione e il plauso altrui. A volte sembrando vanitoso ed esibizionista. Mentre, in realtà, è “solo” disperato.

 

«Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20): gioia vera e gioia falsa

Gesù si rivolge qui a una precisa categoria di persone, gli apostoli e annunciatori del vangelo, come singoli e come comunità, spesso tentati di cercare la gioia nel posto sbagliato, o in modo falso e illusorio.

Le tentazioni della falsa gioia. Potremmo dire che con queste parole Gesù, almeno implicitamente, invita a riflettere sulle tentazioni della falsa gioia, tentazioni che seducono il singolo credente, ma anche la vita consacrata e la Chiesa come organismo sociale sempre tentata di cercare una certa sua affermazione di fronte al mondo. E qui ne abbiamo un esempio.

I settantadue sono appena tornati da un’esperienza apostolica «pieni di gioia» (Lc 10,17) per i loro successi, perché sta andando tutto meravigliosamente bene; Gesù conferma l’evento, fors’anche compiaciuto, ma si premura, creando in loro un salutare dubbio, di ricordare a ognuno che fonte della vera gioia dell’apostolo non sono le imprese apostoliche, il consenso della folla o dei vari poteri, i numeri di quanti ti seguono o l’entusiasmo di chi ti applaude, né la spettacolarità degli interventi che attirano le folle e nemmeno una certa efficienza e riuscita con relativa “resa” dei nemici (Satana compreso…), ma tutt’altra cosa, da Gesù espressa con linguaggio figurato-metaforico: «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli». Altrimenti è gioia falsa, effimera e inconsistente, anzi, diabolica.

Il «nome» nella Scrittura è l’identità profonda della persona, e i nomi di coloro che Gesù ha scelto sono «scritti» in cielo: ovvero l’identità della persona non poggia su qualcosa di vago e instabile, di esteriore e apparente, ma è affermata e scritta in modo definitivo nella sua positività, poiché è scritta «in cielo», e il cielo è il simbolo della perennità, in opposizione alla precarietà della terra. Dio, insomma, non solo parla e dice la propria gioia su di noi, non solo ci guarda nel segreto della sua compiacenza illimitata incrociando il nostro sguardo, ma anche «scrive» sul suo cuore il nostro nome, per custodirci nella sua gioia, o proteggerla lui stesso.

Ancora una volta la gioia, dunque, appare legata a una prospettiva di verità e bellezza, e alla corrispondente capacità di coglierla su di sé e dentro di sé, o – come abbiamo detto – alla sensibilità con cui uno ha imparato a godere della verità e del suo splendore. E la verità è che i nostri nomi sono scritti nei cieli, ovvero che la nostra identità è già positiva e al sicuro, poiché è «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3), è custodita con cura dal Padre, la dignità e positività del credente  è legata a lui, all’essere creatura sua, da lui scelti, pre-diletti, chiamati, benedetti…, ci ha «scritti» sul palmo delle sue mani, con l’inchiostro indelebile dell’amore per sempre. Più forte di ogni contrarietà o negatività, insuccesso o fallimento, prima che potessimo sognare di meritarcelo.

Non è soddisfazione solo umana; è altra la gioia che il Signore ci promette e ci dà. Se la nostra identità è «nascosta con Cristo in Dio», lo è anche la nostra gioia.

La gioia dell’ultimo posto. C’è una bella immagine di credente particolarmente eloquente, in tal senso: il beato Charles de Foucauld, piccolo fratello di Gesù. Egli cercò ostinatamente l’“ultimo posto” e, di fatto, ha vissuto una vita da perdente, sul piano dei risultati concreti. Durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa fu Nazareth il luogo che più lo impressionò: non si sentiva chiamato a seguire Gesù nella sua vita pubblica; è Nazareth che lo colpì nel più profondo del cuore. Voleva imitare Gesù silenzioso, povero e lavoratore. Voleva seguire alla lettera la parola di Gesù: «Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (Lc 14,10). E più ultimo posto di quel villaggio sperduto in pieno deserto certo non avrebbe potuto trovare. Lo si sarebbe detto un fallito, dal punto di vista del successo umano, se pensiamo che De Foucauld non riuscì a fondare in vita la congregazione che pur voleva fondare, quella dei “Piccoli fratelli del Sacro Cuore”, riuscì appena a far riconoscere l’associazione di fedeli, che contava un numero minimo di aderenti. Solo dopo la sua morte avverrà la fioritura. La diffusione dei suoi scritti e la fama circa la radicalità evangelica della sua vita hanno fatto sì che nascessero, nel corso degli anni, ben 19 differenti famiglie di laici, preti, religiosi e religiose che vivono il vangelo nel mondo seguendo le sue intuizioni. Eppure quel suo volto umilmente radioso riproduce lo splendore del Risorto, lo sguardo luminoso e penetrante, il timido sorriso delle labbra, il capo leggermente inclinato a sinistra quasi a ritirarsi…, sembra la traduzione in lineamenti umani di Gal 5,22: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace…».

Potremmo allora, a questo punto, tentare di definire così, in sintesi, la differenza tra gioia vera e gioia falsa: la prima è «ricevuta» da Dio, come una partecipazione alla sua gioia, la seconda è legata a situazioni fortunate per il soggetto; dunque la prima è profonda, la seconda superficiale; la gioia vera è legata all’identità radicale della persona, quella falsa e ingannevole all’apprezzamento eventuale delle sue prestazioni; la gioia sana e duratura è dono non intenzionalmente cercato, chi la vuole a tutti i costi rischia di cadere nello stress e tensione di felicità; gioia vera è certezza stabile, gioia falsa è sensazione passeggera e anche incerta; la prima è pacata e discreta («nascosta in Dio»), la seconda è chiassosa e nervosa.

«In sua voluntate è nostra pace». Infine, mi pare che questo avvertimento di Gesù ai settantadue, reduci dall’apostolato glorioso, sia un mettere in guardia da un’altra analoga tentazione, quella di cercare Dio, e la gioia, non solo nella gloria e nel successo, ma pure nello straordinario, per imparare invece a scoprirlo nel semplice, quotidiano e normale compimento della sua volontà. Il credente ha appreso a godere di fare e nel fare la volontà di Dio; per essere contento gli basta sapere che la sta compiendo, nel posto e nel ruolo che altri gli hanno affidato, con fratelli che lui non ha scelto e da cui non è stato scelto… Non sarebbe egualmente in pace e felice se tutto ciò fosse frutto delle sue proprie macchinazioni, raggiri, condizionamenti, sottili imposizioni della sua volontà, furbe manipolazioni… Che potranno anche dare al soggetto la sensazione soddisfatta di aver ottenuto ciò che voleva o l’illusione compiaciuta di essere “qualcuno” se può imporsi sugli altri, fino a goderne per un po’, ma non il gaudio intenso di quella pace che ti canta in cuore perché sai di aver fatto quel che Dio vuole, «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2), fidandoti di lui sino al punto di fidarti pure delle sue (imperfette) mediazioni. Questo è gaudio pieno, che riempie la vita, anche se silenzioso e modesto, perché viene da Dio, il quale non vuole semplicemente dei figli obbedienti, ma dei figli felici, e tali ci rende la sua volontà e il compimento di essa.

Grande maturità psicologico-spirituale è dunque quella di chi può in tutta verità pregare così: «Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene… Nella tua volontà è la mia gioia» (Sal 118,14.16); o che sempre rivolto a Dio può asserire, come suggeriva un vecchio detto spirituale, di essere felice perché «Voglio quel che tu vuoi, voglio come tu lo vuoi, voglio perché tu lo vuoi, voglio finché tu lo vuoi».

 

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44)

In questo notissimo brano evangelico, come in quello successivo (della perla preziosa) la gioia è presentata come la reazione interiore alla scoperta del «tesoro», che è esattamente questa realtà centrale per la persona e per la sua identità. Ma in realtà la gioia è ciò che accompagna tutto il percorso del credente che cammina verso il Regno, in tutte le sue fasi, come ciò che lo rende percorso di libertà. Vediamo.

All’inizio la gioia (la gioia di chi cerca). Anzitutto le due parabole, con le quali Gesù ci racconta il Regno, parlano di un uomo in ricerca, implicitamente la prima parabola, esplicitamente la seconda. Ora se un uomo cerca vuol dire che spera di trovare, anzi, se spera vuol dire che “crede” e, se crede in Dio, la sua fede-speranza gli dà certezza di trovare: per questo si dà da fare a cercare, è libero di cercare. E dunque è una ricerca che implica la gioia, una gioia iniziale, quasi embrionale e non ancora manifesta, ma presente nel profondo del cuore, perché conseguente alla fiducia che il credente ripone in Dio, quel Dio che è mistero buono, non enigma impenetrabile, e si lascia cercare-trovare. È la gioia di cui parla il salmista: «Esultino e gioiscano quanti cercano il tuo volto, Signore» (Sal 39,17).

Per questo motivo cerchiamo Dio, e cercare Dio è già fonte di gioia grande. Cercarlo, ovvero pregare, vivere alla sua presenza, desiderarlo, abitare nella sua casa, ma anche solo bussare alla sua porta, chiedergli il pane di ogni giorno, nutrirsi della sua parola, rivolgergli la propria parola, non solo per lodarlo ma anche per dirgli la propria pena o il disappunto, persino la disperazione, stare con lui, anche quando sembra più «torrente infido» che amico dolcissimo, e lo stare assomiglia a una lotta…

È la gioia dell’orante, poiché la preghiera è la prima naturalissima espressione di chi cerca, e scopre che il suo cercare è già un trovare. Senza tale gioia si possono anche dire un sacco di orazioni ogni giorno senza pregare mai, o riducendole a “pratiche di pietà” imposte da qualcuno o da qualche regola, e da sbrigare in qualche modo, pura burocrazia del funzionario del divino, fino a stufarsene.

Alla fine la gioia (la gioia di chi trova). Colui che trova il tesoro nel campo è così «pieno di gioia» per la scoperta che non esita un attimo a liberarsi di tutti i suoi averi per acquistare il campo.

La cosa interessante è proprio l’intensità di questa reazione, che porta a fare scelte, e scelte totali e determinanti: addirittura l’uomo del vangelo «vende tutti i suoi averi» per quel tesoro, ma lo fa con leggerezza, non con sforzo o perché la persona è in qualche modo costretta, né con quella tensione legata alla rinuncia che spesso dà un senso di frustrazione alla vita del seguace di Gesù. No, qui c’è una persona libera, con una passione forte per un tesoro di fronte al quale nessuna cosa al mondo ha importanza e tutto impallidisce. E per questo ha il coraggio di fare decisioni, anche forti, ma con libertà interiore, per amore.

È un punto centrale nella nostra riflessione sul dinamismo della gioia cristiana: la gioia è ciò che ti consente di fare le cose con libertà, in forza di un’attrazione interna, ricca di energia, che dà la forza della rinuncia e ne rende leggero il peso («il mio giogo è dolce e il carico leggero», Mt 11,30).

In tal senso la gioia è condizione previa per fare delle scelte, è “ciò che viene prima”, ma anche quel che le accompagna e le segue è “ciò che viene dopo” come quel che le autentica perché garanzia di libertà. Nessuno, di conseguenza, può imporsi una rinuncia se non per qualcosa che sente più bello rispetto a ciò cui dice di no, né può imporla agli altri se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia rende accessibile a chi la sceglie.

Per questo «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7), perché solo tale modo di donarsi è sincero e appassionato, non costretto né comunque fatto a malincuore (e dunque insincero)…

Sono tantissimi gli esempi che potremmo citare, più o meno noti. Uno piuttosto recente è quello di suor Emmanuelle, la «Madre Teresa del Cairo», questa donna morta a quasi cento anni dopo una vita totalmente dedicata agli altri, giudicata per due anni consecutivi – lei, alta e asciutta, con quel sorriso che le illuminava il volto segnato da rughe sottili e il vestire dimesso – come la donna più interessante dai francesi, per l’azione umanitaria, l’altruismo, la compassione e la solidarietà manifestate nella sua lunga vita. La sua massima felicità, infatti, era stata l’inaugurazione di un liceo per ragazze povere nella bidonville del Cairo. Ma all’origine della sua dedizione, e della sua gioia, riconosceva la beatificante tensione della ricerca «in Dio di un amore duraturo e senza limiti…, che avrei portato a migliaia di bambini messi da parte dal mondo».

 

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt 5,13). Il rischio di perdere la gioia

C’è il forte rischio di perdere la gioia. A causa nostra; ad esempio perché perdiamo lo slancio di vivere nel bene, perché quando gli altri ci offendono ci chiudiamo in noi stessi, ecc. Ma ci sono anche motivi che ci vengono anche suggeriti da colui che è il Tentatore, ed è sempre pronto a rovinare l’opera del Signore in noi. Ne cito alcuni, per capire come certe volte ci lasciamo tentare, facendo nostre le sue “ragioni”. Il nemico, ad esempio:

ci presenta cose che ci turbano. Oscurità e turbamento, inquietudine e agitazione continuano, dunque, a essere le armi di satana. Ci fa dunque dubitare della bontà di Dio, fa di tutto per diminuire in noi la fede come abbandono in Lui e la speranza.

ci spinge ad inorgoglirci perché abbiamo ricevuto delle consolazioni e/o delle illuminazioni, al punto che ci sentiamo superiori agli altri. E magari li critichiamo.

● ci porta, poco a poco, ad adattarci alle “comodità”: perché, infatti, essere così rigoristi, così ascetici? Così si cade nella mediocrità e nell’ozio…

ci fa credere che è sufficiente attenerci all’osservanza esterna (per i religiosi quella stabilita dalle regole), accostandosi anche all’Eucaristia con leggerezza e superficialità, e quindi senza cura dell’interiorità. Così ci sembra di essere a posto… ma sempre più vuoti nel cuore.

● Un altro modo con il quale il Nemico – con i suoi inganni – ci trascina verso il male, è evidente in chi perde il tempo a disquisire su astratti principi di diritto, di giustizia e anche di carità, che a nulla o a poco servono per la soluzione di casi concreti, perdendo così di vista l’impegno per l’agire concreto;

● Non poche volte, facendo leva sulle sane esigenze della natura, il demonio propone di curare la salute, avere il necessario per vivere con digni­tà, decoro e anche gioia, conservare il buon nome, ecc., ma... in maniera da sfrenare tali sane tendenze, fino a fare cadere nella concupiscenza, per cui si diventa salutisti, gelosi, invidiosi, insofferenti, sospettosi.

● Quando una persona è generosa, impegnata, lo spinge a a scegliere il meglio in sé (ma cos’è in realtà?) separandolo dal resto. Gli esempi in questo campo sono infiniti: è in nome del meglio che nelle comunità e nelle famiglie ci si divide, si litiga e si uccide lo stare insieme. Già fin dall’inizio è questo che più ha nociuto alla Chiesa, producendo fazioni, eresie, divisioni, lotte.

 

«Beato chi ascolta la parola di Dio e la osserva» (Lc 11,28): l’amore gioioso e liberante della Parola

Per non perdere la gioia abbiamo una luce: quella della Parola come punto di riferimento del desiderio del credente (la Parola come contenuto), e pure del processo dinamico credente che conduce alla gioia (la Parola come metodo).

«La tua legge è la mia gioia…» (Sal 118,77). Legge qui va inteso come parola, parola-di-Dio. Il salmista ci regala in questo salmo espressioni straordinarie che dicono tutto il suo amore per questa parola, come punto di arrivo di un cammino credente. Una parola attesa e lungamente desiderata («precedo l’aurora e grido aiuto…, per meditare sulle tue promesse», Sal 147-148), perché parola di verità («la verità è principio della tua parola», Sal 160), parola amata («sopra ogni cosa», Sal 167) e assieme temuta (Sal 161), mai dimenticata perché parola di vita, che fa vivere («la tua parola mi fa vivere», Sal 50), è in essa che il credente spera («se la tua legge non fosse la mia gioia sarei perito nella mia miseria», 92), è essa che il credente chiede a Dio («fammi conoscere la via dei tuoi precetti», Sal 27).

Oggi, grazie a Dio, nella comunità dei credenti è cambiato il rapporto con la Parola, ma non ancora al punto di divenire un rapporto di amore e di gioia, come conseguenza. In realtà questo è il punto fondamentale, quel che dovrebbe essere il frutto di una familiarità assidua con la Parola, di una consuetudine diaria con essa: l’amore per la Parola. A nulla varrebbe la lectio se non divenisse dilectio. Ovvero amore tipico e specifico per quella realtà misteriosa che è la Parola, al punto di poter dire: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca… Lampada per i miei passi è la tua parola» (Sal 118,103.105).

È un sentimento nuovo, da non confondere semplicemente con interesse per la Parola, intuito spirituale, gusto per lo studio, capacità di esposizione…, perché è inedito e originale per l’uomo amare la parola, esserne innamorati. Ma è il modo, l’unico modo autentico di rapportarsi alla Parola. Come dice Kierkegaard: «Come un innamorato legge una lettera dell’amata, così devi metterti a leggere la Scrittura… La Bibbia è stata scritta per te». Ma questo accade per chi dietro e dentro ad essa impara a cogliere Colui che non cessa di pronunciarla, Colui che si rivela, attraverso di essa, una presenza viva.

La Parola, infatti, è il segno immediato dell’amore di Dio, e del Dio rivelato da Gesù Cristo, un Dio che ha così tanto amato l’uomo da rivolgergli la sua parola, sia inviando il Verbo, sia instaurando con l’uomo un dialogo ricco di segni e simboli, suoni e voci, visioni e storie, parabole e parole, ora dolcissime ora amarissime…, tutto contenuto nel giardino delle Scritture sante, così simile al giardino del sepolcro, ove solo occhi amanti, infatti, sanno riconoscere il volto dell’Amato (cfr. Gv 20,15s).

E questo per la particolare identità del Dio dei cristiani: se questo Dio è relazione, allora «la Parola di Dio è Dio stesso nel segno della Sua parola! Essa partecipa della Sua potenza»: Dio vive, quasi respira o palpita il suo cuore in essa, e la parola ne è la manifestazione spontanea e subito accessibile, è la relazione in atto, è l’evidenza dell’amore che cerca comunione. Per questo san Gregorio raccomanda: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio». Se Dio mi parla vuol dire che mi ama; il suo amore è subito svelato dalla sua parola, qualsiasi essa sia, prim’ancora che dal suo contenuto; ed è amore personale perché è parola rivolta a me, qui e ora, per intessere dialogo con me. Amare la Parola, dunque, è scoprire in essa il Dio amante per lasciarsi da lui amare. E sentirsi nella gioia.

E non solo; amare la Parola è accettare concretamente di entrare in contatto con Colui che mi parla, è iniziare a rispondergli, e con la risposta la più logica e naturale, quella dell’amore e della gratitudine, da un lato, accogliendo e lasciando risuonare nelle profondità del mio piccolo mondo interiore la parola dell’Eterno e – dall’altro – lasciandomi avvolgere da questa corrente di amore che mi abilita a mia volta a parlare, o mi educa a vivere la relazione, a essere pure io relazione, perché così il Creatore mi ha voluto, a dire e ridire a Dio le parole che lui ha detto a me, parole d’amore. Mistero grande!

Qui nasce il credente, come un bambino che impara a parlare in forza dell’amore della mamma e ripetendo le parole della mamma. Ma qui cresce anche l’adulto, quel «bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2), che il Padre-Dio ha reso suo partner e interlocutore.

La gioia del compimento. Il dinamismo che potremmo chiamare mariano è tipico di chi si pone dinanzi alla Parola con lo stesso atteggiamento con cui Maria accolse nel suo cuore la parola dell’angelo, perché si compisse nel suo grembo, determinando la sua gioia esplosa nel Magnificat, ma già evocata dall’annunciatore stesso del messaggio divino: «Rallegrati, Maria, hai trovato grazia…, sei la piena di grazia». La Parola sarà conosciuta nel suo senso profondo solo quando il credente avrà il coraggio di scommettere su di essa, un po’ come Pietro quando decide di obbedire a Gesù che lo invita a fare qualcosa di poco convincente e illogico: gettare la rete, in pieno giorno, dall’altra parte della barca. Pietro lo fa, ma solo «sulla tua parola» (Lc 5,5), perché è essa che glielo chiede. Così la Parola-del-giorno si compie, piano piano diventa chiara e comprensibile, si realizza nella vita di ogni giorno, esattamente come nel grembo di Maria: mistero grande e quotidiano!

 

«Beati i poveri in spirito…, gli afflitti…, i miti…» (Mt 5,3-12)

Gesù, il grande predicatore del regno dei cieli, annuncia le beatitudini. Lui, il beato per eccellenza, vuole che anche coloro che accolgono il Regno siano beati, cioè felici, gioiosi. Ma a quali condizioni? E qui appare la singolarità dell’annuncio: saranno felici e contenti in situazioni, umanamente parlando, per nulla contigue alla gioia, anzi, a essa opposte, almeno apparentemente.

In altre parole, la natura della felicità portata da Gesù non ha nulla in comune con la felicità di cui parla il mondo e che sembra naturale. La felicità cristiana è in certo senso contraria a quella del mondo, viene da altra fonte e ha criteri diversi, procede per altre vie, è un sovrappiù di una vita vissuta in pienezza come figli di Dio.

In questa prospettiva Gesù ci vuole sottrarre da quell’inganno nel quale erano caduti i nostri progenitori, per accogliere nella verità la gioia che il nostro cuore desidera e che Egli stesso desidera per ciascuno di noi.

Quale è stato l’inganno nel quale sono caduti i progenitori? È – lo ricordiamo brevemente – la pretesa di trovare la propria sazietà, realizzazione, gioia, nel prendere da sé il frutto dell’albero. Il discorso del serpente è apparso suggestivo ai progenitori perché ha toccato i sentimenti, il senso del limite e la relazione con l’Assoluto. Significativa è la descrizione delle risonanze interiori al discorso del serpente, che precedono la scelta peccaminosa: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6).

Il testo della Genesi pone come conseguenza del peccato la morte: «Qualora ne mangiassi moriresti» (2,17). Questa annotazione, in apparenza smentita dai fatti, rivela invece alcune dinamiche paradossali dell’agire umano di ogni tempo. Essa dice anzitutto che il peccato non porta mai ai risultati sperati, ma a una deprivazione delle proprie possibilità di vita. Il seguito del racconto precisa tuttavia che si tratta di una esperienza ben più complessa e articolata della mera morte fisica: la morte simboleggia la punizione che l’uomo dà a sé stesso, essa accompagna le sue azioni, i progetti, i pensieri, gli affetti. Segni chiari di tale morte sono proprio – come insegna anche sant’Ignazio – oscurità, tormenti, inquietudini, tristezza, accidia, disperazione.

Al contrario la beatitudine, la felicità, si realizza in colui che vive, come figlio, nell’amore, alla sequela del suo Signore. E’ una gioia “paradossale”, perché non toglie le contrarietà e le sofferenze: è la gioia concessa a chi, all’interno di tali situazioni, fanno esperienza dell’incontro con il Signore e del  suo amore.

Il Maestro qui vuole dire che l’autentico credente è colui che in tutte quelle situazioni in sé negative (persecuzione, calunnie, ingiustizie, sopraffazioni, violenze…) ha scoperto la felicità, o ha imparato a sperimentare – in fondo ad esse – un’insperata e singolare presenza di Dio. Cristiano è colui che lentamente è cresciuto in questo sorprendente apprendimento esperienziale: ha imparato a godere proprio laddove l’uomo di solito non può che soffrire; a incrociare lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine o dell’umana ingratitudine; a sentirsi da lui particolarmente custodito proprio quando si è abbandonati e traditi; prezioso ai suoi occhi quando non conti niente per nessuno; figlio suo pre-diletto quando la vita è violenta e chi hai amato ora ti si rivolta contro…. Al punto che questa esperienza è divenuta sapienza, nel senso latino del verbo sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

C’è del paradosso in tutto ciò, ma solo fino a un certo punto: è già l’intuizione psicologica a ricordarci che la verità è spesso fatta di opposti, e che il senso pieno della vita lo sperimenta solo chi ha il coraggio di affrontare assieme le polarità contrastanti dell’umano esistere, ove l’una polarità convive con l’altra e ne ha bisogno per essere correttamente compresa, la illumina e ne è illuminata. Per questo, ad esempio, colui al quale le cose vanno sempre bene, stimato e benvoluto da tutti, senza problemi e sempre sull’onda del successo…, come potrà sperimentare la fame e sete di Dio, e poi la beatitudine corrispondente? Ma anche su un piano solo umano chi non ha mai assaggiato la solitudine che ne sa dell’intimità della relazione? Chi non ha provato l’abbandono o persino la disperazione come può rivolgersi a Dio e pregarlo come il conforto unico, l’amico sicuro, la speranza rocciosa, con la gioia che ne deriva? O pure chi non ha toccato il fondo della propria debolezza, come potrà scoprire la potenza della Grazia, o vantarsi addirittura della propria debolezza («quando sono debole è allora che sono forte», 2Cor 12,9)? Chi non ha mai rischiato di “annegare” nella constatazione della propria impotenza o nella sconfitta della propria presunzione, come potrà gridare a Dio nella verità: «Signore, salvami!»? (cfr. Mt 14,30). Quanti salmi raccontano la disfatta umana personale a vari livelli, da quello sociale-relazionale a quello psicologico e persino morale, come luogo imprevisto di grazia, come sorprendente inizio di un cammino nuovo, come contatto con un volto inedito di Dio, come purificazione del cuore e della mente, come salvezza e, infine, come esperienza di una gioia non solo umana!

La prova, in tal senso, è il marchio autenticante la gioia cristiana, una sorta di conditio sine qua non, per cui non è gioia cristiana quella che a lungo andare non viene autenticata e garantita dal passaggio provvidenziale della prova. Prova come categoria biblica, che non ha risparmiato la vita di alcun credente «amico di Dio», lungo la quale è cresciuta la fede di Abramo e dei nostri padri nella fede, o della quale ringraziare Dio perché segno del suo stile inconfondibile, perché così «ha fatto coi nostri padri» (Gdt 8,25); prova non come test per verificare la fede, ma come occasione di crescita nell’amore, prova come strumento di cui Dio si serve per chiederci qualcosa che noi non avremmo mai avuto il coraggio di sacrificargli spontaneamente. Per questo la prova è anche scuola di apprendimento della gioia, di una gioia nuova. Senza la prova, infatti, o non c’è gioia, o sarebbe ancora una volta debole e insignificante, vecchia e instabile e non credibile.

Allora la fede diviene sofferta e combattuta, ma solo allora è vera fede, poiché è passata attraverso la lotta con Dio. Prima Dio era conosciuto «per sentito dire» (Gb 42,5), ora il credente può dire di averlo visto coi propri occhi. Ed è passaggio indispensabile non solamente perché solo una fede sofferta diviene fede forte e davvero personale, vissuta sulla propria pelle, ma anche perché solamente chi soffre la propria fede può giungere a goderne, a sperimentarla come ciò che alla fine dà luce e pienezza alla vita, come felicità. Tale fede e solo una fede provata e goduta, a questo punto, può essere condivisa, coi fratelli credenti, anzitutto, per crescere assieme, e poi annunciata con coraggio e creatività a chi non crede.

 

«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7): la gioia del perdono

La gioia di Dio. Gesù ci rivela quanto il Padre ha a cuore la nostra vita. E quanto Gesù stesso ha a cuore ciascuno di noi, giustificando così il so accogliere i peccatori ed offrire ad essi il perdono. Ce lo dice con la parabola della pecora smarrita. Nel racconto di Gesù stupisce il fatto che il pastore abbandoni il proprio gregge per andare in cerca della pecora che,  testarda e disobbediente al pastore, o desiderosa di autonomia, o tentata da chissà quali altri pascoli, o semplicemente distratta, si è persa. Una corretta impostazione economica non prevede sempre i possibili “scarti di produzione”?

Per di più non è concepibile neppure il fatto che il pastore abbandoni il suo gregge nel deserto, ove le pecore sono esposte, senza alcuna protezione, alla voracità dei lupi o all'assalto dei ladri e briganti; piuttosto doveva affidarlo ai pastori che condividevano con lui il recinto (Lc 2,8), oppure sospingerlo dentro una grotta! Queste pecore avrebbero tutte le ragioni per lamentarsi, come avrà ragione il figlio perbene quando vedrà il padre ridividere il patrimonio con il figlio prodigo ritornato!

Infine come può Dio essere più contento di un solo peccatore che ritorna a lui che di novantanove giusti che ogni giorno gli obbediscono con fedeltà, magari a prezzo di grandi sforzi e sacrifici?

Tutti questi paradossi della “ingiustizia” di Dio, vogliono in realtà sottolineare che ciascuno di noi è preziosissimo agli occhi di Dio. Nessuno deve sentirsi escluso dall'attenzione di Dio. Dio ama ciascuno di noi come se non esistesse nessun altro, e continuamente ci cerca, ci conquista, ci seduce. Adamo ed Eva dopo il peccato si nascondono dal Signore, ma Dio li viene a cercare: “Il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: Dove sei?” (Gen 3,8-9). E' Dio che chiama Abramo (cfr. Gen 12,1-3), che si rivela a Mosè (cfr. Es 3,1-22). E' Dio l'Amante che nel Cantico cerca l'amata (cfr. Ct 2,8-17; 5,1-2). E' Dio che “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E' Dio che sta alla nostra porta e bussa (cfr. Ap 3,20). Quello di Dio è un amore senza riserva che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell'assoluta gratuità di Dio.

Se ancora noi pensiamo di essere tra i “giusti”, forse dovremo umilmente riconoscere ancora di essere peccatori... di essere quella pecora cercata... Chi è mai davvero “giusto” di fronte a Dio? Qual è l’uomo vero? È colui che ha il coraggio di ammettere la propria debolezza e miseria, le proprie contraddizioni e negatività, gliene dispiace e le soffre dinanzi a Dio, se ne pente e chiede perdono… Questo e solo questo è l’uomo vero, poiché l’uomo è così.

Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento...” (v. 5). Davanti ai nemici Gesù giustifica perciò il Vangelo che annunzia a favore dei peccatori e degli ultimi. Se è vero che il pastore gioisce per la pecorella ritrovata, così è Dio! Gesù, il “pastore bello” (Gv 10,11ss) per ricercare ogni peccatore perduto è disposto a pagare di persona: è la croce. Egli si rallegra per il peccatore pentito! E' contento di perdonare! E, una volta ritrovata la pecora, il perdono è totale: nessun rimprovero, nessuna percossa. La gioia del cuore è tanta che tutto il passato è dimenticato. Egli è il Pastore che si è fatto agnello: ha portato su di sé il peso della croce, cioè di tutto il peccato dell’umanità.

Evidentemente questo atteggiamento del Padre deve riflettersi anche su tutta la comunità cristiana, che insieme  ai loro responsabili, cerca, trova e gioisce per il ritorno dei fratelli. Perciò la comunità ecclesiale – con il suo atteggiamento di fondo profondamente umano nei confronti dei peccatori (come il mangiare a tavola di Gesù con loro, che è il motivo dello sdegno dei farisei – 15,2) – deve far toccare con mano l’amore che il Padre ha per ogni persona.

 La gioia del perdono.  Se Dio è così, anche il credente, chiamato ad avere “gli stessi sentimenti – e quindi anche la gioia del perdono – che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), può provare tale gioia. Perdonare non è facile, ma possibile. E’ l’espressione più alta dell’amore.

Per il non credente sono molto più comprensibili le ragioni per non perdonare, che quelle del perdono. Vediamo quali sono le più consuete “ragioni” del non-perdono.

- Se mi vendico, starò meglio. Si tratta di un pregiudizio frequente in coloro che decidono di rifiutare il processo del perdono, ritenendolo — come notava Nietzsche — una rinuncia alla propria dignità, ai propri diritti, che invece verrebbero riaffermati da quella sorta di giustizia fai-da-te che è la vendetta. In realtà, la predisposizione d'animo ispirata alla vendetta conduce a coltivare atteggiamenti — come il risentimento e la ruminazione interiore — che avvelenano l'animo della persona, esasperandola, fino al punto di non riuscire più a trovare soddisfazione nella vita: «Il “regolamento di conti” che la vendetta promette è spesso più apparente che reale, poiché la perpetrazione di un torto crea una situazione di ingiustizia e disequilibrio che le vittime percepiscono non essere completamente compensata da atti di rivalsa»[6].

Difatti il senso di pacificazione interiore, proprio del perdono, non è paragonabile ai sentimenti provati da chi ha vendicato un torto subìto. Il primo è pacificante, il secondo distruttivo. Si tratta di una differenza confermata, anche sperimentalmente, a proposito del rancore e del risentimento. Rancore, odio sono atteggiamenti distruttivi anche sul piano della salute: tendono a far aumentare la pressione sanguigna, causano stress e pericoli di tipo cardiaco, sono alla base di disturbi psicosomatici legati alla tensione e alla ruminazione interiore (gastriti, ulcere). La decisione di perdonare, invece, si fa sentire anche sotto l'aspetto somatico/biologico. Nel momento in cui ci si pone in questo diverso atteggiamento, si percepisce un cambiamento interiore, avvertito anche a livello corporeo.

L’esperienza, inoltre, mostra che vendetta, anche se realizzata con successo, non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. Infatti si prova il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire.

- Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, come l'empatia, la ristrutturazione cognitiva, il desiderio, la benevolenza. Essi sono indice di una libertà interiore che sfugge al meccanismo di stimolo-risposta, proprio del bambino e delle reazioni emotivamente primitive, ma sa considerare quanto accaduto da un punto di vista più ampio e complesso, notando cose nuove.

- Deve soffrire per ciò che ha fatto. Dietro questa affermazione c'è la credenza, erronea, che rifiutare il perdono sia una maniera di punire l'altro. In realtà accade esattamente il contrario: in tal modo si punisce solo se stessi, torturandosi e impedendo a se stessi di vivere. Non perdonando, ci si illude di esercitare un potere sull'altro, ma di fatto ci si amareggia senza pietà. Cedere questo potere è consentire a se stessi di ricominciare a vivere, di percorrere nuove strade; forse si comincerà anche a capire che l'altro è molto differente da come la fantasia lo raffigurava.

Perdonare è in definitiva un esercizio di realtà, che può far bene all'altro, ma soprattutto a se stessi. A ritrovare la pace. Anzi la gioia. Perché quando il perdono è dato con il cuore, cioè è dato da un cuore liberato dal proprio io e da ogni rancore, partecipa della stessa gioia di Dio.

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[1] Cfr. G. CUCCI, «La felicità. Gustoso anticipo di eternità», in La Civiltà Cattolica, 4000 (2017) 401-413.

[2] R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia, Milano, il Saggiatore, 2008, 64; cfr G. SAMEK LODOVICI, L'utilità del bene: Jeremy Bentham, l'utilitarismo e il consequenzia­lisrno, Milano, Vita e Pensiero, 2004, 206.

[3] Sant’Ignazio di Loyola ci ricorda una verità fondamentale: che è proprio di Dio dare la gioia, la consolazione, la pace nell’anima.

[4] S. KIERKEGAARD, «Aut-aut», in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, 10.

[5] I. YALOM, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1997, 30. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.

[6]      Ivi, 28.

La forza dirompente e distruttiva dell’ira

Nel libro dei Proverbi si mette in guardia il sapiente dalla pericolosità dell’ira, a causa delle terribili conseguenze cui potrebbe portare[1]. È proprio dell’uomo saggio guardarsi dal coltivare l’ira, egli deve piuttosto dominarla[2], per questo viene lodato l’uomo che è «lento all’ira»[3]. Chi è invece preda dell’ira è lo stolto (Pr 14,17.29) che non potrà mai compiere la giustizia in preda alla collera (Pr 14,17; Gc 1,20).

L’ira è l’espressione più alta della rabbia. Quest’ultima, in sé, è una passione in relazione con la facoltà riflessiva e deliberativa dell’uomo. Essa, infatti, è inizialmente accompagnata da una valutazione che indaga la gravità dell’offesa e del male ricevuto. La controprova di questo è data dal fatto che coloro che si trovano privi di ragione, anche temporaneamente, come gli ubriachi fradici, o coloro che sono sotto l’effetto inibitore dei farmaci non sono nemmeno capaci di arrabbiarsi.

Partendo da questa valutazione la rabbia ha di mira, come obiettivo, la giustizia per il torto subito.

Il problema è che la rabbia può degenerare nell’ira; la persona non è più in grado di controllarsi, è totalmente presa da questa passione. Gli autori medioevali amavano soffermarsi su tali eccessi con dovizia di particolari, per mostrare la deformità cui conduce l’ira. Essa fa terra bruciata quando viene lasciata avvampare indiscriminatamente. Si esaurisce, infatti, solo quando tutto intorno a sé è finito in fumo e cenere.

«Il potere dirompente dell’ira trova nel fuoco la sua metafora privilegiata, l’iracondo è come un serpente che vomita fuoco dalla bocca, incendiando tutto ciò che lo circonda; è come una pentola posta su un fuoco troppo forte che fa sbollire tutto il suo contenuto; è come un rovo secco che si accende per autocombustione al solo soffiare del vento»[4].

L’ira è accompagnata da una serie di sentimenti tra loro contrastanti: «dolore, tristezza, desiderio e speranza di vendicarsi… e se la persona che ha inflitto il danno è troppo superiore, non segue l’ira ma soltanto la tristezza»[5].

 

Le conseguenze dell’ira

Il male che facciamo a noi stessi. Gesù paragona l’ira all’omicidio (cfr. Mt 5,21) ma non dobbiamo dimenticare che prima di tutto l’ira è un suicidio, un lento avvelenamento che procuriamo alla nostra esistenza, fino a spegnerla del tutto. Esiste infatti uno stretto legame tra il vizio dell’ira e quello della tristezza; nel momento in cui perde il controllo e la giusta regola l’ira si autoconsuma, diventando triste accidia, si spegne come fuoco di paglia, perché al fondo dell’ira c’è la tristezza. Nel medioevo la personificazione del vizio dell’ira è resa con una figura di un uomo o di una donna che si pugnala. Nel capitello della cattedrale di Notre-Dame du Port di Clermont Ferrand sotto l’immagine dell’uomo che si pugnala si legge la scritta: ira se occidit. Emerge il carattere paradossale dell’ira che sorta come spinta di distruzione verso l’altro diventa causa di annientamento di se stessi. • Il male degli altri. Quando si lascia libero corso all’ira, essa produce frutti spropositati, come l’aggressività, la brama di vendicarsi, la violenza, l’odio, l’omicidio, fino alle rivoluzioni e alle guerre totali. Il terrorismo costituisce senza dubbio uno dei frutti più visibili dell’ira e dell’odio.

Oggigiorno nelle società più ricche si constata una proliferazione preoccupante dell’ira, presente anche negli avvenimenti più banali. Una delle cause del comportamento “trasgressivo e distruttivo” è data dalla noia delle persone, per cui la sempre maggiore facilità ad improvvise esplosioni d’ira si spiega come una sorta di volontà di compensazione, una maniera di sentirsi in qualche modo “vivi”. Altro motivo è dato dall’isolamento sociale o dal carattere delle persone che, se introverse e appartate, con più facilità trascorrono il tempo libero a fantasticare sul modo di vendicarsi per supposti torti subiti. In aggiunta a ciò va considerata la mole di armi messe con troppa facilità a disposizione di tutti, come un invito facile e immediato a far valere le proprie ragioni con mezzi facili ed estremamente persuasivi; come pure il prosperare dei videogiochi, film e romanzi sempre più violenti ed efferati, i quali finiscono per diventare una specie di droga affettiva che richiede dosi sempre più forti per catturare l’interesse. A tutto ciò va aggiunta la crescente latitanza di figure educative ed affettive in grado di integrare le spinte aggressive presenti nella persona, specie nell’età dello sviluppo; tale latitanza, accompagnata spesso da situazioni di violenza familiare, costituisce l’aspetto più grave del dilagare di comportamenti dominati dall’ira.

La relazione con Dio. L’ira inaridisce la vita spirituale. Un cuore abitato dal risentimento nei confronti del proprio fratello non può porsi con verità di fronte a Dio e la preghiera risulta ipocrita e arida; le parole di Gesù a questo proposito sono chiare: “Se dunque tu presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24).

 

La proposta sconcertante della mitezza

«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,3). «E’ un’espressione forte – scrive papa Francesco -, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso a Gerusalemme: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro” (Mt 21,5; cfr. Zc 9,9)» (GE 71).

Il mite è colui che cerca di imitare la personalità di Gesù che dice «imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il Dio di Gesù Cristo fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, è amore che non ama ciò che è amabile, ma rende amabile ciò che ama, perché Dio è mite. Gesù ha pienamente incarnato la mitezza di Dio. La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione. Di fronte al servo che lo percuote, Gesù reagisce con ragionevolezza: «Se ho fatto male, mostramelo, ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). In tutta la passione nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta» (1Pt 2,23). Gesù ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e di pazienza eroica: ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima.

Il mite, come capiamo, non è un soggetto passivo, il debole o lo zerbino. Il mite è una persona mansueta e paziente, interiormente forte che ha il controllo di sé.

Norberto Bobbio, considerato uno dei maggiori intellettuali del secolo scorso, afferma che nel nostro tempo essere miti è una scelta storica di reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere, è la virtù più «impolitica».  In una visione più alta della politica la mitezza, considerata una debolezza, dovrebbe avere invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Il mite è il forte, perché conosce le sue ragioni e le fa valere con fermezza che non è prepotenza o tracotanza. Egli convince, persuade, conduce l’altro ad argomentare, ad avere e cercare il dubbio per far crollare le sue false certezze, le sue verità non riconosciute. Evita le risse, la contesa, la lotta, non perché è pavido o ha paura, ma perché vuole condurre tutti a ragionare, a trovare nella parola, nel dialogo, nella conversazione la soluzione. Cerca sempre la luce nell’altro, nel quale deve far germogliare, maieuticamente, il senso della misura, della medietà, affinché possa essere smorzata la sua tensione alla violenza, placata l’ira. Se scansa il rumore, l’asprezza della disputa, i tumulti egoisti o di gruppo è perché vuole neutralizzare il livore infecondo, la rivolta effimera che vede profilarsi all’orizzonte[6]. 

I miti sono paradossalmente i forti e gli audaci, coloro che sopportano le traversie della vita, senza scoraggiarsi o sentirsi umiliati, coloro che tengono le loro passioni sotto controllo, che non si adirano, che non si vendicano, che non si sottomettono al male, ma lo combattono con pazienza e fermezza, senza perdere la speranza nell’aiuto del Signore. Come appare nella paolina “Lettera a Tito”, i miti sono coloro che non parlano male di nessuno, evitano le liti, sono dolci anche nel rimproverare quelli che si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi. Aiutati dallo Spirto Santo sono dotati di una forza controllata. 

Miti si diventa imparando, con un atteggiamento umile di cuore, a controllare la lingua e i pensieri, a spalancare il cuore alla magnanimità, a pazientare con i limiti altrui, alla capacità di perdonare, alla trasparenza nei rapporti interpersonali.

 

Il possesso pacifico della terra

Ai miti Gesù promette il possesso della terra. Per Israele il possesso della terra promessa era, insieme con la discendenza, «la beatitudine» (cfr. Gen 17,6-8). È una terra che Dio conquista per il suo popolo e quest’ultimo, per possederla in pace, deve adempiere la Legge. «Farai ciò che è giusto e buono agli occhi del Signore, perché tu sia felice ed entri in possesso della buona terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti, dopo che egli avrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te, come il Signore ha promesso» (Dt 6,18-19).

Ma di quale terra parla Gesù nella beatitudine? Non si tratta solo del paradiso; c’è un “già e non ancora”.

• La terra è anzitutto il nostro cuore. Chi sa rispondere al male con la mitezza lo possiede, non si lascia trasportare dalle passioni. Sa mantenere rimanere nella pace e nella serenità. Ma è necessario un cammino, o, meglio, un lavoro di “cura” del proprio cuore. Nella Genesi si narra che Dio affida all’uomo da lui creato il compito di coltivare la terra (cfr. Gen 2,15). Ma – si noti – l’uomo è stato plasmato con l’humus del suolo (cfr. Gen 2,7). Di conseguenza coltivare la terra è anche un segno/invito a coltivarsi. A coltivare il proprio cuore con l’ascolto della Parola di Dio, con la vigilanza, e con l’esercizio delle virtù.• La terra e gli spazi vitali che abitiamo. Tra il possesso del proprio cuore – con compostezza e mitezza – e il possesso della terra (la famiglia, la comunità, il luogo di lavoro, la città, la patria, la politica, l’economia…la natura) c’è una relazione profonda. Perché si “possiede” come dono da accogliere solo ciò che si ama e si coltiva.

La terra posseduta con mitezza è parte del Regno dei cieli. Gesù ha amato la nostra terra, l’hanno amata i nostri santi. Santa Teresa chiamava «paradiso» il suo piccolo convento di San Giuseppe. Ignazio amava quell’angoletto nella terrazza del Gesù in cui stava la piccola panca su cui si sedeva per piangere mitemente guardando il cielo stellato.

Il contrario di possedere la terra è contendere spazi. In ogni contesa di spazi si cela un’assenza di mitezza e un desiderio di potere. Esistono contese aperte e contese attutite, non sempre facili da discernere. Ma le distinguiamo con chiarezza a partire dai loro frutti: quelli che hanno desiderio di potere disputano spazi che poi non coltivano. Conquistano ma non fanno, e non lasciano fare ad altri. Accumulano territori – lavori, incarichi, responsabilità… –, ma quando non possono occuparsene loro non può farlo nessun altro, perché non hanno creato una squadra e non hanno lavorato con nessun altro. Ciò deriva dalla mancanza di mitezza nel proprio cuore, dal non aver trovato il proprio spazio, il proprio luogo, e quindi ci si dedica a combattere per quello degli altri. E dopo che lo si è conquistato, lo si lascia andare in rovina. Il violento conquista per poi disprezzare e abbandonare. Il mite, se la sua pace non viene ben accolta, si scuote la polvere dai sandali e se ne va in un’altra città, in un altro posto (cfr. Mt 10,14 e parr).

Per questo il Vangelo dice che solo i miti erediteranno e quindi possederanno la terra perché solo loro sono in grado di amarla e mantenerla a beneficio di tutti. Qui si apre un tema di grande attualità oggi: lo sfruttamento e conservazione dei beni della terra. Su questo fronte i miti sono coloro che abitano la terra senza violentarla o deturparla, vivendo in alleanza con essa, sfruttando i beni con coscienza e cura in quanto la terra non è una preda ma un dono di Dio a beneficio di tutta l’umanità.

 

Beati i misericordiosi

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». Se scindiamo la parola in miseris-cor-dare, capiamo che esso significa: “dare il proprio cuore”.

Nell’AT la misericordia divina è spesso collegate con le «viscere», con l’utero in cui il bambino è portato prima della sua nascita. Le viscere - segno di profondità in ogni essere umano, spazio che nella donna esiste in vista dell'altro da sé – designano nell'antropologia biblica il luogo in cui hanno origine i sentimenti più profondi d'amore, quell'amore che si declina come compassione: amore viscerale, intenso, misericordioso. Amore viscerale che Dio prova per l’uomo: «[Così dice il Signore]: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”» (Is 49,15).

• Nei Vangeli vediamo che Gesù ha compatito i peccatori e i sofferenti. La comprensione di Gesù delle nostre infermità si manifesta nella “com-passione”: Gesù com-patisce gli uomini, cioè soffre insieme a loro. Egli fremette di fronte a quanti erano in preda del male (cf. Mc 1,41; 9,22; Mt 20,34) e della morte (cf. Lc 7,13), si commosse alla vista delle folle stanche e affaticate (cf. Mc 6,34; 8,2). Offre loro un aiuto reale ed efficace. Gesù esprime la sua missione nella parabola del buon Samaritano di Lc 10,30-37 (è lui il Samaritano venuto da lontano!). In contrapposizione con il sacerdote e il levita che non si fermano a soccorrere il malcapitato, il samaritano lo fa. I verbi che descrivono l’azione di questo personaggio sono incalzanti:

- “lo vide”. Anche il samaritano vede il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimane una sensazione superficiale: lo spinge ad agire. È proprio vero, l’occhio rivela il cuore: «La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso» (Mt 6,22-23). L’occhio si sofferma su ciò che cattura il cuore: «Ubi amor, ibi oculus», «Dove c’è amore, lì’ si posa l’occhio»[7]. A volte basta anche uno sguardo amorevole, sguardo che non si sofferma su eventuali limiti e difetti dell’altro, anche se presenti e riconosciuti, e nemmeno cerca vantaggi o capacità particolari che ne confermino il valore. C’è una benevolenza nei confronti dell’altro espressa dallo sguardo; l’amato ha un valore unico agli occhi di chi ama non per qualche motivo particolare (intelligenza, aspetto fisico, abilità, simpatia), ma semplicemente perché “è lui”.

- “ne ebbe compassione”. A muovere il samaritano è la compassione, la tenerezza materna (splanchnizomai). Il samaritano è immagine della stessa tenerezza di Dio, la stessa che prova Gesù[8]. È tanto forte e tanto vera questa tenerezza che il samaritano nemmeno pensa a fare spazio a possibili risentimenti o a vecchie ruggini; non si sofferma a considerare che è un odiato giudeo e interviene perché c’è un urgente bisogno; nemmeno lo trattiene il pensiero del viaggio intrapreso e quindi eventuali impegni o appuntamenti. Il momento presente occupa totalmente l’orizzonte dell’interesse.

Significativi sono poi i gesti (sono 10, simbolo di totalità) del samaritano:

- “gli si fece vicino...”. Si tratta di vera vicinanza. Infatti il verbo prosérchomai è scelto per contrastare il precedente doppio uso del verbo “passare a fianco dall'altra parte” (vv. 31-32). Gesù è il Samaritano che si è fatto avanti. Si è candidato nostro prossimo, vuole entrare in contatto con il nostro male e sanarci.

- “gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino...”. Sono gesti semplici che esprimono la concretezza della carità. Il samaritano si improvvisa infermiere e interviene come meglio può, con i mezzi di cui dispone[9]. Poi utilizza la sua cavalcatura come autoambulanza e trasporta il poveretto al “pronto soccorso” improvvisato.

- “lo portò a una locanda (pandokeion)” (v. 34). La locanda è figura di Gesù che raccoglie e ospita tutti. In questa casa chiunque è nel bisogno trova ospitalità, pagata in anticipo dal Samaritano. La Chiesa, come ha fatto Gesù, è chiamata ad essere “ospedale da campo” (papa Francesco) che accoglie tutti.

- “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno” (v. 35). Questa “cura” non è solo occasionale, ma continuata, perdura nel tempo. È l'attenzione che Dio ha per ciascuno di noi: “a lui importa (mèlei) di voi” (1Pt 5,7). Prendersi cura è la tenerezza e la pazienza dell'amore che sa rispettare i tempi dell’altro. Non dobbiamo aver paura della tenerezza! Non dobbiamo essere impazienti! Dove c’è amore c’è la pazienza…

• Inoltre la misericordia di Gesù ha un altro aspetto, che troviamo nella parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32). Il figlio minore ha perso tutti i beni ricevuti dal padre e ha perso pure la sua dignità umana. «La misericordia – come l'ha presentata Cristo nella parabola – ha la forma interiore dell'amore, che nel Nuovo Testamento è chiamato “agape”. Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria morale, sul peccato»[10]. La gioia scaturisce dal “gusto” di aver fatto del bene, di aver aiutato i fratelli a trarre il bene dal male (cfr. Rm 12,21). È la gioia di cogliere quella voce del Padre che, come per Gesù nel battesimo al Giordano (cfr. Mt 4,13-17) e nella Trasfigurazione (cfr. Mt 17,1-8), riconosce Lui suo Figlio Amato. È partecipazione della stessa gioia di Dio per l’uomo che si converte, che ritorna alla vita: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).

Suor Faustina ha descritto molto bene, in una preghiera del 1937, fin dove e a quali profondità una misericordia sensibile e delicata è capace di spingersi, che cosa essa può concretamente significare per un cristiano e che cosa è concretamente capace di realizzare:

«Aiutami, Signore, fa' che i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base delle apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c'è di bello nell'anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.

Aiutami a farà sì che il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.

Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni, in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo e prendere su di me i lavori più pesanti e più penosi.

Aiutami a far sì che i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza. Il mio vero riposo sta nella disponibilità verso il prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo. A nessuno rifiuterò il mio cuore. Mi comporterò sinceramente anche con coloro, di cui so che abuseranno della mia bontà, mentre io mi rifugerò nel misericordiosissimo Cuore di Gesù. Non parlerò delle mie sofferenze. Alberghi in me la tua misericordia, o mio Signore.

Tu stesso mi comandi di esercitarmi in tre gradi della misericordia. Primo: nell'azione misericordiosa di ogni specie. Secondo: nel parlare con misericordia; quel che non riesco a fare con le azioni, devo farlo con le parole. Terzo: nel pregare; qualora non possa comportarmi con misericordia né agendo, né parlando, lo posso sempre fare pregando. Estenderò la mia preghiera fino a raggiungere anche i luoghi, in cui non posso essere fisicamente. O Gesù mio, trasformarmi in te stesso poiché tu puoi fare tutto»[11].

 

La forza del perdono

Gesù ci insegna che dobbiamo perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22), cioè sempre. E con il Padre nostro ci fa pregare: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

Il perdono, oltre a mantenere in pace il proprio cuore, ha la forza dirompente di restituire vita.

Emblematica sotto questo aspetto è la recente sto­ria del Sudafrica, anzitutto la politica di governo adot­tata da N. Mandela all'indomani della sua liberazione, avvenuta nel 1990. Egli trascorse in carcere ben 27 anni, ingiustamente condannato a motivo del suo im­pegno nella lotta contro l'apartheid, un carcere duro, segnato dall'isolamento, dalle intemperie, dai lavori forzati e durante i quali morirono, senza che egli po­tesse neppure vederli, la madre e il fratello, e senza sapere nulla della moglie e dei figli, con cui non riuscì più a riallacciare il legame una volta tornato in libertà. Eppure egli decise di perdonare i suoi carcerieri e co­loro che lo avevano condannato, meravigliando i suoi stessi oppositori. Una volta ottenuta la carica di capo dello stato, fece del perdono la politica di ricostruzio­ne di un paese che era giunto sull'orlo della guerra civile: «Egli dette, sorprendendo tutti, un ricevimento per le vedove dei politici che lo avevano imprigionato e pranzò con il magistrato che aveva sostenuto la sua impiccagione»[12].

Per Mandela il perdono è l'arma più potente a disposizione di un uomo, capace di proteggerlo da ogni male, fino a renderlo invincibile, perché con esso sconfigge il suo più grande nemico, se stesso, mante­nendo salda la lucidità e il controllo di sé.

La vicenda del Sudafrica risulta sotto molti aspet­ti densa di insegnamenti. Nel corso del processo di pacificazione la psicologa P. Godobo Madikizela, membro della Commissione per la riconciliazione in Sudafrica, decise di incontrare in carcere E. de Kock, capo delle Squadre della morte, uno dei maggiori responsabili degli omicidi e violenze che segnarono il periodo dell'apartheid, al punto da essere sopran­nominato dalla gente Prime Evil («il male assolu­to»), per i cui reati venne condannato a 212 anni di reclusione. La Godobo descrive, in particolare, un momento di questo confronto, quando de Kock incon­trò alcune vedove — i cui mariti erano stati assassinati per suo ordine — che gli avevano comunicato il loro perdono: «Quando cercai di capire cosa intendesse con l'espressione “perdonare Eugene de Kock”, una delle donne disse che egli ci fornì molte più notizie di chiunque altro circa la morte dei loro mariti. Aggiunse che volle prenderlo per mano per mostrargli che c'era una possibilità di cambiare, e che lo perdonava, in­condizionatamente. Quando le vidi uscire piangendo, chiesi loro cosa significassero quelle lacrime. “Esse” — mi risposero — “non sono soltanto per i nostri mariti, ma anche per lui”. Questa fu per me una cosa così incredibile, da diventare l'inizio del mio lavoro nel campo del trauma e del perdono».

Al termine di quell'incontro de Kock sembra vacil­lare e riconoscere l'enormità di quanto compiuto: «La sua faccia cambiò; si poteva notare quanto fosse afflit­to; iniziò ad agitarsi, a tremare, la sua voce era rotta. Disse con un sospiro: “Avrei desiderato fare di più che dire `Sono dispiaciuto'. Avrei voluto riportarli in vita. E invece devo vivere con tutto questo”». A quelle parole, stupendo se stessa, Godobo si trovò ad abbrac­ciarlo, provando una profonda pena per lui[13].

Per quanto riguarda l'Italia, non si possono non ricordare gli episodi, per lo più nascosti ma altrettanto significativi, di coloro che decisero di perdonare gli assassini dei loro mariti, figli, fratelli, parenti, amici, durante i sanguinosi anni del terrorismo. G. Bachelet, figlio del professor V. Bachelet, ucciso a Roma dalle Brigate Rosse, in occasione dei funerali del padre volle ricordare i suoi assassini, accordando loro il per­dono, suo e dei familiari, e auspicando il loro ravvedi­mento. Anni dopo, un gruppo di ex terroristi indirizzò un memoriale al p. A. Bachelet, fratello della vittima, in cui riconoscevano di essere stati sconfitti non dalle armi dell'esercito, né dai programmi politici, ma da quel gesto accordato loro, un gesto che aveva frantu­mato la loro ideologia: «Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante il funerale del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevo­cabile [...]. E se abbiamo cercato di cambiare, ciò è avvenuto anche perché qualcuno ha testimoniato per noi, davanti a noi, della possibilità di essere diversi»[14].

Ben presto a questa lettera seguirono degli incon­tri, che con il tempo sciolsero nelle vittime rancori e diffidenze, per lasciare posto a nuovi sentimenti, e suscitarono negli assassini il desiderio di riparare in qualche modo al male compiuto.

 

La gioia dei miti e dei misericordiosi

Quale è la sorgente della gioia, della beatitudine dei miti e dei misericordiosi? Dio stesso. In chi si “sintonizza” con l’agire di Dio, Dio si rivela a lui, si dona a lui. È – lo capiamo bene – una gioia che passa attraverso la “prova”, la fatica di affrontare la violenza con la mitezza, di pazientare di fronte ai limiti dell’altro, di vincere il rancore con il perdono che genera vita. Proprio lì dove molti si fermano nella sofferenza, il credente scopre la singolare presenza di Dio. Al punto che questa esperienza diviene sapienza, nel senso latino di sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

 

--- NOTE ---

[1] Cfr. Pr 6,34; 15,1; 16,14; 19,19; 27,4.

[2] Cfr. Pr 15,18; 22,24; 29,8.11.

[3] Cf. Pr 14,29; 15,18; 16,32.

[4] C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000, 60.

[5] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 46, a. 1.

[6] Cfr. https:// www.avvenire.it/agora/pagine/mitezza; http://www.interessicomunjournal.it/cultura/lelogio-della-mitezza-cuore-nella-ragione/

[7] S. Tommaso d’Aquino, 3 Sent., d. 35, 1,2,I.

[8] In Luca questo verbo compare tre volte: per la risurrezione del figlio della vedova di Naim (cfr. Lc 7,13); per l'accoglienza da parte del padre del figlio prodigo (Lc 15,20) e qui per il samaritano. Tre situazioni di emarginazione e di impurità assoluta esprimono per Luca la giustizia di Dio, la sua misericordia. “Avere compassione” dunque, dal punto di vista di Dio, significa protendersi al bisogno dell'altro per rigenerarlo a vita nuova.

[9] L'olio nell'antichità era noto per le sue proprietà terapeutiche. Il vino per la sua componente alcolica era invece usato come disinfettante nelle ferite.

[10] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 6.

[11]  Diario di suor Maria Faustina Kowalska, LEV, Città del Vaticano 2000.

[12] C. REGALIA - G. PALEARI, Perdonare, cit., 59.

[13] Cfr. G. Godobo Madikizela, A Human Being Died That Night: A South African Story of Forgineness, Houghton, Marines Books, 2004.

[14] A. BACHELET, Ritornate a essere uomini! Risposte di ex terroristi, Rusconi, Milano 1989, 16: corsivo nel testo.

«Io e Dio» è il titolo di un libro di Vito Mancuso, che si propone di «giocare la partita della vita e del suo senso come un incontro tra Io e Dio»[1]. L’autore, con i dati sociologici sotto mano, riconosce che non è vero che «Dio è morto», come aveva annunciato Nitezche. Ancora una stragrande maggioranza delle persone in tutto il mondo credono in Dio. Ma chi è questo Dio che è “tornato” nell’orizzonte di una gran parte dell’umanità? Mancuso non ha dubbi:

«Il Dio tradizionale non può più ritornare. Il Dio che ha retto la coscienza occidentale per quasi due millenni, il Dio che guidava gli eserciti e al cospetto del quale si celebrava la messa con il trionfale Te Deum dopo le vittorie militari, il Signore della storia che stava dietro ogni vento, il dio della Provvidenza… che guidava le sorti dei popoli verso la piena sottomissione alla Chiesa di Roma: quel Dio lì ormai non può più tornare. Dopo i milioni di innocenti massacrati nella più totale indifferenza celeste, è semplicemente impossibile parlare ancora di un Dio della Provvidenza storica. Ha scritto Primo Levi: “Se non altro per il fatto che un Aushwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza”. […]

Neppure può tornare il Dio che governa le piccole cose della cronaca quotidiana, quel Dio che conta i nostri capelli e senza il cui volere non cade a terra neppure uno dei passeri del cielo, come pensava Gesù: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contanti. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!” (Mt 10,29-31). Ogni giorno veniamo a sapere di malattie incurabili che si abbattono su piccoli e grandi senza nessuna distinzione morale, di incidenti e fatalità di ogni tipo, una valanga di cronaca nera con figli che uccidono genitori, genitori che uccidono figli, morti sulla strada, sul lavoro, al mare, in montagna, dovunque. Chi può guardare al mondo e sostenere con veridicità e onestà intellettuale l’idea di un governo provvidente e giusto sui singoli esseri umani da parte di Dio, compresa la cura per i loro capelli?»[2].

Cosa rispondere a queste obiezioni di Mancuso? Certamente non bastano poche battute per dare una risposta convincente. Bisogna anzitutto riconoscere che – forse sembrerà strano – l’uomo, già nell’AT, ma anche il cristiano, ha avuto idee distorte di Dio, frutto di una lettura a partire dalle proprie categorie culturali, e talvolta si è servito anche di esse per giustificare le proprie azioni. Per esempio i soldati tedeschi portavano scritto nella cintura: “Gott mit uns”, cioè “Dio è con noi”. Allora per capire bene chi è Dio davvero, che Gesù ci ha rivelato in pienezza, è bene tornare sempre a leggere con attenzione la Sacra Scrittura. E a leggerla alla luce della tradizione della Chiesa, cioè di quella comprensione che è cresciuta, purificata e maturata lungo i secoli, grazie all’azione dello Spirito santo. Ed è quello che faremo. Oggi, in particolare, ci soffermiamo sulla figura di Abramo e la “scoperta” di un Dio diverso da tutti quegli dèi – o meglio idoli – fino ad allora conosciuti.

 

Esperienza di Abram nella casa paterna

In Gen 11,27-32 abbiamo un testo che ci presenta alcune informazioni su Terach, il padre di Abramo, di Nacor e Aran, e l'esperienza che Abram ha delle relazioni familiari. Leggendo attentamente il testo si nota subito che le relazioni familiari sono dominate dalla figura del padre (Terach), citato ben 6 volte (ma il 6 è un numero imperfetto); della moglie e madre dei figli, infatti, non si fa menzione. Si noti anche la ripetizione dell'aggettivo possessivo nel v. 31: «Tèrach prese Abram suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, donna di Abram suo figlio...» (v. 31). La paternità di Terach è quindi all'insegna della possessività. Per questo non c'è da stupirsi che il primogenito sia stato chiamato Abram, che significa «(il mio) padre (ab) è elevato/eccelso (ram)»; cioè il “destino” di tale figlio è quello di esaltare il padre Terach. Si noti, poi, che il secondogenito, Nacor, ha lo stesso nome del padre del padre (cfr. Gen 11,22-24): è l'unico caso nella Genesi nel quale un figlio prende il nome del nonno! Aran, l'unico figlio il cui nome non sembra essere in associazione con una paternità, muore subito dopo aver generato Lot.

Le relazioni familiari sono dunque caratterizzate da questo legame possessivo di Terach nei confronti dei figli; e c’è l’esperienza dolorosa della morte.

La morte di Aran è seguita immediatamente dal matrimonio dei due figli maggiori (v. 29). Anche Abram si sposa con una donna di nome Sarai, il cui nome significa: «i miei principi». Sarai però è sterile. La famiglia di Terach è quindi doppiamente segnata dalla morte: da quella, come già detto, di Aran, ma anche dalla sterilità della sposa del primogenito (Abram).

Cosa fa Terach? Come reagisce a questa situazione? Prende i suoi familiari segnati dalla morte – e solo questi –, cioè Abram e Sarai (quindi la coppia sterile) e Lot, orfano di padre (cfr. v. 31)[3], ed esce con loro da Ur dei Caldei. Terach, quindi, cerca di strapparli dalla sventura[4]. È il tentativo di sfuggire dalla morte. Oggi forse noi faremmo ricorso alla scienza e in particolare alla tecnica. Sono certamente risorse molto utili, ma non risolvono il problema della morte, perché infatti la vita rimane un dono di Dio.

Si noti che nel suo viaggio verso Canaan, Terach fa una sosta a Carran. Ma di fatto Terach non uscirà più da lì, non riuscirà a raggiungere Canaan, e infatti lì vi morirà (cfr. v. 32).

La morte di Terach in Carran avviene 60 anni dopo la partenza di Abram[5]; il che vuol dire che Abam è riuscito a svincolarsi dal padre. Anticipando l'annuncio della morte di Terach prima della partenza di Abram, l'autore sacro suggerisce che Terach abitava nel lutto per la partenza di questo figlio, fa parte della morte ancora prima di morire. L'autore sacro cioè ci dice: Terach fa parte del passato. Per questo nei capitoli seguenti, anche se ancora era vivo, non si farà di lui più menzione.

 

Esperienza religiosa di Abramo prima della chiamata

Quale conoscenza di Dio Abramo prima della chiamata di Gen 12? Anzitutto sembra aver avuto una certa concezione di Dio a partire dalla contemplazione della natura e degli astri; ciò lo si deduce da ciò che dice al re di Sodoma in 14,22: «Alzo le mani davanti al Signore, Dio altissimo, creatore del cielo e della terra». Quindi emerge una visione di un Dio unico, contemplato a partire dallo splendore della creazione, esperienza probabilmente previa alla parola di Dio su di lui.

La Sacra Scrittura in modo molto generico afferma che i padri di Israele, come Tèrach «al di là del fiume», nei tempi antichi «servivano altri dèi» (Gs 24,2; cfr. anche Gd6 5,6-9).

Se invece ci rifacciamo alle nostre conoscenze sui gruppi seminomadici di quel tempo, dei quali Abramo ne faceva parte, Dio era capito come una presenza personale nelle vicende e nella vita del gruppo patriarcale e del singolo: Dio è con il gruppo, con la famiglia patriarcale. È un Dio che accompagna e protegge, che segue la storia del gruppo. È un Dio – o, meglio, un idolo - che non si vincola a nessun luogo (date le condizioni di vita del gruppo), a cui viene affidato il proprio presente e il proprio futuro. Probabilmente Abramo aveva questa concezione di Dio. Ma l’idolo o gli idoli che suo padre venerava non aveva preservato la famiglia dalla dolorosa esperienza della morte.

 

Dio si rivela ad Abramo

Chi strappa Abram dalla situazione di morte in cui versa tutta la famiglia è il Signore. «Il Signore disse ad Abram…» (Gen 12,1). Anzitutto fa esperienza di un Dio che parla. Non è muto come gli idoli. E lo chiama per nome! Si sente conosciuto e cercato da sempre, ma adesso scoperto e afferrato di sorpresa, come alle spalle, e abbracciato con forza e con un’infinita tenerezza amicale (Fil 3,8-14). E non solo. Dio darà un senso completamente nuovo al suo stesso nome, e lo lascia segnato per sempre: «Avraham, Avraham» (Gen  17,5, che spiega il significato del nome: «padre di una moltitudine di nazioni»). Dio «tira fuori» Abramo dalla situazione che sta vivendo, e lo proietta sui sentieri di un pellegrinaggio: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (12,1).

Così comincia la storia di Abram: con Dio che gli ordina di partire dalla propria terra (che, probabilmente va identificata con la regione chiamata in Gen 24,10 “Aram dei due fiumi”, oggi la valle del Balih, situata tra il Tigri e l’Eufrate), separandosi dal padre, dalla situazione stagnante.

E’ interessante notare anche il parallelismo con Gen 1: «Dio disse... »: è Dio che prende l’iniziativa e “fa”, crea una cosa nuova nella storia. Così, come Dio ha preso l’iniziativa di creare l’universo, ora prende l’iniziativa per iniziare la storia della salvezza. E lo fa con la sua parola che rivolge ad Abram. Lasciarsi coinvolgere dalla Parola divina significa lasciare che sia Dio ad essere l’architetto della nostra vita.

Che cosa dice Dio ad Abram? Anzitutto si ha un imperativo: «vattene»: lascia il paese, la patria, la casa del padre, il clan, la cultura...  Il verbo, letto nella versione della Bibbia CEI in italiano, ci fa comprendere che si tratta solo di allontanarsi da un luogo. Ma l'espressione del comando, tradotta letteralmente dall’ebraico, è significativa: «va' per te dalla tua terra...». Il cammino di Abram non sarà solo un cammino di tipo fisico, ma soprattutto un cammino spirituale. Dovrà viaggiare prima di tutto dentro se stesso.

Si noti anche la pedagogia di Dio: chiede ad Abram di lasciare, in un ordine non casuale, in crescendo, la terra (l'ambiente fisico), la parentela e il padre. Per un nomade non è poi così difficile lasciare la propria terra. Diventa più difficile lasciare la propria tribù, cioè la sua cultura, ogni sicurezza, ogni legame affettivo. Lasciare tutto per andare «...verso la terra che io ti indicherò (lett. “io ti farò vedere”)». In questo cammino Abram farà esperienza della paternità di Dio, una paternità liberante, ben diversa da quella di Terach.

Si noti il contrasto tra la chiarezza di ciò che Abram è chiamato a lasciare e l'oscurità della destinazione. Non è nominato il paese. Non è facile sapere quale strada prendere. Semplicemente Abram deve mettersi in cammino, lasciando il noto per l'ignoto.

Questa è la logica di ogni chiamata: lasciare dietro di sé la sicurezza per addentrarsi nell'ignoto. Non esiste la risposta alla chiamata di Dio con delle sicurezze; esiste solo un affidarsi alla Parola divina, un atto di fiducia nel Dio che chiama. Tutta l’identità di Abramo nasce dal suo perdersi dietro e dentro la Parola di Dio. Lascia tutto per avventurarsi in una avventura divina.

La chiamata, poi, è accompagnata da sette promesse, tutte al futuro: «farò di te un grande popolo, ti benedirò, renderò grande il tuo nome, diventerai benedizione, benedirò coloro che ti benediranno, maledirò chi ti maledirà, in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (vv. 2-3). Promesse che sono accompagnate da una pienezza di benedizione (per cinque volte viene ripetuta la parola “benedizione”), quindi una pienezza di vita. E se Dio promette una “pienezza”, ciò vuol dire che Abramo, riconoscendo un certo vuoto nella sua vita, si sente attratto dalla prospettiva di ciò che Dio gli promette.

 

Ciò che Dio promette ad Abramo

La tradizione rabbinica individua in Gen 12,3-4 sette promesse divine, sette sfaccettature del progetto che Dio si impegna a garantire ad Abramo; ricordiamo che il numero sette indica pienezza. A queste promesse poi si aggiungerà anche un'ottava, quella della terra.

«Farò di te un grande popolo». Da Abramo anziano e da Sara anziana e sterile, Dio farà nascere un popolo «numeroso come la polvere della terra» (13,6) e come le stelle in cielo (cfr. 15,5). È da notare che questa promessa della discendenza contiene anche un motivo di vita contro la morte. Come ben sappiamo i figli erano per l’ebreo (e per l’orientale in genere) quasi il segno della continuazione di sé. Sarà Cristo, il Messia, della stirpe di Abramo, a sconfiggere la morte. «ti benedirò». La benedizione di Dio verrà sperimentata da Abramo come: capacità di generare un figlio (cfr. 21,1-7), possibilità di trovare pascoli fertili per il suo bestiame (cfr. cap. 13), protezione nei momenti di difficoltà di relazione con gli altri (cfr. 12,10-20; cap. 14), l'essere fedele nel momento della prova (cfr 22,16-18), il poter morire «in felice canizie, vecchio e sazio di giorni» (25,8). «Renderò grande il tuo nome». Il Signore si impegna a fare in modo che il nome di Abramo venga ricordato da tutte le generazioni (cfr. Sir 44,19). Per gli ebrei Abramo è «la roccia da cui sono stati tagliati, la cava da cui sono stati estratti» (Is 51,1). Anche per i cristiani il nome di Abramo è fondamentale perché lo considerano «padre nella fede» (Rm 4,16-17), come lo è per i musulmani che lo chiamano Al Kalil = amico di Dio (cfr. Is 41,8).

È da notare la relazione di questo brano con quello della torre di Babele (11,1-9) a motivo del «nome». Questo «nome grande» che Dio promette per Abramo è puro dono divino. Ci troviamo quindi di fronte a due logiche opposte: da una parte l’uomo che conta sulle proprie forze[6]; dall’altro l’uomo che è «grande» perché crede. Abramo credette a questa promessa[7]. La fede rende possibile ciò che umanamente è impossibile.

«Benedirò coloro che ti benediranno». Si noti che la condizione affinché i popoli accolgano la benedizione attraverso Abramo è quella di accettare che Dio abbia scelto lui e non altri. Che sia l'eletto. «coloro che ti malediranno maledirò». Chi, invece, in qualche modo tenterà di eliminare Abramo (e i suoi discendenti) dalla faccia della terra, dovrà fare i conti con la morte. Evidentemente non è Dio che maledice, ma sono i popoli che, rifiutando di accogliere il progetto di Dio, la sua offerta di salvezza in Abramo, entrano (o rimangono) nella morte.

 Se è così, ci si accorge che coloro ai quali è destinata la benedizione hanno anch'essi qualcosa da lasciare, da abbandonare: la bramosia, la gelosia che sbarra l'accesso alla benedizione. La vita, infatti, non può svilupparsi in pienezza in un contesto di rivalità e di concorrenza, ma solo in un contesto di condivisione e di scambio. In questo senso, come Abram deve accettare di abbandonare la sua terra, la sua patria (cultura) e la sua casa per rispondere all'invito di JHWH, chi vuol ricevere la benedizione deve anch'egli sottrarsi alla logica di invia, di bramosia, per non rimanere nella morte.

«e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (promessa ripetuta in 22,1). Abramo è chiamato a diventare benedizione per tutti i popoli (v. 3), strumento quindi di salvezza per l'umanità.

In questa benedizione attraverso Abramo San Paolo vede già contenuta la promessa del Messia. Il mondo intero sarà benedetto («tutte le famiglie della terra») con la sua venuta (cfr. Gal 3,7-9).

Infine possiamo aggiungere un'ultima promessa, l'ottava, che riguarda la terra. Già al v. 1 JWJH aveva parlato della «terra»: «Vattene dalla tua terra... verso la terra che ti farò vedere». In seguito, dopo aver attraversato il paese, quando giunge a Sichem, presso la Quercia di More, riceve la promessa divina: «Alla tua discendenza io darò questo paese» (12,7): promessa ripetuta più avanti, quando, dopo essersi separato da Lot, si stabilisce nel paese di Canaan, il Signore gli dice: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente. Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra... » (13,14-17). L’espressione «alza gli occhi…» non va intesa solo in senso fisico; significa anche che la terra promessa dev’essere accolta con gli occhi della fede. È facile immaginare cosa Abramo avrà visto: una terra collinosa, con poca acqua, e quindi piuttosto sterile. Una terra difesa dai cananei con le armi. Eppure è proprio questa terra che Dio ha deciso di dare ad Abramo, tanto che gli ordina di prenderne visione: «Alzati, percorri il paese in lungo e in largo, perché io lo darò a te» (v. 17). E Abramo obbedisce: «Poi Abram si spostò con le sue tende…» (v. 18).

Infine in 15,18 il Signore gli conferma la promessa («Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate») con un vero e proprio giuramento (cfr. 15,7-20).

 

La risposta di Abramo

Come reagisce Abramo alla Parola di Dio e alle promesse divine che l'accompagnano? Non fa domande, non chiede spiegazioni, non chiede segni che assicurino la veridicità della promessa[8]. La scrittura dice: «Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore...» (12,4). Decide di fidarsi questo Dio che non conosce ma che conosce il suo nome; rischia sulla sua parola, e parte senza tentennamenti.

Per Abramo questa partenza rappresenta come una nuova nascita: il verbo “uscire”, utilizzato alla fine per esprimere la sua partenza («Abram aveva settantacinque anni quando uscì da Carran» - v. 4), è infatti il verbo della nascita quando colui che nasce si trova in posizione di soggetto. E’ un cammino che lo apre alla benedizione, e allo stesso tempo lui stesso sarà strumento di benedizione per gli altri.

La lettera agli Ebrei così commenta questa partenza di Abram: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì, partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (11,8). Si tratta di una fede iniziale, che verrà poi messa alla prova.  E tuttavia è essa a cambiare il corso della storia, facendo della storia umana una storia della salvezza. È una fede che nasce dall’ascolto della Parola, della promessa. Ed è una parola che Abramo porterà sempre dentro di sé. Per questo Abramo, a differenza di Adamo che non obbedisce alla parola («Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi certamente moriresti»: Gen 2,16-17), è padre nella fede. Quando arriverà a Sichem costruirà un altare: è il riconoscimento che il Signore è Colui che dona, e l'uomo è sempre colui che accoglie, risponde nella fede.

Dieci anni dopo, quando il figlio dalla propria moglie Sara non sembra arrivare, Abramo non teme di interrogare Dio, mostrando di non capire. Infatti al Signore che gli si rivela e gli assicura una “grande ricompensa”, Abramo chiede: «Mio Signore, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco... Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede» (Gen 15,2-3). Possiamo immaginare il dramma di Abramo. Abramo, incrociando gli altri clan della Palestina, avrà visto la presenza di figli che continuano a correre per il deserto. Allo stesso modo guardando i residenti, i cananei, avrà visto città piene di eredi che le renderanno ancora più ricche. Per Abramo, invece, Eliezer sembra essere l’unica speranza. Sarà lui a recitare la preghiera funebre al posto di quel primogenito che Abramo ha sognato e che non ha avuto; sarà lui a seppellire Abramo e Sara nel riposo dei padri; sarà lui a ereditare le poche cose di questo povero clan. Come vedete questa è oscurità: è l’oscurità della fede. E tuttavia questa oscurità all’improvviso può squarciarsi, conoscere dei momenti di luce. Segue infatti una nuova assicurazione di Dio: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle... tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,6; promessa rinnovata in 22,17). In 13,16 Dio aveva promesso una discendenza «come la polvere della terra». Ora alla quantità aggiunge la qualità: le stelle del cielo non solo sono numerose, ma anche luminose. Quindi una discendenza gloriosa tra i popoli della terra (cfr. Rm 9,4). I tempi di Dio non sono i tempi degli uomini. Ma non per questo Dio viene meno alla promessa.

Qual è la risposta di Abramo? Qui, in Gen 15,6 a differenza di 12,4 (dove si dice che Abramo parte), di 12,7 (Abramo costruisce un altare[9]) e di 13,18 (Abramo sposta le tende) il testo mette in evidenza un atto interiore del patriarca: egli “credette”, cioè si affidò e il Signore «glielo accreditò come giustizia» (v. 6). Abramo crede: in ebraico il verbo (he’emin) è lo stesso che dà origine all’amen con cui concludiamo le nostre preghiere e significa «appoggiarsi a…», «fidarsi di…». È il verbo della sicurezza. Il patriarca si fida di Dio e della sua parola e a lui consegna se stesso e il suo futuro. Questo gli viene «accreditato»: si tratta di un verbo usato nella Bibbia per indicare i sacrifici validamente celebrati. Il nuovo, vero sacrificio da offrire a Dio è perciò l’atto interiore di fede.

 

La promessa che Dio fa ad ognuno di noi

Queste parole che Dio dice ad Abram riguardano anche noi. Anche noi siamo destinatari di una promessa di pienezza, di benedizione.

In Cristo Gesù, la Parola fattasi carne, Dio ci ha benedetti con ogni grazia. Egli vuole che la nostra vita sia “piena”. Da parte nostra, però, dobbiamo accogliere la sua benedizione con la fede di Abramo, accettare il rischio di “partire”, cioè di rompere il nostro io, con le sue sicurezze, per ritrovarlo più grande. È la rinuncia alla pretesa di autonomia per vivere di un potere preso in prestito, ancorandoci alla reale sorgente di ogni bene. È un vivere di nuovo in dipendenza: dipendenza da Dio, da cui proviene ogni bene. È un decentramento libero, fatto da un io adulto, è un gesto di libertà.

La nostra grandezza e realizzazione deriva dall’esserci legati alla reale sorgente di potenza; la nostra stabilità deriva dall’esserci appoggiati non più alle persone o alle cose (questo è la sfida del «lasciare tutto»), ma al Dio delle persone e delle cose. Potenza e stabilità non più conquistate a gomitate, cercando in tutti i modi di farci spazio nella vita, ma dal dono di Dio.

Ciascuno di noi Dio ha ricevuto o riceverà anche una parola specifica che dobbiamo custodire nel nostro cuore, come ha fatto Maria. È questa parola che personalmente il Signore, come ad Abramo, ci ha rivolto, che specifica la nostra vocazione. È questa parola infallibile la nostra guida nel pellegrinaggio della fede (Sal 118, 105). Come Abramo ci lasciamo condurre dalla Parola del Signore.

La discendenza. Dio ha promesso che Abramo avrà un figlio dalla moglie sterile, avrà una discendenza. Per gli ebrei i figli sono importantissimi, rappresentano la “continuazione” dopo la morte dei genitori. In un certo senso promettere la discendenza vuol dire promettere la vita. Per Abramo questa vita che continua nei figli. Per noi cristiani la vita quella che viene da Dio, quella che è più forte della morte: «Dio… ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio primogenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16; cfr. 3,36; 5,24, 6,40.47, ecc.). E Gesù ci invita calorosamente a desiderare e accogliere da lui questo dono: «Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà» (Gv 6,27).

Ma che cos’è la “vita eterna”? Non è solo la vita nel paradiso, dopo la morte, ma è la vita di Dio che già abita in noi in forza del battesimo, quella vita che vuole espandersi e portare i frutti quando siamo consapevoli di questo dono e lo alimentiamo con una vita vissuta nella grazia del Signore e con i sacramenti. Si chiama “eterna” non perché è la vita biologica che dura all’infinito, ma è la vita con una qualità indistruttibile, la vita dell’Eterno. Dio infatti non risuscita i morti ridonando la vita biologica, ma è un Dio che dà ai vivi che credono in lui questa vita (cfr. Gv 3,15-15.36; 6,40.47). Osservava acutamente papa Benedetto: «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile». E continua: «Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti. […] Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte»[10].

Inoltre come per Abramo ci è promessa la «terra». Quale terra? Non possiamo non ricordare le parole di Gesù: «Beati i miti perché erediteranno la terra» (Mt 5,5 con citazione di Sal 37,11). Che cos’è questa terra promessa?

- La terra è anzitutto il nostro cuore. Chi sa rispondere al male con la mitezza della beatitudine lo possiede, non si lascia trasportare dalle passioni. Sa mantenere rimanere nella pace e nella serenità. Ma è necessario un cammino, o, meglio, un lavoro di “cura” del proprio cuore. Nella Genesi si narra che Dio affida all’uomo da lui creato il compito di coltivare la terra (cfr. Gen 2,15). Ma – si noti – l’uomo è stato plasmato con l’humus del suolo (cfr. Gen 2,7). Di conseguenza coltivare la terra è anche un segno/invito a coltivarsi. A coltivare il proprio cuore con l’ascolto della Parola di Dio, con la vigilanza, e con l’esercizio delle virtù.

- La terra e gli spazi vitali che abitiamo. Tra il possesso del proprio cuore – con compostezza e mitezza – e il possesso della terra (la famiglia, la comunità, il luogo di lavoro, la città, la patria, la politica, l’economia…la natura) c’è una relazione profonda. Perché si “possiede” come dono da accogliere solo ciò che si ama e si coltiva. 

Il contrario di possedere la terra è contendere spazi. In ogni contesa di spazi si cela un’assenza di mitezza e un desiderio di potere. Esistono contese aperte e contese attutite, non sempre facili da discernere. Ma le distinguiamo con chiarezza a partire dai loro frutti: quelli che hanno desiderio di potere disputano spazi che poi non coltivano. Conquistano ma non fanno, e non lasciano fare ad altri. Accumulano territori – lavori, incarichi, responsabilità… –, ma quando non possono occuparsene loro non può farlo nessun altro, perché non hanno creato una squadra e non hanno lavorato con nessun altro. Ciò deriva dalla mancanza di mitezza nel proprio cuore, dal non aver trovato il proprio spazio, il proprio luogo, e quindi ci si dedica a combattere per quello degli altri. E dopo che lo si è conquistato, lo si lascia andare in rovina. Il violento conquista per poi disprezzare e abbandonare. Il mite, se la sua pace non viene ben accolta, si scuote la polvere dai sandali e se ne va in un’altra città, in un altro posto (cfr. Mt 10,14 e parr).

Per questo il Vangelo dice che solo i miti erediteranno e quindi possederanno la terra perché solo loro sono in grado di amarla e mantenerla a beneficio di tutti. Qui si apre un tema di grande attualità oggi: lo sfruttamento e conservazione dei beni della terra. Su questo fronte i miti sono coloro che abitano la terra senza violentarla o deturparla, vivendo in alleanza con essa, sfruttando i beni con coscienza e cura in quanto la terra non è una preda ma un dono di Dio a beneficio di tutta l’umanità.

- Dio stesso. Infine la terra promessa è Dio stesso. Siamo fatti per Lui e solo lui – come afferma sant’Agostino – può saziare il nostro cuore. La terra promessa è per eccellenza il possesso di Dio, che già inizia nella vita che viviamo (il “già” rimanda ad una pienezza nel futuro (il “non ancora”). Ricordiamoci le parole di Gesù in Gv 14,2-3: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». Il presente del cristiano è il luogo dell’accoglienza, della continua ricerca di Dio in mezzo alle ambiguità della storia. Non è quindi una terra che si conquista in modo immediato. Per arrivarci occorre passare attraverso paesi stranieri, come fece lo stesso Abramo, che subito dopo si recherà in Egitto. Tendere a questa terra e, insieme scoprire di vivere in terra straniera, ci ricorda come è importante non perdere di vista il “fine” del nostro cammino, lasciandoci “bloccare” da altre realtà, buone in sé, ma che possono divenire – per un affetto disordinato – motivo di ostacolo.

 

Che cosa voglio? Che cosa desidero? Cosa cerco?

C’è un bel brano del Vangelo che può aiutarci a guardare dentro il nostro cuore e chiarire meglio a noi stessi che cosa in realtà voglio, che cosa cerco. Si tratta dell’incontro di Gesù con i primi discepoli in Gv 1,35-42.

Il Battista vede passare davanti a sé Gesù e lo indica, dà una testimonianza per tutti quelli che erano presenti, un annuncio: “Ecco l’agnello di Dio” (v. 36).

Per il Battista i suoi due discepoli (erano tutti quelli che in quel momento aveva con se!) sono l'offerta che fa a Gesù. Egli aveva condiviso trepidante l'attesa, ma ora, quale amico dello sposo, «gioisce di gioia per la voce dello sposo», avverte di dover diminuire, perché lui cresca (cfr. 3,22-36). Non avendo più motivo di trattenere i discepoli, li accompagna fino al dono totale di sé.

L'invito ad offrirsi era giunto ai discepoli attraverso lo sguardo: “Fissando lo sguardo su Gesù che passava” (cfr. v. 36). Quello del Battista è uno sguardo d'intesa e di reciproco riconoscimento. Uno sguardo intenso che, silenziosamente, penetra nell'intimo e svela qualcosa della nascosta identità della Parola fatta carne all'opera nel mondo e nell'uomo. Uno sguardo che indica ai discepoli l'ora di avviarsi, il tempo di mettersi in esodo alla sequela della Parola.

Il Battista, tuttavia, oltre a riconoscere il passaggio, svela ai suoi l'essere stesso di Gesù: “Ecco l'Agnello di Dio”, “Guardate l'Agnello di Dio” (cfr. v. 36). Nella solitudine del secondo giorno l'aveva già riconosciuto come il portatore dello Spirito, «colui che toglie il peccato del mondo» (cfr. 1,29), ma ora lo testimonia di fronte ai suoi. Gesù è l'agnello-servo che purifica gli uomini con la parola di verità, è l'agnello pasquale che dona lo Spirito e ricrea l'umanità nel sangue e nell'acqua (cfr. 19,28-37). Il Battista rende testimonianza a Gesù, servo e agnello, perché anche i suoi discepoli possano vedere quello che lui vede e, abbandonando lo «stare», si affidino al «camminare». Lo sguardo e la parola del Battista sono talmente coinvolgenti che il cuore dei due viene come inondato da una inattesa illuminazione. “I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù” (v. 37). La sequela di Gesù è proprio la creazione nuova. Per la prima volta, due uomini si staccano da un legame puramente umano per aderire alla comunione con il Figlio di Dio. Tale passaggio è un salto di qualità, una conversione. Attraverso il cammino del discepolo, l'uomo diviene Dio per partecipazione. I due non hanno ancora questa consapevolezza, ma si affidano ad una persona carica di fascino e di mistero. Come autentici discepoli del profeta si riconoscono peccatori, perciò bisognosi anch'essi dell'Agnello di Dio. 

I discepoli iniziano a seguire Gesù e non osano parlargli. Solo ad un certo momento Gesù stesso, voltandosi verso di loro, prende la parola: “Che cosa cercate?” (v. 38).

Sappiamo quanto l'antico Israele abbia desiderato vedere il volto di YHWH: “Mostrami la tua gloria... tu non potrai vedere il mio volto... perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. Ti nasconderò con la mia mano e passerò... Quando sarò passato toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (cfr. Es 33,18-23). Non si può vedere Dio e rimanere in vita. È questa la convinzione che percorre tutto l'Antico Testamento.

Quando i due iniziano a seguirlo, Gesù è di spalle, ma lui stesso si volta e mostra il suo volto: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). La supplica del salmista si fa compiuta realtà: “Volgiti Signore, un poco, e abbi pietà dei tuoi servi” (Sal 90,13). Ma i due discepoli non sanno ancora che stanno vedendo il volto di Dio.

Gesù, dunque, domanda loro: “Che cercate?”. Sono le prime parole che Gesù pronuncia nel vangelo di Giovanni. Più avanti nel vangelo, il Risorto si volgerà alla Maddalena, dicendo: “Chi cerchi?”. È come se Gesù dicesse: “Cosa cerchi? Cosa ti attendi ma me? Perché mi cerchi? Chi cerchi in verità?”. La sua domanda fa direttamente appello al desiderio profondo di queste persone e vuole che esse esprimano tali desideri.

Che risposta danno i discepoli a Gesù? La seguente: : “Rabbi (che significa maestro), dove abiti?. Esprimono il desiderio di stare a lui vicino, di imparare alla sua scuola di vita. Il termine “dimorare”, infatti, più che l'ambiente materiale, indica la condizione esistenziale e personale in cui uno vive. E Gesù accoglie questo desiderio:

 pronunciando un imperativo e una promessa: “Venite e vedrete”. È l’invito a fare esperienza stando con lui, instaurando con lui una comunione di vita. Allora vedranno. Faranno esperienza di Lui, del seguire Lui con fede.

E noi cosa gli rispondiamo? Che cosa vogliamo davvero?

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[1] V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, Milano 2011, 18.

[2] Ibid, 32-34.

[3] Curiosamente non si dice che prese con sé il figlio Nacor con la moglie Milca. Perché sono rimasti a Ur dei caldei? Forse è una decisione di Nacor di staccarsi da un padre così possessivo? Forse c'è stato un litigio ma per ben altro motivo? La scrittura non ce lo dice.

[4] La tradizione ebraica, invece – ed in questo è seguita dal Corano – sostiene che Abramo è dovuto fuggire da Ur perché aveva urtato la sensibilità religiosa dei suoi concittadini distruggendo le statue delle loro divinità per affermare l'unicità di JHWH.

[5] Terach, infatti, more all'età di 205 anni (Gen 11,32). Aveva 70 anni al momento della nascita di Abram (cfr. Gen 11,26). E Abram aveva 75 anni quando venne chiamato da Dio. Quindi alla chiamata di Abram Terach aveva 145 anni.

[6] Secondo la tradizione ebraica Abramo sarebbe stato gettato nel forno ardente per aver rifiutato l’idolatria (cioè di scrivere il proprio nome sui mattoni che dovevano servire alla costruzione della torre di Babele per avere un «nome» che rimanga in modo perenne – cfr. 11,4 - ; ma grazie all’intervento divino Abramo ne esce indenne. Nel midrash, infatti, leggiamo: «Il Signore fece tremare la terra e fiamme e faville uscirono dal forno, bruciando tutti i curiosi che si assiepavano intorno. Abramo, in cambio, uscì illeso dal forno, senza una sola scottatura».

[7] Il Sal 127 sembra essere un commento al racconto di Babele, individuandone la logica di fondo. L’uomo fatica invano «se il Signore non costruisce la casa» (v. 1). Lo stesso salmo dichiara che «dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo. (..) Beato l’uomo che ne ha piena la faretra…» (vv. 3-4). Questa è la promessa di Dio ad Abramo.

[8] Nel vangelo, invece, il Signore è molto duro con chi chiede continuamente dei segni. Chiama «perversa e adultera» la sua generazione; ad essa darà tuttavia il «segno di Giona» (cfr. Mt 12,39; 16,4).

[9] In questo modo Abramo riconosce come suo il Dio che gli ha parlato e dimostra di credere alla sua promessa. Egli lo fa quattro volte: prima a Sichem (12,7), poi a Betel (12,8; 13,4); a Ebron (13,18) e a Moria (22,9). Abramo sa bene che non sarà lui – secondo la promessa - ad entrare in possesso della terra («Alla tua discendenza io darò questo paese»: 12,7); i suoi discendenti, quando entreranno in paese, sullo stesso altare renderanno grazie al Dio fedele.

[10] Benedetto XVI, La gioia della fede, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012.

Gesù in croce, deriso e abbandonato dagli apostoli

Nel racconto delle tentazioni nel deserto Luca fa presagire il ritorno del Tentatore: «… il diavolo si allontanò da lui per tornare nel momento fissato» (Lc 4,13). Questo momento è quello della croce, con l’ultimo attacco frontale, che metterà a dura prova la fedeltà di Gesù. Non sono infatti solo tentazioni sul modo di realizzare il Regno, ma anche una costatazione della sterilità apparente di tutta la sua opera. Sulla croce, infatti, pare che tutto finisca e torni come prima. Anzi, peggio di prima, perché il male sembra aver vinto! Dopo una breve illusione, la tragica delusione! «Speravamo» dice uno di quelli di Emmaus (cfr. Lc 24,21). Contemplare che Gesù ha vinto queste tentazioni vuol dire contemplare come ci salva ancora oggi.

Gesù solo e deriso

Le folle stanno a vedere. La parola da mettere in evidenza è “theorào” (vedere), da cui deriva la parola “teoria”. È l’unica volta che viene usata questa parola nel Nuovo Testamento. Che cosa ci vuol dire l’evangelista con l’uso di questa parola? Che la croce è la teoria di Dio.

Teoria, infatti, vuol dire spettacolo, teatro. La croce è il luogo dove si vede Dio. Quel Dio che nessuno ha mai visto, sulla croce si vede. Vediamo chi egli è. E’ lì che contempliamo la follia dell’Amore di Dio nell’umanità di Gesù. Perché ciò che Dio compie, lo compie da Dio, sempre in mo­do destabilizzante, eccedente. È lì che Gesù “avendo amato i suoi (il Padre e gli uomini) li amò sino alla fine” (Gv 13,1). E’ lì che si manifesta la gloria di Dio. Gloria che non è dopo o accanto alla cro­ce ma nella croce. Agàpe e Gloria costituiscono un solo e unico mistero che ci dice come Dio ci salva. Per questo Paolo scrive: (1Cor 2,2). Perché proprio lì è nascosto ogni tesoro della sapienza e della scienza. In Lui abita corporalmente la pienezza della divinità.

Ma cosa avranno capito le folle da questa visione?

I capi del popolo, i capi religiosi, arricciano il naso davanti alla croce. La croce è morte da maledetto. Muore come se Dio l’avesse abbandonato. Ecco lo scherno dei capi del popolo: “Ha salvato altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto” (v. 35). È l’obiezione religiosa davanti alla croce. Ma che Dio è un Dio che non sa salvarsi? Noi cerchiamo di salvarci a tutti i costi. Salvarci: da che cosa? Dalla morte, intesa come fallimento finale della vita, e da ogni fallimento. Tutto il male che facciamo è perché cerchiamo di salvarci. Allora cerchiamo di possedere infinite cose per garantirci la vita sacrificando alle cose, ci affermiamo sugli altri nei vari ambiti della vita (lavoro, politica, ecc.) anche commettendo ingiustizie (cioè mettendo in croce gli altri), cerchiamo consensi per sentirci importanti agli occhi altrui (narcisismo)…

Capiamo che qui ritorna la terza tentazione che Gesù ha vinto nel deserto: “gèttati giù di qui”, dal pinnacolo del tempio, perché Dio interverrà a soccorrerti (cfr. Lc 4,9-12). Piegare Dio a sé. Costringerlo a fare la mia volontà. Non la sua volontà, che per Gesù è quella di amarci fino alla morte, e alla morte in croce. Ecco perché Gesù rimane lì sulla croce. Perché si perde. Quindi quella che sembra una sconfitta dal punto di vista religioso, è la rivelazione della vittoria di Dio, che non salva se stesso. Per questo è l’Agnello immolato che apre i sette sigilli del libro della storia (cfr. Ap 5,1-9). La croce è la chiave interpretativa di tutta la storia.

Ci sono poi i soldati che rappresentano la violenza, il potere violento (e il denaro è la principale forza). Essi si fanno avanti e, offrendogli aceto, gli dicono: “Sei il Re dei Giudei, no? Allora... salva te stesso!” (cfr. v. 37). E’ l’obiezione politica: re da burla, non sa neanche salvare se stesso, chi vuoi che salvi? In realtà Gesù è il vero Re, perché non è venuto ad asservire gli uomini con il potere (in Matteo 20,24-28 si legge il monito di Gesù: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”) ma a liberarci da ogni potere che domina e asserve. Gesù in croce è  talmente libero dall’egoismo che sa dare la vita piuttosto che piegarsi a perdere la libertà di amare. Questo è l’uomo libero. Questo è il Regno. Per cui Gesù sulla croce vince anche quella che era la seconda tentazione nel deserto: imporre il regno di Dio con la violenza (cfr. Lc 4,5-8). Nessun compromesso con la logica del Nemico. Nessuna adorazione del potere e del Tentatore che glielo offre. Gesù ci dà il vero ideale di uomo. L’uomo è colui che è talmente libero da dare la vita.

Infine Gesù viene tentato anche dal malfattore, probabilmente un compagno di Barabba, con il quale aveva fatto la rivolta e ucciso delle persone: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!” (Lc 23,39). È come se dicesse: Perché se tu sei il Salvatore degli uomini, e ti sei commosso davanti alle sofferenze umane, hai rivelato la figura di un Padre misericordioso e amorevole, ora sei abbandonato alla morte? Perché questo Dio non risponde al grido dei miseri della terra e ti lascia morire? Perché sei in questo momento impotente e condividi il nostro stesso destino?”. È una prova diabolica che cerca di rompere l’unione Padre-Figlio.

Alcune donne sotto la croce

Marco (15,40-41) ricorda che “alcune” donne stavano presso la croce. Giovanni è più preciso: “Stavano sotto la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala” (Gv 19,25). E, come dirà nel versetto successivo, c’è anche “il discepolo che egli amava” (che potremmo essere ciascuno di noi). Tutti gli altri erano fuggiti. Gesù lo aveva previsto: «Gesù disse loro: Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Mt 26,31; cfr. Mc 14,26). Quanta sofferenza avrà provato Gesù per questo abbandono, e ancor più per il “tradimento” (di Giuda, che lo consegna; di Pietro che, difendendosi, in realtà dice la verità: “non lo conosco”!), provando in sé quello che già riecheggiava il salmista: “Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno” (Sal 40,10). Eppure Gesù li aveva chiamati – come annota Marco – perché “stessero con lui”! (Mc 3,14). Solo le donne, in questo, si manifestano vere discepole! Più precisamente: le donne e “il discepolo amato” (Giovanni, certamente, ma egli è figura di ogni discepolo amato).

Gesù ha accolto in sé il dolore dell’abbandono dei suoi “amici” (così chiama Giuda al Getsèmani in Mt 26,50: «Amico, per questo sei qui!»). Non giudica la loro incapacità di comprendere, la loro fuga di fronte al mistero dell’amore crocifisso, la loro fragilità… Lui che li ha scelti li continua ad amare, così come sono…

 

Le nostre tentazioni

Gesù ha vinto tutte le tentazioni. Ma noi rischiamo di dare retta ad esse. Oggi, in particolare, tra le tentazioni che possiamo provare nel cammino di discepoli di Gesù, ne ricordo tre – come le tre tentazioni nel deserto e le tentazioni a Gesù sulla croce da parte dei capi del popolo, dei soldati e dal malfattore -, che mi sembrano così “attuali”: l’accidia, lo scoraggiamento e agire seguendo le intenzioni del cuore "impuro".

La tentazione dell’accidia

È una tentazione oggi piuttosto diffusa. È una tentazione contro la gioia. Spesso si dice che l’opposto della gioia è la tristezza. Probabilmente è giusto. Ed è anche normale provare tristezza in certi momenti della vita, perché la tristezza è un’emozione primaria della vita umana. Gesù stesso ha provato la tristezza e angoscia nell’orto degli ulivi (cfr. Mt 26,37). Ma, a mio parere, l’accidia si oppone a quella gioia piena, «la gioia del Vangelo che riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»[1]. Ma – come annota papa Francesco - «ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua»[2]. Perché? Tra le varie motivazioni a me sembra che l’accidia ne sia una. E, forse, la prima.

Dico questo perché ci sono dei “sintomi” (di cui un medico sta bene attento per diagnosticare una malattia) molto diffusi, che sono proprio tipici di questa “malattia spirituale”. Quali?

a) Anzitutto una mancanza di cura per il proprio cammino spirituale. La persona prova un’atonia, un’avversione verso la preghiera, l’adorazione, l’ascolto della Parola di Dio. Così l’accidioso fugge da tutto ciò. Talvolta giunge anche a banalizzare o disprezzare tali pratiche. “A che serve dedicare del tempo per pregare sulla Parola di Dio?”.

b) L’accidioso, in pratica, fugge da Dio, dal rapporto con lui. Ed è comprensibile. Se, infatti, il suo cuore è pesante, scoraggiato, tediato, è chiaro che non desidera restare solo con se stesso e con i propri limiti, e ancor di più essere “disturbato” dalla vicinanza di Dio. L’accidioso non accetta la propria vita, non ascolta la voce di Dio, si nasconde, ripetendo lo stesso gesto di Adamo ed Eva che dopo il peccato si nascosero allo sguardo di Dio (cfr. Gen 3,1.10).

c) L’accidioso, inoltre, non ha voglia di impegnarsi. Prova disinteresse verso ogni forma di azione e iniziativa. O, per lo meno, gli costa molto farla. E se la fa spesso non la fa bene. Nella vita sacerdotale e religiosa l’accidia prende il volto del prete poco zelante, annoiato, che cerca di riempire il tempo con internet, con chiacchiere non edificanti, talvolta anche criticando o svalutando il bene che gli altri fanno. Oppure, al contrario, è il prete che riconduce il suo ministero ad un attivismo fine a se stesso, ad una funzione impiegatizia al servizio dell’organizzazione ecclesiastica. Attivismo che vuole riempire ogni momento con qualcosa per paura di doversi fermare e riflettere.

Il sacerdote accidioso non lo si vede mai, o quasi, pregare in pubblico; e nella celebrazione dell’Eucaristia è piuttosto frettoloso. L’omelia è breve, fin troppo, e i contenuti lasciano a desiderare. Non è certo una persona contenta di ciò che fa, soddisfatta della sua vocazione.

d) L’accidioso è una persona che fugge il presente. Trova pesante dedicarsi al suo dovere, alle cose quotidiane che deve fare; il sole gli appare lento nel suo movimento o immobile, mostrando il giorno lunghissimo. Sogna di poter approfittare di qualche novità per rompere la noia del presente. Talvolta questa noia del presente può portare l’accidioso sulla via del vizio.

"L’accidia – scrive papa Francesco – può prendere molte forme nella nostra vita di pastori, ed è indispensabile esserne coscienti per poterla scovare sotto i fronzoli che la nascondono. Delle volte è la paralisi, quando non si arriva più a sostenere il ritmo della vita. Altre volte attacca il pastore saltimbanco che nel suo andare e venire è incapace di fondarsi in Dio e nella realtà concreta nella quale è inserito. Appare anche in coloro che elaborano grandi piani lasciando da parte i mezzi concreti per realizzarli. O, al contrario, appare in coloro che si lasciano invischiare nelle bazzeccole quotidiane senza riuscire a vederle dal punto di vista di Dio"[3].

L’accidia paralizza la vita sacerdotale del sacerdote: "Alcuni vi cadono perché portano avanti progetti irrealizzabili e non vivono volentieri quello che con tranquillità potrebbero fare. Altri, perché non accettano la difficile evoluzione dei processi e vogliono che tutto cada dal cielo. Altri, perché si attaccano ad alcuni progetti o a sogni di successo coltivati dalla loro vanità. Altri, per aver perso il contatto reale con la gente, in una spersonalizzazione della pastorale che porta a prestare maggiore attenzione all’organizzazione che alle persone, così che li entusiasma più la “tabella di marcia” che la marcia stessa. Altri cadono nell’accidia perché non sanno aspettare, vogliono dominare il ritmo della vita. L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati fa sì che gli operatori pastorali non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce"[4].

e) L’accidioso è una persona che, fuggendo da se stesso, non cura l’esame di coscienza. Di conseguenza anche la confessione gli risulta pesante… quella di se stesso e quella legata al suo ministero.

Ma l’accidia può anche contagiare il laico impegnato nel servizio ecclesiale. C’è accidia quando si perde il senso di ciò che si fa, del fine che si vuole raggiungere. E anche quando si dice di conoscere il fine… in realtà non ci si crede più. Si fanno le cose perché si devono fare, ma non con convinzione, con impegno. Non si tratta di semplice pigrizia, perché il pigro sa ciò che è bene, ciò che è importante. L’accidioso, invece, è una persona che soffre l’asfissia dell’intelletto, cioè i suoi pensieri creano tenebra interiore; manca la luce che sola può illuminare il senso dell’esistere e dell’impegno. Oppure anche qui, come per il sacerdote, si cade nell’attivismo. Con esso si cerca così di coprire il vuoto, il tedio interiore.

L’accidia come “malattia dei cristiani” – spiega papa Francesco - va contro la voglia di annunziare agli altri la novità di Gesù. Essa «fa dei cristiani persone ferme, tranquille ma non nel senso buono della parola: persone che non si preoccupano di uscire per dare l’annuncio del Vangelo. Persone anestetizzate». Un’anestesia spirituale che porta alla considerazione «negativa che è meglio non immischiarsi» per vivere «così con quell’accidia spirituale. E l’accidia è tristezza». È il profilo di «cristiani tristi nel fondo» a cui piace assaporare la tristezza fino a divenire «persone non luminose e negative»[5].

L’accidia non risparmia anche la vita di coppia matrimoniale.

L’accidioso che è caduto nella tentazione di fuggire si trova privo dello slancio ad agire per il bene della comunione coniugale. Rischia di mettersi a cercare delle compensazioni fuori del nucleo familiare: affetti, doppi legami, il lavoro, lo sport, attività varie… Troverà dei buoni pretesti per giustificare queste compensazioni. […] Quando svanisce il dinamismo interiore che nasce dal dono di sé, incessantemente rinnovato, nella vita coniugale può sopraggiungere la monotonia ed essa può diventare insopportabile[6].

Come reagire al demone dell’accidia?

Con gli strumenti che tradizionalmente la Chiesa ci indica: l’adorazione di Dio – in particolare del Crocifisso – come rimedio dalla fuga da Dio; la preghiera – la meditazione della Parola di Dio come rimedio alla fuga da se stesso; l’espiazione come rimedio alla fuga dal momento presente; la missione come rimedio alla fuga dall’agire. Vediamo brevemente questi quattro elementi.

a) L’adorazione a Dio. L’adorazione è un atteggiamento ed un’impostazione di vita che non fugge – come l’accidioso – dalla relazione con Dio e con gli altri. Adorazione vuol dire «consegna di sé al proprio Creatore»[7], perché Lo riconosciamo come Dio. L’adorazione è espressione dell’amore. Adoriamo il Signore perché è «Amore infinito e Misericordioso»[8]. Con l’adorazione ci mettiamo davanti al Signore Gesù non solo fisicamente, ma anche mentalmente e spiritualmente. Con l’adorazione fissiamo l’attenzione nelle cose spirituali, alle quali l’accidia vuole scappare. Con l’adorazione consegniamo a lui la nostra anima ed esistenza. Con l’adorazione confessiamo che dobbiamo essere liberati dal ripiegamento su noi stessi.

b) La meditazione della parola di Dio. La Parola di Dio forma la nostra vita, ci mostra la volontà di Dio. La Parola di Dio mi illumina interiormente, mi fa guardare – cosa che l’accidioso non vuole fare - con umiltà e verità nel mio intimo, mi dà la luce per distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Ha ragione il salmista quando prega: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 118,105).

c) L’espiazione. Il momento presente è il kairos dell’unione di amore tra la volontà di Dio e la nostra volontà. È nel momento presente che Dio ci guida con il suo amorevole agire divino. La volontà divina è nostra santificazione, «santità, quella che dobbiamo fare tutti i giorni – afferma papa Francesco -, e che è una strada che si può percorrere solo se a sostenerla sono quattro elementi imprescindibili: coraggio, speranza, grazia, conversione».[9] Volontà di Dio è che ognuno di noi prenda parte nell’opera redentrice ed espiatoria di Cristo Gesù, per completare  «quello che manca ai patimenti di
Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa
» (Col 1,14). Così l’imitare il Signore in spirito d’espiazione si vive nel quotidiano delle giornate; nell’impegno per realizzare bene i doveri di stato nella famiglia, nel lavoro, nella parrocchia; nel portare con gioia la croce, nell’accettare con serenità gli imprevisti, nell’offrire i piccoli sacrifici.

d) La missione. Tutti abbiamo la missione di annunciare il Vangelo. La missione di incontrare le persone – con il coraggio di uscire, di andare nelle “periferie esistenziali” – per portare la bontà e la tenerezza di Dio. «Predicare, annunciare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada»[10] e ci libera dall’accidia.

La tentazione dello scoraggiamento

Se non siamo accidiosi possiamo però cadere in un’altra tentazione: quella dello scoraggiamento. Quando vediamo persone che remano contro, quando sentiamo critiche, quando ci accorgiamo che ci parlano alle spalle ci viene la voglia di mollare tutto. La critica negativa, l’avversione e l’incomprensione di fratelli e sorelle che appartengono alle nostre comunità cristiane, ai gruppi e ai movimenti, può essere una grande tentazione: quella di lasciarci cadere le braccia. Per di più gli scandali all’interno della Chiesa da parte di persone che dovrebbero essere dei modelli ci può davvero sconcertare e scoraggiare. «Vale la pena ancora impegnarsi?» – può essere il pensiero – e quindi la tentazione – che passa per la nostra mente.

Gesù aveva previsto l’avversione e la persecuzione – addirittura collegandola con la beatitudine – nel discorso sulla montagna: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Mt 5,11-12). Se fossero “non credenti” ci faremmo una ragione. Ma talvolta anche per noi è “l’amico” a farci soffrire. E ci viene la tentazione di mollare tutto. Dimenticandoci che Gesù ci invita a seguire lui, il rifiutato per eccellenza.

Eppure proprio all’interno di queste prove, se anziché guardare al mio “io ferito” guardo al Crocifisso, possiamo incontrare Dio e sperimentare in noi la sua forza e la sua pace. È l’esperienza, per citare un testimone tra tanti, di San Giovanni della Croce.

I dieci anni, dal 1567 al 1577, costituiscono una stagione intensissima nella vita di Giovanni, ricca di ministero della Parola, di accompagnamento spiritua­le, di consolidamento della riforma, di molteplici fon­dazioni. Egli sembra appartenere a fratelli e so­relle con cui condivide gli ideali profondi della pro­pria esistenza. È proprio vero? All’esterno non pare. Anzi è ritenuto un uo­mo di successo, per il suo messaggio spirituale, per le sue opere. Ciò suscita reazioni.

Già tra il 1575-1576 è fatto prigioniero dai Calzati di Avila perché ritenuto un disobbediente, ma è libe­rato poco dopo, per intervento del Nunzio di Madrid. Invece il 2 dicembre 1577 è preso e strappato nella notte dalla sua casetta presso il Convento dell’Incar­nazione, delle Carmelitane di Avila, e condotto prigio­niero nel convento dei Calzati a Toledo.

Vi giunge sempre di notte, bendato, forse l’8 di­cembre e vi resterà fino al 17 agosto 1578. Conosciamo le condizioni disumane del suo car­cere toledano e il pressing psicologico e spirituale esercitato su di lui con infinite astuzie. Quella di Toledo è una vera macina. Giovanni è come cesellato, rifinito dallo scalpello del­l’Amato, anzitutto nel cuore della sua fede, ma con in­cidenza di prim’ordine in tutte le dimensioni del suo vissuto: spirituale, psicologico, mistico, estetico. Denudandolo, quell’esperienza di fede, lo restitui­sce a sé stesso rinnovato. Egli rinasce. Il carcere non è un grembo materno, che lo rigenera, ma è il modo in cui assume ed elabora il carcere che lo rende uomo nuovo.

Il criterio vale per lui e per tutti noi! Non è la cro­ce che ha significato in sé, ma è Cristo che glielo im­prime. Non è la croce che genera salvezza, ma l’amore di Colui che acconsente a esservi inchiodato.

Imprigionato, Giovanni è un uomo libero. Speri­menta come la libertà non consiste nel fare quello che si vuole, ma nel volere quello che si fa.

Non ha cercato o voluto il carcere, e ne fuggirà ap­pena possibile, ma per il tempo che vi rimane, quello - un luogo immondo - è lo spazio di un appuntamen­to da non mancare, come lo fu Babilonia per gli ebrei, la croce per Gesù. Tanto più che i suoi carcerieri, ver­so i quali ha sempre parole di bontà, sono convinti di operare per il bene.

In quei nove mesi toledani - il tempo di una gesta­zione - egli non abdica alla propria intelligenza: pen­sa, immagina, crea, progetta e, quando gli è reso pos­sibile, scrive. Le sue opere poetiche (circa 970 versi), in molte delle loro espressioni più alte e raffinate, ri­salgono a questo periodo.

Qui Giovanni della Croce ci appare nella sua au­tentica statura di discepolo del Signore. Non dobbiamo dimenticare che il percorso di Giovanni della Croce è stato lungo: è uno spirito provato, fin dalla più tenera infanzia. Le percosse della vita lo hanno lentamente forgiato, reso indomito. Lentamente si è trovato a non sottrarsi più a disagi, precarietà, emarginazioni, ma ad amarli. Diremmo che li preferisce come luoghi privile­giati per amare. Egli sa fin dall’adolescenza che il suo Signore abita il disagio: nel povero, nell’afflitto, nell’in­fermo, nel carcerato, in chi è solo, nell’angosciato.

Giunto a maggiore età, preferi­sce alla carriera ecclesiastica l’Ordine carmelitano, nell’Ordine chiede per sé la regola non mitigata, dive­nuto sacerdote non più l’Ordine ma la Certosa, poi non la Certosa ma le fatiche della riforma. Progressivamente si è fatta strada in lui la consa­pevolezza - già colta come prefigurazione simbolica nella sua vita di fanciullo e di adolescente - che la sventura può diventare epifania di grazia.

Elabora le ferite del passato; non ne rimane prigio­niero; impara, attraverso di esse, a proiettarsi con energie nuove verso il futuro.

Anche dal carcere toledano, come dalle privazioni precedenti uscirà ancor più temprato e ardente. Il suo vissuto testimonia che la croce guarisce, co­me il serpente elevato da Mosè nel deserto (cf Gv 3, 14), e rigenera.

Di cosa è stato privato nel carcere di Toledo? Sap­piamo che gli fu lasciato solo il breviario, che poteva celebrare, a seconda della luce del sole che entrava da una minuscola feritoia. Gli hanno tolto i beni più pre­ziosi: la Bibbia, che meditava anche viaggiando a dorso d’asino, l’Eucaristia, i colloqui con Teresa, la comunità degli Scalzi, la dolce amicizia dei più intimi, il ministe­ro dell’accompagnamento spirituale e quello dell’an­nuncio della Parola, ma anche la natura che amava contemplare, lo studio di cui si nutriva, lo scrivere.

Per un uomo di relazioni intense come lui la pena più acuta è stato l’isolamento coatto, la privazione d’o­gni contatto umano.

Egli mostra, non teoricamente, ma col proprio vis­suto, la validità dell’antico principio, biblicamente ra­dicato, che è fondamento del processo di santificazio­ne di ognuno: i nostri ostacoli diventano i nostri veicoli.

Quali gli ostacoli conosciuti dal prigioniero di To­ledo? Indubbiamente tutte le contrarietà che hanno accompagnato la sua esistenza, che egli ha elaborato come opportunità di grazia.

Se ci chiediamo: “Dove scoprire la Presenza?”, dobbiamo cercarla nella la “notte oscura” ove abita. Questa coesistenza tra tenebre e luce trova il suo registro nella verità cristiana già affermata: la glo­ria è nella croce, non dopo, non accanto. Il nostro ostacolo è costituito anzitutto da ciò che noi siamo, dal fardello della nostra indole, storia, edu­cazione, ferite non elaborate. Si diventa santi non con­tro, ma attraverso queste nostre realtà. L’ostacolo non è cancellato, ma trasfigurato: chiamandolo anzitutto per nome, riconoscendolo parte del progetto buono di Dio, credendo che la sinergia grazia-responsabilità è efficace nei suoi confronti.

In Giovanni de Yepes l’esistenza diventa un transitare di sfida in sfida. Si delinea, come metodo della sua vita e criterio di scelta, il ritenere che ove sia necessario più impe­gno, lavoro, rischio, sofferenza, quello sia il luogo ove meglio essere assimilato a Cristo crocifisso, suo sposo. Non dimentichiamo che per lui la croce è la piena ma­nifestazione dell’Amore.

Le vulnerabilità del vissuto diventano pietre miliari nella storia della sal­vezza di questo discepolo.

Quando i Calzati lo catturano e lo trascinano ben­dato come loro prigioniero nella cella carceraria di To­ledo, non si rendono conto che stanno facendo, in fondo, il suo gioco, che è il gioco di Dio. Non perché la vittima vi si sia prestata o tanto meno abbia cercato un simile gioco crudele, ma perché una peripezia in più è soltanto, pur con tutto il suo peso, una nuova occasione d’amore. Le situazioni-limite sono il suo pane.

«Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?» chiede l’orante del Salmo 11. Il carce­rato di Toledo risponde che può soltanto amare.

Il processo interiore cui è sottoposto plasma una personalità fortissima. Egli è un vero mite, umile e do­cile, ma irremovibile. È un uomo determinato, non un mediatore. Solo una figura così illuminata e di dolce robustezza poteva portare a termine l’opera della rifor­ma.

 

La tentazione di assecondare le intenzioni del “cuore impuro”

Ritorno alle folle che stanno a vedere. Cosa hanno capito? Hanno riconosciuto in quel crocifisso il Messia che ci salva? Riconoscere il Signore non solo sulla croce ma anche nell’oggi in cui è presente e operante nel paradosso del mistero pasquale – la croce che portiamo con lui, le croci che portano i fratelli nella fede, la presenza del Signore dove c’è bontà, dono di sé, solidarietà, ecc. – è essenziale per un credente. Perché il Signore non è – per la mia vita concreta – il Signore del passato, della storia, del ricordo, ma del presente, dell’oggi. E’ questa la prospettiva dell’evangelista Luca. Egli ha infatti un problema diverso dagli altri evangelisti, perché Giovanni ha visto Gesù, quindi è rimasto affascinato e abbagliato e così ci introduce nel mistero; lo stesso Marco, che l’ha visto, racconta l’esperienza di Pietro che l’ha visto; anche Matteo si riferisce a ciò che ha visto e sperimentato e lo trasmette: questa esperienza di Dio così forte. E l’ha scritto per chi non l’ha visto ovviamente, perché attraverso la parola possano anche loro vederlo e farne esperienza. Luca invece non l’ha visto e, come noi, ha letto i Vangeli e tutti i resoconti che c’erano su Gesù e scrive per la terza generazione, di chi non l’ha visto e può “vederlo” e “contemplarlo” in modo diverso: con gli occhi della fede.

Per riconoscere il Signore presente nell’oggi è necessario avere un “cuore puro”: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8); lo vedranno nel Cielo, ma anche già ora possono vederlo (il “già e non ancora” della beatitudine). Cioè un cuore rinnovato dallo Spirito Santo che pensa (ragiona), desidera e agisce con intenzioni rette, conformi al Vangelo. Allora potrà riconoscerlo negli avvenimenti, nelle persone, in me stesso (nell’azione dello Spirito che abita in me).

Dobbiamo allora chiederci: il mio pensare, il mio volere, il mio agire sgorga da un cuore puro, oppure ci sono ancora intenzioni non in linea con il vangelo? Ci sono ancora motivi di autoaffermazione, di vanità, di tornaconto personale, ecc.?

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[1] Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 1.

[2] Ibid, n. 6.

[3] J.M. Bergoglio, Amour, Service & Humilté, Paris 2013, 65-66.

[4] Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 82.

[5] Papa Francesco, Omelia da Santa Marta, Oltre i formalismi,1 aprile 2014.

[6] J.Ch. Nault, Il demonio meridiano. L’accidia, un’insidia sconosciuta del nostro tempo, Cinisello Balsamo (MI) 2015, 182.

[7] CCC n. 1078.

[8] Ibid., n. 2097.

[9] Papa Francesco, Omelia da Santa Marta, La santità è sperare con coraggio ogni giorno, 24 maggio 2016.

[10] Papa Francesco, Omelia da Santa Marta, La gioia del cristiano non è allegria di un momento, 10 maggio 2013.

Sappiamo che non è la prima volta che il sacramento della Riconciliazione subisce e affronta crisi profonde. Oggi, in particolare, nel tempo del relativismo e della confusione del bene come male e viceversa, noi ci accostiamo al sacramento della Riconciliazione perché siamo persone di fede, cioè persone che si lasciano illuminare dalla verità del Vangelo, e quindi sanno riconoscere il proprio peccato per quello che è. Ricordiamoci che il sacramento della Riconciliazione è dono del Risorto: “Gesù disse loro: ‘Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’. Detto questo alitò su di loro e disse loro: ‘Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,21-23). Sappiamo che il perdono è il segno più visibile dell’amore del Padre, che Gesù ha voluto rivelare in tutta la sua vita. Ora questo perdono è offerto ad ogni uomo di ogni tempo mediante il sacramento della Riconciliazione.

Accoglie questo dono del Risorto chi, dunque, sa fare verità nella propria vita, cioè sa riconoscere che – in contrapposizione con l’illusione di essere un “giusto”, rischio che Gesù stesso ci mette in guardia nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10-14) - sono un peccatore.  Tale umile riconoscimento è già principio di libertà; perché riconoscendo che certe mie azioni indirizzano la mia vita verso il fallimento (“peccare” etimologicamente vuol dire “prendere male la mira”, cioè “mancare il bersaglio”), e che con esse ho compiuto del male verso gli altri / verso la terra, ricorro con fede a Colui che ha vinto il peccato. Allora posso dire con San Paolo: “Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori. Io sono il primo dei peccatori, ma proprio per questo Dio ha avuto misericordia di me. Perché Gesù Cristo mostrasse in me, per primo, tutta la sua sapienza per dare un esempio a tutti quelli che in futuro crederanno in lui e riceveranno la vita che viene da Dio” (1Tm 1,12-26).

L’amore di Dio per me è condizione indispensabile per riconoscere il mio peccato. Ciò è evidente nella parabola sopra citata: il fariseo non supplica Dio, né ha bisogno di ascoltarlo; parla solo a se stesso e si ritrova solo con i suoi meriti e le sue pretese. In altre parole: più è vivo il dialogo con Dio e fedele l’ascolto della sua parola-progetto, più acuto sarà il senso del mio peccato e la costatazione che le sue vie non sono le mie vie, né i suoi pensieri i miei progetti (cfr. Is 55,8). Di fronte alla luce scopriamo il nostro peccato (cfr. immagine del vetro illuminato dalla luce), diveniamo capaci di leggere in profondità nel nostro cuore e d’intuire cosa si nasconde anche dietro le sue “buone azioni”. Ecco perché i santi quanto più si sono avvicinati a Dio tanto più avevano consapevolezza di essere peccatori.

Il sacramento della Riconciliazione è un momento di grazia per riprendere il nostro cammino, consapevoli che – come ci ricorda papa Francesco nella Gaudete et exultate – ognuno per la sua via è chiamato alla santità (cfr. GE 10). Perché la santità è un cammino di chi vive le beatitudini, e tra queste al centro ce ne sono due: “beati i misericordiosi” e “beati i puri di cuore”. Come a dire: è misericordioso chi ha sperimentato la misericordia di Dio; è puro di cuore colui che vigila sul proprio cuore, e quindi agisce con mitezza, opera la pace intorno a sé, si impegna a favore della giustizia, anche al costo di sopportare nel nome di Cristo la persecuzione (le ultime due beatitudini), con retta intenzione.

Inoltre questo cammino di santità non è solitario, ma in comunione con i fratelli nella fede (Chiesa).

 

Dall’esperienza della misericordia divina
al divenire strumenti di misericordia

 

Conoscenza esperienziale dell’amore del Padre ed incontro con il Risorto

Il perdono è anzitutto il “luogo” nel quale facciamo conoscenza in modo esperienziale del vero volto del Padre. Non è solo una coscienza razionale, di ciò che leggo nel Vangelo, ma di un vero e proprio incontro con il Dio misericordioso. Gesù ci ha parlato del Padre come colui che fa festa in cielo. Ha paragonato la gioia del Padre a quella del pastore buono che ritrova la pecora smarrita, aggiungendo che il Padre stesso gode molto più per un peccatore che si scopre avvolto da questa misericordia, che non per i 99 giusti che s’illudono della loro giustizia e credono, beati loro!, d’aver bisogno solo ogni tanto del perdono di Dio. Il perdono consente a Dio di manifestare la pienezza della sua paternità, e all’uomo di sentirsene figlio.

Da quest’esperienza della paternità di Dio e dell’incontro con la misericordia divina rivelataci in pienezza da Gesù, non può non scaturire la gioia. Ricordiamo – ad esempio – l’esperienza dell’incontro personale di Zaccheo (Lc 19,1-10) con il volto misericordioso del Signore che chiama proprio lui: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Ed ecco la risposta di Zaccheo: “In fretta scese e lo accolse pieno di gioia”. La gioia del perdono è come la luce: se la si coglie direttamente dal sole, allora se ne comprende l’inarrestabile potenza, se ne intuisce la rara preziosità e se ne gode profondamente.

Allo stesso tempo è un’esperienza del Risorto. Nell’incontro con lui egli ci dona la sua pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27). È questa l’esperienza degli apostoli che, incontrando il Risorto nel giorno di Pasqua, non si sentono rimproverati per averlo abbandonato e rinnegato, ma piuttosto egli, ponendosi al loro centro (“si fermò in mezzo a loro”), ricomponendo l’unità “stando” tra loro, comunica la sua shalom. Il triplice augurio, due volte nella prima e una nell’apparizione seguente a Tommaso riunito insieme con gli altri nel Cenacolo (20,19-29), indica la pienezza di ogni benedizione messianica. Il Risorto è la pace stessa, accogliere Lui è accogliere la somma dei beni messianici. Ed è questa l’esperienza dell’incontro con il Risorto nel sacramento della Riconciliazione.

Giustamente il CCC così si esprime: “In coloro che ricevono il sacramento della Penitenza con cuore contrito e in una disposizione religiosa, ne conseguono la pace e la serenità della coscienza insieme a una vivissima consolazione dello spirito” (n. 1468).

Questa esperienza spirituale della riconciliazione ha anche degli effetti psicologici. Vediamo quali.

 

Gli effetti psicologici del sacramento della Riconciliazione[1]

1. Riconciliati con noi stessi

Il primo effetto psicologico del perdono divino è la riconciliazione con noi stessi. Non è vera quella riconciliazione con il Padre che non passi attraverso quella con il proprio io, con la nostra immagine attuale, di persone che cercano con fatica umile e paziente di compiere il progetto del Padre ma pure constatano di esserne distanti, e ce la mettono tutta a fare meglio che possono, ma senza illudersi d’esser giunti alla perfezione. Non siamo perfetti, ma se realmente lo vogliamo diventare dobbiamo cominciare con il lasciare ogni illusione di poter giungere alla perfezione con le nostre forze. Siamo solo viandanti, non gente arrivata; persone di buona volontà, non eroi; uomini deboli, tutt’altro che impeccabili.

La riconciliazione con Dio rimane sempre un messaggio efficace di stima e di fiducia: Egli riconciliandoci si fida di noi e ci rende nuovamente degni del suo amore.

2. Riconciliati con la vita

- Gioia di vivere. Senza esprimere giudizi sommari né generalizzare indebitamente lo dobbiamo ammettere: a volte non diamo una testimonianza di gioia. Indaffarati e tesi, o preoccupati e troppo seri, dimentichiamo che questo è il nostro primo apostolato, rischiando di apparire (o essere?) più impegnati che contenti. Perché? Se andiamo un po’ oltre le solite - e pur legittime - spiegazioni (tanto lavoro, difficoltà d’apostolato, un certo culto della «serietà» religiosa, ecc.), possiamo trovare una ragione più profonda e personale: una sorta di inimicizia, quasi rabbia, verso la vita.

«La vita non è stata buona con me, da essa ho ricevuto più dolori che gioie... Non sono stato abbastanza compreso dagli amici, o aiutato dalla comunità... Ho anche sbagliato e realizzato poco, ma neanche ho ricevuto quel granché nella mia esistenza...». Sono frasi di persone credenti o consacrate al Dio della vita, ma in rotta con la vita. Certamente non si può pretendere di consolare con le solite pillole pseudo-rassicuratorie (tipo «c’è chi sta peggio di te» o «bisogna accontentarsi, qualche guaio è successo a tutti»), e neppure con la pillola «escatologica» dell’al-di-là che non ha niente in comune con l’al-di-qua («coraggio, la gioia non è di questo mondo, godremo solo nell’altro, dove finalmente sarà fatta giustizia!»). No, una certa gioia di vivere fa già parte del Regno quaggiù. Ed è gioia vera, frutto d’una percezione realistica della vita e, più in particolare, d’una esperienza di salvezza e di perdono. Quel perdono che ci riconcilia con la vita. Vediamo perché.

- Integrazione del bene. C’è tanta gente che non riesce ad accorgersi e godere della propria realtà positiva! La ragione è questa: noi siamo più spaventati dal male che non attratti dal bene; lo spavento richiama l’attenzione concentrandola tutta lì, sul negativo, e distraendola dalla percezione del positivo. Il risultato è una distorsione percettiva: vediamo solo e soprattutto il nostro male, le nostre debolezze, incidenti e responsabilità morali; finché alla fine tutto ci appare nero e ci arrabbiamo con la vita. Oppure, preferiamo non pensarci più: meglio dimenticare e ignorare... Qualcuno ci riesce, ma i più riescono solo a cancellare il bene presente nella loro storia: non lo vedono più o lo sottovalutano.

Così il bene viene come sepolto, è un capitale non goduto. Il perdono che ci viene dal Padre ci riconcilia con la nostra storia, non solo con Dio; ci fa scoprire non semplicemente il nostro male, ma anche il nostro bene; è festa, non solo penitenza, perché ci libera dentro dalla paura d’aver sbagliato tutto, di trascinarci dietro un passato che sarebbe meglio dimenticare, d’esser dei falliti perché deboli e attratti dal male[2].

La misericordia del Padre ricupera questo passato, ci dona occhi nuovi perché sappiamo vederlo nella sua realtà, senza deformazioni pessimiste e letture parziali. Ci fa capire che quanto è successo non è da buttar via né da dimenticare. Nel cuore del nostro passato c’è una presenza di Dio da riscoprire e un suo progetto da decifrare, presenza o progetto che passano anche attraverso il nostro male e suscitano il bene. Nella vita d’ogni uomo esiste questo bene. Un bene fatto e, soprattutto, un bene ricevuto...

La scoperta dell’amore che va oltre la giustizia (così abbiamo definito il perdono) è scoperta d’una gratuità che abbraccia tutta la vita.

- “Gratuitamente avete ricevuto…” (Mt 10,8). Come in una sinfonia esiste un motivo centrale, che dà unità e originalità all’opera, e torna e si ripete in vari modi, con diversi strumenti e armonizzazioni, con modulazioni e variazioni che ne abbelliscono e arricchiscono il fraseggio ma sempre entro un preciso tema musicale, così è il perdono per noi: è il motivo centrale della nostra vita, o il ritornello del nostro salmo responsoriale.

Sperimentarlo con tutto il cuore e tutta l’anima vuol dire accorgersi che questo amore che va oltre il nostro merito ci è già venuto incontro tante altre volte in svariati modi e attraverso molte persone. La «festa» del perdono rompe l’incanto di quella esaltante e mortificante mentalità pagana che ci vuol far vedere la vita come conquista, gli eventi come una lotta, gli altri come rivali, noi stessi come soggetti - più o meno fortunati, ma sempre protagonisti - del nostro destino; e ci fa scoprire la vita come dono, gli eventi come sacramento quotidiano di gratuità, gli altri come mediazione d’una paternità provvidente, e noi come esseri che hanno ricevuto tutto quel che hanno e che sono.

L’incontro con la misericordia che ci apre quindi gli occhi del cuore e della mente attivando in noi un corrispondente modo di percepire la realtà. Infatti se il perdono è conoscere l’Amore, la riconciliazione con la vita sarà un continuo ritrovare e riconoscerne i segni. E allora la nostra storia ci appare sempre più come un grande contenitore, o una meravigliosa sinfonia - di bontà, tenerezza, misericordia, gratuità, comprensione... - che tante, tantissime persone, strumenti d’una volontà buona, hanno usato nei nostri confronti fin dal primo giorno della nostra vita, senza che avessimo fatto nulla per meritarlo, forse senza che ce ne siamo mai accorti, spesso senza che neppure ci scomodassimo a ringraziare. No, non abbiamo davvero alcun diritto di lamentarci della vita. Le nostre lagne sarebbero una nota terribilmente stonata!

- “…gratuitamente date”. La logica delle parole di Gesù è di una evidenza assoluta: se gratuitamente abbiamo ricevuto, è normale che diamo con la stessa gratuità, senza sentirci eroi, anzi, con la certezza che per quanto diamo non pareggeremo mai il conto con quello che abbiamo ricevuto.

A questo riguardo ricordiamo l’episodio evangelico di Mt 18,21-35, quando Pietro chiede a Gesù: “Quante volte devo perdonare?” – E, credendo, di esagerare, aggiunge: “Fino a sette volte?”. Gesù risponde: “Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”, cioè sempre. Ed illustra la dinamica del “perdonato” che diviene a sua volta “perdonatore” con una parabola, quella del re che si è messo a fare i conti con i suoi dipendenti e il primo, che doveva essere un governatore di province, gli doveva una cifra enorme: 10.000 talenti[3]. Ciò significa che era stato proprio un amministratore disonesto se, dovendo al re una somma così ingente, non aveva di che pagare perché se l’era dilapidata. Il re allora ordina che venga venduto schiavo insieme a tutti i suoi beni. Gesù utilizza i termini economici per esprimere questa enormità insolubile: deve una cifra che non può pagare neanche se gli vendono tutto, neanche se lui e la sua famiglia vengono venduti come schiavi. A quel punto il debitore si inginocchia e chiede pietà e il re condona il debito immenso. Ma costui, uscito fuori, trova un suo collega che gli doveva cento denari - cioè una somma ridicola se confrontata con quanto gli è stato condonato - e pretende che paghi, minacciandolo di metterlo in prigione se non paga subito. A quel punto la situazione torna indietro e colui che aveva ricevuto il condono viene richiamato dal re che gli dice: “Non dovevi tu perdonare come io ho perdonato a te?”. È una parabola, cioè un’immagine, un racconto che serve a provocare l’ascoltatore. Il punto focale del racconto sta nel “come”: colui che è stato perdonato doveva essere in un atteggiamento di entusiasmo, di gioia, di contentezza tale da abbracciare il suo debitore e rinunciare ad esigere il credito. Il problema è appunto quello della relazione con gli altri nella comunità, relazione che nasce dall’esperienza del perdono. Io sono stato perdonato, nel senso che mi è stato dato un bene immenso che io non meritavo assolutamente: ciò che Dio ha dato a me è infinitamente superiore a quello che io posso dare ad un altro, proprio perché il condono che mi è offerto dal Signore nel mio incontro di grazia nel Battesimo – rinnovato nel sacramento della Riconciliazione – supera ogni possibilità e, avendo la coscienza di aver ricevuto tanto, sarebbe normale una mia risposta ultragenerosa.

Purtroppo la nostra logica non è sempre questa, soprattutto se non siamo ancora abbastanza convinti d’aver ricevuto tutto in dono. Così crediamo d’avere «il diritto a un compenso per ogni sforzo, per ogni lavoro, ogni sofferenza e desiderio. Ogni volta che facciamo uno sforzo e che l’equivalente non ci torna sotto forma d’un frutto visibile, ci sentiamo come derubati. Se facciamo del bene ci attendiamo la riconoscenza della persona beneficata... Tutte le volte che qualcosa è uscito da noi, abbiamo assolutamente bisogno che almeno l’equivalente ritorni in noi e, poiché ne abbiamo bisogno, crediamo d’averne diritto» (S. Weil).

La nostra vita diventa allora un dare interessato e misurato, un pretendere meschino e insaziabile, un frenetico vantar diritti (immaginari), un diffidare degli altri e un presumere di sé; in breve, una vita non riconciliata, che genera solo tristezza e rabbia, falsi eroi o vittime risentite.

Ma non dipende principalmente da cattiveria o tirchieria particolari: chi non dà gratuitamente è solo uno che ha una percezione molto povera della vita, piena di paure e di sospetti. Un individuo non riconciliato difficilmente sarà persona riconciliante. In realtà a nessuno viene naturale donare senza aspettarsi alcuna ricompensa e con totale disinteresse: lo può fare solo chi ha sperimentato la gratuità straordinaria d’un amore che lo ha creato, redento, riconciliato. Questo amore è il perdono.

 

Beati i puri di cuore
Lo Spirito Santo ci rende capaci di relazioni nuove

 

È importante agire con un cuore puro. Perché solo chi agisce con intenzioni pure – ossia senza quella ricerca di sé, a volte anche narcisistica, che ancora può inquinare il nostro servizio ai fratelli – può sperimentare la gioia delle beatitudini. Tale gioia, infatti, nasce dall’abnegazione, del dono sincero e generoso di sé. La gioia, infatti, è il risultato inaspettato dell’amore: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Paradosso molto vero: la gioia si trova quando non la si cerca, quando si è dimentichi di sé e si vive con libertà interiore i propri servizi per amore. La gioia, quindi, non può essere raggiunta in modo diretto. Oggi, come sappiamo, c’è una grande ricerca di gioia, ma paradossalmente chi cerca di ottenerla per sé, mediante il possesso egoistico dei beni, il piacere del godimento, il potere e ogni altra autoaffermazione sulle cose e sui beni creati, si ritrova, alla fine, con in cuore vuoto.

La gioia del credente, quindi, esige un cammino di purificazione del cuore. E, a questo riguardo, per esplicitare il legame del sacramento della Riconciliazione con le Beatitudini, mi sembra illuminante ricorrere a quello che Gesù ci insegna nel Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti (ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα)…” (Mt 6,12).

È molto interessante il fatto che Matteo non adopera esplicitamente la parola “peccato”, ma parli di “debito” (ὀφειλήματα). Non è solo un fatto lessicale; la ragione è più profonda, perché il concetto di debito indica un dovere ed è problematico quando non c’è la possibilità di assolvere a tale dovere, quando l’entità da restituire supera le mie forze economiche. Se mi ero dimenticato il portafoglio e un amico mi presta cinquanta euro ho un debito con lui, però è un debito irrilevante, poiché appena ricevo lo stipendio gli restituisco tale somma. Il problema si presenta quando la restituzione è più impegnativa. Ad esempio, ho comprato un appartamento e ho fatto un mutuo molto grande, mi sono impegnato facendo i conti con quello che avevo e con quello che potevo guadagnare. Poi succede l’imprevisto: perdo il posto di lavoro. A questo punto mi resta il grosso debito e non ho più la possibilità di pagarlo. Perdo la casa? Come faccio a pagarlo? Questo è un debito grosso ed è un problema, devo e non posso, mi gioco la vita.

Il problema, quindi, che vuole evidenziare la richiesta “rimetti a noi i nostri debiti” è proprio il contrasto fra “devo” e “non posso”. Il debito allora diventa un’immagine per indicare il peccato sotto una prospettiva molto interessante che merita attenzione. In genere noi siamo abituati a presentare il peccato come una cosa “in più” - l’immagine classica è quella della macchia - il peccato è un’azione, è un fare sbagliato, è un comportamento errato, è “la macchia” che ha contaminato la mia vita. Ma la macchia è un elemento che si aggiunge al vestito: il vestito è pulito ma a un certo momento arriva qualcosa in più che lo macchia, e se si interviene bisogna farlo togliendo quel di più che ha sporcato l’abito. Allora, i peccati che ho sono le azioni che ho commesso in modo sbagliato, sono un qualcosa in più che ho fatto, che ho posto indebitamente nella mia vita e che devo provvedere ad eliminare. L’immagine del debito invece non va in questa direzione: il debito è qualcosa “che non c’è”, da parte mia, io devo fare qualcosa che non riesco a fare. Il problema del debito è una mia incapacità, una mia impossibilità, semmai è un vuoto, è una mancanza, è una privazione, è una situazione di impotenza: quindi non è “un più” ma è “un meno”.

“Rimettere il debito” quindi non significa semplicemente cancellare qualcosa che c’è in più, ma è dare la possibilità di fare quello che si deve. Se io mi trovo in quella situazione drammatica di chi aveva contratto un mutuo molto grosso che non riesce più a pagare, per risolvere il problema devo trovare qualcuno che mi dia quella somma.

Il peccato viene presentato quindi nell’ottica della mancanza, dell’incapacità. Se riprendiamo l’immagine del vestito, dovremmo dire che il peccato, piuttosto che a una macchia, somiglia ad uno strappo e forse, ancora meglio, ad una consunzione del tessuto, per cui ad un certo momento diventa trasparente e poi il tessuto si lascia andare e si crea il buco, un buco grosso. A questo punto non si tratta semplicemente di togliere qualcosa perché il tessuto si è rovinato, non c’è più, c’è il vuoto e l’intervento è molto più difficile: non si tratta di smacchiare, si tratta di ricostruire, di aggiungere qualcosa, di riempire il vuoto, di rifare il tessuto.

La richiesta al Signore, al Padre nostro che è nei cieli, di rimettere i nostri peccati riguarda proprio questa opera di creazione dell’uomo nuovo già annunciata dai profeti (cfr. Ez 11,19; 36,25). Non è tanto un’operazione di pulizia quanto piuttosto un intervento di ri-creazione, di nuova creazione: è il con-dono o il per-dono inteso come “grande regalo”, “iper-dono”, è un “super- regalo” che supera il vuoto e il limite e costruisce quella capacità che io personalmente non ho.

Per approfondire questa tematica ci potrebbe essere di utilità rileggere l’episodio evangelico riportato in Lc 7,36-50: una donna peccatrice entra durante un banchetto in casa di un fariseo, bagna con le proprie lacrime i piedi di Gesù e poi li asciuga con i capelli. In quella scena il fariseo, di nome Simone, pensa fra sé: “Gesù non è un profeta; mi aveva dato una buona impressione, ma, in realtà, si lascia toccare da una donna del genere. Se fosse un profeta saprebbe che razza di donna è, e l’avrebbe mandata via”. Simone si trova a disagio, non si aspettava l’intrusione di questo personaggio che gli fa fare brutta figura, ma non osa mandarla via. Dovrebbe essere Gesù a mandarla via: il fatto che la lasci fare non è un segno positivo nei suoi confronti. E mentre sta rimuginando a queste cose, Gesù lo interpella dopo avergli raccontato la storia dei due debitori verso un unico debitore (vv. 41-42), che vedono condonato il loro debito, come se fosse proprio di attualità. Gesù, con l’arte del narratore tipica di chi narra parabole, pone la domanda che serve a provocare l’ascoltatore affinché sia proprio lui a dare la risposta, a formulare il giudizio senza sapere che si sta giudicando. La parabola serve a questo, a far emettere un giudizio disinteressato, perché quando uno è compromesso in un problema vede le cose dalla propria parte; quando invece ragiona in modo obiettivo, al di sopra delle parti, riesce a intuire più facilmente la verità. Simone infatti risponde chiaramente dicendo: “Penso che amerà di più colui a cui è stato perdonato di più”. E Gesù: “Hai detto bene. Vedi questa donna? Lei è la protagonista di questa parabola insieme con te, ma colei che ha amato di più è proprio lei non tu. Le sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato; colui invece a cui si perdona poco ama poco”.

Evidentemente con queste parole finali Gesù non ci incita a peccare per poi sperimentare la misericordia divina; piuttosto ci sta facendo notare che è determinante la coscienza del proprio peccato, del proprio vuoto, della propria incapacità. Quando, infatti, abbiamo il coraggio di guardarci bene dentro e di conoscerci sul serio, di fare un approfondimento della nostra psiche, delle nostre motivazioni profonde, se non rimaniamo in superficie ritenendo che siamo buoni come siamo, se riusciamo veramente ad esaminare il lato oscuro di noi stessi,  troviamo che ancora – insieme alla buona volontà alimentata anche dall’azione dello Spirito –  ci sono ancora atteggiamenti del nostro istinto, delle nostre inclinazioni che hanno una radice negativa; aspetti negativi che fanno parte proprio di noi e non riusciamo a superare. Vorremmo, ma non possiamo, perché sono più forti di noi. Questa è la realtà del peccato – o, meglio, quella “inclinazione al peccato che la tradizione chiama concupiscenza” (CCC 1426) – che non riusciamo ad estirpare e che continuiamo ogni giorno a lottare.

Nello stesso vangelo troviamo un altro episodio nel quale Gesù utilizza le parole “debitori” e  “debito” per parlare del peccato. È quello di Pietro in Mt 18,21-35, di cui abbiamo già parlato sopra (cfr. vv. 24.25.27,29.31.32).

Tutti i santi hanno preso coscienza di questa realtà profonda; consapevolezza che è aumentata tanto più si avvicinavano a Dio. Alla luce del sole divino hanno visto tutte questa realtà negativa, profonda, che solo Dio può vincere. Ecco perché – pensando in particolare a San Giovanni della Croce – è necessario l’intervento purificatore di Dio.

Allora, quando Gesù nella parabola parla dell’amore di colui al quale è stato condonato di più, sta anche parlando dello Spirito Santo come causa e fine del perdono: l’amore di Dio che ci condona il debito è la causa del perdono, e il fine del perdono è l’amore riconoscente del dono ricevuto. Ed è lo Spirito Santo, amore di Dio, a trasformare il nostro cuore. Quando chiediamo al Signore che rimetta i nostri debiti, quando facciamo nostra l’invocazione del salmista: “Crea in me, o Dio, un cuore puro” (Sal 50,12), implicitamente chiediamo lo Spirito Santo creatore, chiediamo che Lui, che ha creato i nostri cuori, li rinnovi con il suo Spirito. Spirito che scende su di noi nel sacramento della Riconciliazione.

A questo punto può emergere un’obiezione. I santi hanno sperimentato in altri momenti, al di fuori del sacramento, la purificazione divina che – utilizzando la terminologia di San Giovanni della Croce  – possiamo chiamare “notte dei sensi” e “notte dello spirito”. È vero. Ma è altrettanto vero che i sacramenti sono i canali di grazia ordinari che il Signore ha voluto. Accostarsi con fede al sacramento della Riconciliazione, come pure anche all’Eucarestia, non significa accogliere la possibilità di una ri-creazione da parte dello Spirito? O, se preferiamo – in collegamento con la beatitudine – una trasformazione in profondità del cuore[4].

Riguardo a ciò desidero citare alcuni testi significativi.

- Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia (2/12/1984) così scrive: “Il ricorso frequente al sacramento - a cui sono tenute alcune categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua celebrazione diventa per loro ‘l'occasione e lo stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello Spirito’ (Ordo Paenitentiae, 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtù terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse del peccato” (n. 32).

- Il Catechismo della Chiesa Cattolica raccomanda: “Sebbene non sia strettamente necessaria, la confessione delle colpe quotidiane (peccati veniali) è tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa. In effetti, la confessione regolare dei peccati veniali ci aiuta a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito” (CCC 1458).

- Infine nel Rito della Penitenza ritorna più volte il “cuore nuovo”: nella Parola di Dio (Ez 11,19-20: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro”) e nella 6 a preghiera del penitente prima dell’assoluzione che recita così: “Signore Gesù, che sanavi gli infermi e aprivi gli occhi ai ciechi, tu che assolvesti la donna peccatrice,  e confermasti Pietro nel tuo amore, perdona tutti i miei peccati, e crea in me un cuore nuovo, perché io possa vivere in perfetta unione con i fratelli e annunziare a tutti la salvezza”; ugualmente nella 8a formula il penitente dice: “Signore Gesù Cristo, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, riconciliami con il Padre nella grazia dello Spirito Santo; lavami nel tuo sangue da ogni peccato  e fa’ di me un uomo nuovo per la lode della tua gloria”.

Questa grazia terapeutica del sacramento della Riconciliazione, inoltre, è in rapporto anche con la frequenza con la quale ci accostiamo al sacramento. Ricordiamo che la confessione frequente è una pratica raccomandata dal Magistero della Chiesa. Così, ad esempio, nella Mystici Corporis di Pio XII (29.06.1943) si legge: “Noi ci teniamo a raccomandare vivamente questo pio uso, introdotto dalla Chiesa sotto l’impulso dello Spirito Santo, della confessione frequente, che aumenta la vera conoscenza di sé, favorisce l’umiltà cristiana, tende a sradicare le cattive abitudini, combatte la negligenza spirituale e la tiepidezza, purifica la coscienza, fortifica la volontà, si presta alla direzione spirituale, e, per l’effetto proprio del sacramento, aumenta la grazia”. Paolo VI nella Gaudete in domino (9 maggio 1975), così afferma: “Sulla scia della migliore tradizione spirituale, noi ricordiamo ai fedeli e ai loro pastori che l’accusa delle colpe gravi è necessaria, e che la confessione frequente è una sorgente privilegiata di santità, di pace e di gioia” (Gaudete in Domino, 9 maggio 1975).

Infine poche righe sopra abbiamo citato il n. 32 della Reconciliatio et paenitentia di Giovanni Paolo II dove si parla dei frutti del “ricorso frequente al sacramento”.

 

Riconciliati con la Chiesa, in comunione con i santi

 

Il perdono ci riconcilia con la Chiesa. Ricordiamo la bella immagine paolina del Corpo mistico: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo…Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (cfr 1Cor 10,12.17). Questa immagine di Chiesa è molto importante, perché ci ricorda che non ci salviamo da soli. Tutto il nostro cammino spirituale, per quanto esiga il nostro impegno, ha bisogno dei fratelli. Se il peccato incrina o infrange la comunione fraterna, il sacramento della Riconciliazione ristabilisce o rinsalda il nostro legame con quello dei santi, cioè dei battezzati (cfr. At 9,13.32.41; Rm 8,27; 1Cor 6,1) e, come insegna il CCC, «ristabilito o rinsaldato nella comunione dei santi, il peccatore viene fortificato dallo scambio dei beni spirituali tra tutte le membra vive del corpo di Cristo, siano esse ancora nella condizione di pellegrini o siano già nella patria celeste» (n. 1469; cfr. anche n. 947)[5].

Il CCC ci offre alcune indicazioni più concrete:

• “La comunione nella fede. La fede dei fedeli è la fede della Chiesa ricevuta dagli Apostoli, tesoro di vita che si accresce mentre viene condiviso” (n. 949).• “La comunione dei carismi. Nella comunione della Chiesa, lo Spirito Santo dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali per l'edificazione della Chiesa Ora «’a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune’ (1Cor12,7)” (n. 951).• “La comunione dei sacramenti. Il frutto di tutti i sacramenti appartiene così a tutti i fedeli, i quali per mezzo dei sacramenti stessi, come altrettante arterie misteriose, sono uniti e incorporati in Cristo” (952).• “La comunione della carità. Nella comunione dei santi ‘nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso’ (Rm14,7). ‘Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte’ (1Cor12,26-27). «‘La carità non cerca il proprio interesse’ (1Cor 13,5). Il più piccolo dei nostri atti compiuto nella carità ha ripercussioni benefiche per tutti, in forza di questa solidarietà con tutti gli uomini, vivi o morti, solidarietà che si fonda sulla comunione dei santi. Ogni peccato nuoce a questa comunione” (n. 953).

Questo è un dono meraviglioso. Papa Francesco ha definito la comunione dei santi “una verità tra le più consolanti della nostra fede, poiché ci ricorda che non siamo soli ma esiste una comunione di vita tra tutti coloro che appartengono a Cristo. Una comunione che nasce dalla fede…”[6]. Non posso quindi salvarmi da solo; ho bisogno dei fratelli e della grazia che Dio mi dona attraverso questa mediazione. Ecco perché è importante l’appartenenza alla Chiesa, al “corpo mistico di Cristo” al quale sono riammesso con il sacramento della Riconciliazione.

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[1] Cfr. A. Cencini, Vivere riconciliati. Aspetti psicologici, EDB, Bologna 1986, 69-77.

[2] In questa prospettiva possiamo capire il suggerimento della confessio laudis dell’allora Card. M. Martini, vissuta all’interno della Riconciliazione: “… propongo il colloquio penitenziale, cioè un dialogo fatto con il sacerdote, nel quale cerco di vivere il momento della riconciliazione in una maniera più ampia rispetto alla confessione breve che elenca semplicemente le mancanze; tale allargamento è previsto, fra l'altro, dal nuovo Ordo Poenitentiae. Si inizia il colloquio con la lettura di una pagina biblica, con un Salmo, così da porsi in un'atmosfera di verità davanti al Signore. Segue quindi un triplice momento: confessio laudis, confessio vitae, confessio fidei”. E così spiega la confessio laudis: “La confessio laudis risponde alla domanda: dall'ultima confessione, quali sono le cose per cui sento di dover maggiormente ringraziare Dio che mi è stato vicino? Iniziare con il ringraziamento e la lode mette la nostra vita nel giusto quadro ed è molto importante far emergere i doni che il Signore ci ha fatto” (13.02.2011).

[3] Il talento era l’unità di misura più grande del tempo. Esso equivaleva a 6.000 denari, cioè al salario di 6.000 giornate lavorative di allora (cfr. Mt 20,2: un denaro al giorno è la somma che il padrone della vigna dà agli operai chiamati a giornata).

[4] Nel Contributo della CEI alla VI assemblea del Sinodo dei vescovi (15/01/1984) al n. 33, che ha per titolo: “Per un approfondimento dottrinale”, si legge: “Una prima richiesta è rivolta a meglio evidenziare la dinamica trinitaria nel dono della riconciliazione. In particolare si osserva che occorre mettere più in luce la funzione dello Spirito nella remissione dei peccati, nella creazione del cuore nuovo e nella ricostruzione del rapporto con Dio e con i fratelli”. Poco più avanti nel medesimo documento si insiste anche sull’importanza della Parola di Dio, “forza di salvezza per la nascita del ‘cuore nuovo’” (n. 37).

[5] Cf. Lumen Gentium 48-50.

[6] Udienza generale del mercoledì (30.10.2013).

"L’amore è paziente, benevolo è l’amore; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7)

Gesù è il modello dell’amore sponsale. I coniugi devono amarsi “come Cristo ama la Chiesa” (Ef 5,25): l’avverbio greco kathòs, che traduciamo “come”, non rende tanto un complemento di modo, per il quale si usa generalmente os: qui, come in altri passi[1], usato in riferimento a Cristo, indica quasi un complemento di materia: “Amatevi dello stesso amore con cui Cristo ama la Chiesa”. Solo riempiendosi di quest’amore, solo radicandosi in Dio nella preghiera, nell’ascolto della Parola e mediante la partecipazione ai sacramenti, gli sposi riusciranno a colmarsi vicendevolmente, in ogni circostanza, di quell’amore di agape che è l’amore dativo, totale, sempre fedele, scevro di ogni egoismo, tenace e tenerissimo, che è proprio di Dio e che Cristo ci ha manifestato nella sua umanità.

Nel capitolo IV dell’Amoris laetitia Papa Francesco fa esegesi dell’Inno all’Amore di 1Cor 13,4-7. Ma l’amore a cui il Papa chiama gli sposi altro non è che essere uno per l’altro esperienza di Gesù stesso. Qualcuno potrebbe notare che l’inno all’amore di 1Cor 13 non parla di Cristo, tuttavia è anche vero che Paolo si è sforzato di riproporre ai Cristiani di Corinto, che erano tentati di strumentalizzare i doni dello Spirito per affermare sé stessi, l’esperienza di Cristo che ci ha salvato con la “follia” della croce (cfr. 1Cor 1,18), che è il massimo dell’amore. Non è un caso che l’elogio più alto della carità san Paolo lo abbia fatto nella Lettera che contiene i tratti più forti e caratteristici della theologia crucis. Per questo possiamo parafrasare l’inno della carità mettendovi come soggetto Gesù stesso: “Gesù è paziente, è benigno; Gesù non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Gesù tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Gesù non avrà mai fine.

Gli sposi devono sempre avere Gesù come modello dell’amore reciproco. Per questo ora vogliamo rileggere questo stupendo inno per chiederci in quale misura stiamo riattualizzando nella vita di coppia e di famiglia questi tratti dell’amore di Cristo.

L’amore è paziente. La pazienza si mostra quando non ci si lascia guidare dagli impulsi e si evita di aggredire. La pazienza si manifesta accogliendo l’altro per quello che è, con i suoi limiti e difetti. Quando invece “pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette… allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira.. e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia” (AE 92).

Altre volte – spero questo sia l’atteggiamento prevalente – non pretendiamo che l’altro sia perfetto, però in nome del Vangelo che ci parla di “correzione fraterna” rischiamo – dicendo che vogliamo il suo bene, correggendo i suoi difetti – di fare la correzione ponendoci su un gradino più su. Non si può essere veramente pazienti e non si può correggere gli altri se non si è umili, cioè se non si ha una concezione realistica di sé. Non si tratta solo di conoscenza di sé (avere un quadro realistico dei propri punti forti e dei propri difetti), ma anche di amarci così come siamo, con un amore umile. Quando ci si ama in maniera realistica, cioè consapevoli delle proprie povertà, si è più capaci di amare l’altro con le sue povertà.

 Addirittura San Paolo così ci esorta: “Ciascuno di voi in tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso… Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,3-5). Gesù, che è Dio fatto uomo, ed è l’uomo perfetto, non si è posto nei nostri riguardi su un gradino superiore, non ha dato spazio a quell’orgoglio che ha rovinato l’uomo, ma ci ha accolti con umiltà.  Questo è il sentimento di Gesù di cui dobbiamo rivestirci: l’umiltà. E San Paolo continua indicandoci l’umiltà di Gesù: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se  stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana  umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8). Dove si vede se uno è umile? Quando ci sono le umiliazioni. Non c’è umiltà senza accettazione delle umiliazioni. Dove si vede la grande umiltà di Gesù? Nel fatto che Gesù stava zitto nel momento dell’umiliazione più grande. Egli, che è Dio, anziché giudicarci, è rimasto in silenzio. Ha avuto pazienza. Non per nulla il verbo greco makrothyméi utilizzato da Paolo nell’inno all’amore letteralmente vuol dire: ha l'animo lungo. Sa attendere, e non in virtù di una pazienza rassegnata e passiva che subisce il peccato. Quando l'A.T. caratterizza Dio come makròthymos (nella trad. greca dei LXX), lo fa sempre in un contesto in cui la longanimità di Dio esprime la sua volontà di salvezza nei confronti dell'uomo, fragile e peccatore.

Possiamo chiederci: amiamo il nostro coniuge con un amore umile? Con un amore longanime, paziente, che sa dare tempo alla persona amata? Che sa apprezzare anche i piccoli miglioramenti? Sa festeggiare le piccole conquiste?

L’amore è benigno. Segue la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che l’amore  è caratterizzato dal servizio e utilità all’altro, è un’azione dinamica e creativa nei suoi confronti. “Indica – scrive papa Francesco - che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. L’amore non è solo un sentimento… Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole» (EE 230). In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire” (AL 93-94).

Ma anche qui oserei aggiungere un particolare importante. Gesù, al giovane ricco che gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?», risponde: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio» (Lc 18,18-19). La bontà è quindi la prerogativa di Colui – di Dio e di Gesù che ce l’ha rivelato nella sua umanità - che gode nel fare per primo il bene, nel suscitare solo e sempre bene attorno a sé. Siamo buoni quando amiamo per primi, quando godiamo di fare il bene! Inoltre la bontà è una qualità creativa: «Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona…» (Gen 1,3-4). Dopo aver creato ogni cosa, il Signore ha detto: «E’ cosa buona». La bontà è creativa. Vuole il vero, autentico bene dell’altro e trova il modo per realizzarlo. Allora in questa prospettiva di creatività della bontà possiamo chiederci: di che cosa ha più bisogno il mio coniuge in questo momento?  In che modo posso concretamente realizzarlo?

Seguono ora alcuni aspetti negativi, quelli del non amore.

L’amore non è invidioso. L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io.

Gesù ci ha messi in guardia dall’invidia nella parabola degli operai nella vigna, quando quelli della prima ora mormorano contro il padrone perché ha dato ad essi la medesima paga – un danaro – a quelli dell’ultima ora: “Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo!”. E Gesù, nella figura del padrone della vigna, risponde: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te.  Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” (Mt 20,13-15).  Allora possiamo dire che “il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro” (AL 95).

L’amore non si vanta, non si gonfia. Mentre l'invidioso soffre perché ritiene di essere inferiore o che gli altri lo stimino tale, l'orgoglioso invece va all'eccesso opposto. Si vanta di ciò che ha; o si gonfia, nel senso che millanta doti che non ha. Tra i due atteggiamenti c'è una notevole differenza: nel primo, il vanto nasce da pregi esistenti; nel secondo, ci si gonfia per qualità immaginarie, facen­dosi una idea troppo alta di se stessi (cf. Rm 12,16). In ogni caso ci allontaniamo dalla verità e dall'amore di Dio, dal quale abbiamo ricevuto tutto ciò che abbiamo: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto perché te ne vanti, come non l'avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). La carità che deriva ed è ispirata dall' amore di Dio, è consapevole dei suoi doni, è rispettosa ed umile: “Non valutatevi più di quanto è con­veniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede Dio gli ha dato” (Rm 12,3).

“Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro”. Inoltre l’amore “non si ingrandisce” di fronte agli altri. A volte “ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più ‘spirituali’ o ‘saggi’… Alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole” (AL 97). “È importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. […] Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. […] L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà” (AL 98)

L’amore non manca di rispetto (amabilità). “Essere amabile – scrive papa Francesco - non è uno stile che un cristiano possa scegliere e rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore”…  Lo sguardo amabile sull’altro “non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro… L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. […] Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano” (AL 100).

 L’amore non opera in modo rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. Infatti il verbo verbo aschemoneì qui usato letteralmente significa fare qualcosa privo di “schema” (a-schemon), privo di forma, di buona figura, di decoro. Al contrario agire in modo nobile, elegante, di bella maniera è tipico dell’amore. Paolo scrive: “Camminiamo con decoro (eushernònos)... Non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non fra contese e gelosie” (Rm 13,13). La carità agisce sempre con bellezza e decoro. Ha la sua nobiltà a livello di modi, di parole, di pensieri: “Nes­suna parola cattiva esca dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione... Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno ira, clamore, e maldicenza con ogni sorta di malignità... lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità, cose tutte sconvenienti” (Ef 4,29.31; 5,4). I toni e lo stile della carità non sono mai bassi; al contrario, essa si muove a livelli di bellezza e di decoro, attin­gendo ai valori più alti che l'uomo possa amare ed onorare: “Tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8).

Nei Vangeli non troviamo questo verbo. Tuttavia c’è un episodio significativo della passione, quando la guardia, durante il processo del sinedrio, dà uno schiaffo a Gesù, dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?”.  E Gesù reagisce con amabilità, cioè risponde mostrando la verità senza aggressività, con dolcezza di tratto e di parole, invitando così la guardia a riflettere. Dice infatti: “Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).

C’è da chiedersi: le nostre parole verso il coniuge sono sempre amorevoli? Sappiamo incoraggiarlo? Il nostro tratto – atteggiamenti e parole – esprimono il nostro desiderio di vivere l’impegno feriale dell’onorare mio marito / mia moglie che ci siamo presi nel giorno del matrimonio?

L’amore non cerca il proprio interesse. “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4). È la generosità dell’autentico amore. Seguendo l’esempio di Cristo che “si sottopose alla croce disprezzando l'ignominia” (Eb 12,2), il credente, imitando l’amore di Dio, non cerca la propria gloria, la propria affermazione ma, al contrario, dà la vita per l’altro. Il che esige che il nostro cuore sia purificato da ogni forma di infantile egocentrismo, dall’egoismo e dal narcisismo. In positivo, invece, chi ama possiede la sapienza del vangelo. Segue Gesù che ci ha amati per primo, fino alla morte e alla morte in croce. Sa che è vero quello che ci ha detto Gesù: “Vi è più gioia nel donare che nel ricevere” (At 20,35).

Al contrario della chiusura nei miei interessi egocentrici ed egoistici, l’amore trova la gioia nel donare. La gioia, che dovrebbe regnare nella vita coniugale e che Gesù, il beato per eccellenza, vuole donare a chi crede in lui: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv  15,11).

Nel «c'è più gioia nel dare che nel ricevere» c’è una grande sapienza. La pienezza di vivere, infatti, viene conseguita quando non la si cerca direttamente, quando, in altre parole, ci si è dimenticati di se stessi e dei propri problemi per rivolgersi all’altro con gratuità. Il paradosso del dono esprime il paradosso della felicità, più volte riscontrato: essa può giungere soltanto in sovrappiù. Quando ci si dona a qualcuno, si sperimenta una soddisfazione che non può essere paragonata ad alcun guadagno materiale: la gioia del dare non conosce confronti.

Kierkegaard notava in proposito: «La porta della felicità si apre verso l'esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla sempre di più»[2]. Quanto più si cerca di possedere la feli­cità, tanto più essa diventa sfuggente e irraggiungibile: è la parabola del nostro tempo, troppo preoccupato di sé e del proprio star bene, scoprendosi così sempre più triste e incapace di vivere. Come per la conquista di Gerico (cfr Gs 6,1-22), la felicità arriva quando si è oc­cupati in altro, che cattura il cuore; essa sopraggiunge, in sovrappiù, come un dono gratuito.

Inoltre la gratuità implicita in questo gesto invita l'altro ad aprirsi e a dare il meglio di sé. «Si dice che Warden Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi»[3]. Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, ma il fatto di sentirsi importanti per qualcuno dà spazio a un diverso atteggiamento nei con­fronti della vita, più propositivo e meno vittimistico, sperimentando una sorta di inedita pienezza di vivere. È allora anche un bel gesto di amore permettere l’altro di amarmi!

Possiamo chiederci: nella nostra relazione di coppia regna la gioia? Se no, o non sempre, perché?

L’amore non si adira. “Adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci” (AL 103). “Come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!». La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore” (AL 104).

Perdono. Scrive papa Francesco: “Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. […] Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immagina re sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare” (AL 105). “Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione” (AL 106).

L’amore non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. L’amore soffre per le ingiustizie (calunnie, offese, comportamenti altrui, vere e proprie ingiustizia) che il coniuge riceve dagli altri (in ambito parentale, lavorativo, ecc.). Il coniuge che ama partecipa della beatitudine di coloro che piangono (Mt 5): soffre con chi soffre. Al contrario l’amore si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità, le sue buone opere.

Seguono ora quattro espressioni positive molto importanti: l’amore tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

L’amore tutto copre. Detto così, a prima vista questa affermazione farebbe capire che l'a­more è disposto a scusare tutto, e a giustificare o coprire di oblio, quasi ad ignorare le responsabilità degli altri. Il verbo greco, stego, parla di una copertura che fa pensare a quella di una casa (come in Mc 2,4) o di un rifugio. Riferito a Dio, lascia intravedere la sua volontà di offrire rifugio a chi ricorre con fiducia a lui. II Salmo 91 (90) prega così: “(L'Altissimo) ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio. La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte” (v. 4-5).

La letteratura deuteronomica propone spesso questa immagine. Par­lando dell'amore e tenerezza di Dio per il suo popolo, ricorda che “lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'a­quila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali” (Dt 32,11). Abbiamo qui due immagini che si completano e presentano la protezione di Dio in termini tutt'altro che di possessività: da una parte la pupilla dell'occhio che viene custo­dita come cosa preziosissima ed unica, dall'altra le ali che non solo pro­teggono come nel salmo citato, ma vengono usate per educare i propri piccoli a godere le altezze, a non temerle e librarsi in volo come la tenera madre.

Ricordiamo infine le parole con cui Gesù apostrofa Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gal­lina raccoglie i pulcini sotto le ali e voi non avete voluto” (Mt 23,37). In queste parole è espressa tutta l'amarezza di Gesù nel constatare come le visite di Dio miravano sempre a raccogliere e proteggere quel popolo che però ha risposto sempre con diniego a queste proposte di amore.

Nella condotta cristiana, quindi, l'espressione esorta ad offrire protezione, difesa e baluardo per il fratello che dovesse trovarsi in difficoltà o in peccato, senza esporlo alla vergogna o alla disperazione.

“Gli sposi che si amano e si appartengono – scrive papa Francesco - parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio.

È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata” (AL 114).

L’amore tutto crede (ha fiducia). Credere qualcosa (in greco pisteuo con l'accusativo) indica un affi­dare cose e interessi propri ad un altro perché si ha fiducia in lui, si punta sulle sue capacità, sulla sua volontà di corrispondere all'atto di fiducia. Dio affida alla coppia umana importanti compiti circa il mondo creato da lui: “Siate fecondi e moltiplicatevi, soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra” (Gen 1,28).

Il Salmo 8 riconosce ed esalta questo assoluto atto di fiducia che Dio compie nell'uomo, tanto piccolo davanti al resto del mondo, eppure tanto grande per il potere che riceve: “tutto (LXX: panta) hai posto sotto i suoi piedi, tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna, ecc.” (vv. 6­8).

Dio crede nell'uomo, perciò lo crea libero, lo lascia in balia del suo volere (cfr. Sir 15,15s; Dt 11,26ss). Stima le sue possibilità, incoraggia il suo cammino, al di là di ogni apparente limite.

Anche Gesù crede nell’uomo. Ha creduto nei 12 che egli stesso ha scelto dopo una notte di preghiera. Conosce i loro cuori e conosce anche le loro debolezze. Per questo li ha messi in guardia: “Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi Fratelli” (Lc 22, 31-32). Ha creduto anche a Giuda: non era inevitabile il suo tradimento…

La carità, virtù cristiana effusa da Dio nei nostri cuori, imita e riflette questo aspetto dell'amore divino: sa dare e infondere fiducia nei fratelli e nei propri simili. Questo modo di essere promuove una gara nello stimarsi vicendevolmente (cf. Rom 12,10), attiva la ricerca del bene tra noi e con tutti (cfr. 1Ts 5,15), tenendo ciò che è buono e positivo (v. 21). “Credere tutto” equivale a far venire fuori capa­cità reali, promuovere la realizzazione di possibilità e talenti, latenti in ogni essere umano, in attesa di un atto di fiducia per mettersi attivamente in cammino.

“Questa fiducia – scrive papa Francesco - rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna” (AL 115).

L’amore tutto spera. L'amore di Dio non si ferma di fronte al peccato e alle aberrazioni dell'uomo, ma al di là dei fatti presenti, apre prospettive di salvezza e di bene. Il profeta Ezechiele esprime mirabilmente questa “speranza” di Dio che scavalca ogni fatalismo: "Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà e non morirà. Nessuna delle colpe che ha commesso sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata Forse che io ho piacere della morte del malvagio - dice il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? [...] Ha riflettuto, si è allontanato dalle tutte le colpe commesse; egli certo vivrà e non mo­rirà" (18,21-23. 28).

Questa speranza di Dio nel ritorno dell'uomo si esprime nel toccante atteggiamento del padre del figlio prodigo, che ne scorge da lontano la figura: "Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò" (Lc 15,20). Se lo vide da lontano, vuol dire che non lo aveva mai dimenticato, mai tolto dal suo cuore o ripudiato. Ma nutriva sempre attese e speranze nel suo ritorno. Ecco perché non aspetta che il figlio arrivi da lui, ma è lui che commosso prende l'iniziativa: corre verso di lui, gli si getta al collo, lo bacia. Vice­versa il fratello maggiore non solo si sente estraneo alla festa organizzata per il ritorno di suo fratello, ma preclude ogni speranza nei suoi confronti, perché lo ha già giudicato e condannato.

Qui appare la grande differenza tra Dio Padre, capace di sperare sempre e l'uomo chiuso nella negatività dei suoi giudizi. La carità che tutto spera non è se non quella di Dio. Solo accogliendola nei nostri cuori, e diventando suoi figli adottivi (cf. Rm 5,5; 8,15), possiamo imitare l'a­more di lui realmente e universalmente (panta) aperto alla speranza.

Gesù stesso spera. Ha gli stessi atteggiamenti e sentimenti del Padre verso l’uomo. E quando utilizza i “guai” per apostrofare l’ipocrisia dei farisei e degli scribi, lo fa sempre sperando la loro conversione.

In riferimento alla coppia, l’amore che tutto spera, in connessione che il “il tutto crede”, “indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra” (AL 116).

L’amore tutto sopporta. Dei quattro verbi contenuti in questo versetto, il primo e l'ultimo vanno interpretati in maniera conseguenziale. Se “coprire” significa, come si è detto, protezione e difesa del fratello, così “sopportare”, anche sulla base di ciò che dice il verbo greco, hypoméno, va analogamente inteso in relazione ad un atteggiamento positivo di sostegno e di fedeltà. Dire allora che la carità tutto sostiene o sopporta va inteso nel senso positivo di un amore che resta al suo posto in fedeltà e perseveranza, che non cede né a delusioni né a scoraggiamenti.

Nella lettera agli Ebrei l’autore così ci esorta: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo” (Eb 12,3).

Papa Francesco interpreta questo “tutto sopporta” anche in riferimento alle contrarietà della vita. Così scrive: “Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare” (AL 118).   

Concludendo potremmo osservare che i quattro verbi hanno una di­sposizione che ci fa pensare ad una casa: agli estremi, il tetto e le fonda­menta (“copre” e “sostiene”), ai lati i pilastri portanti della fiducia e della speranza. Nella stessa 1 Cor Paolo afferma: “la carità edifica (alla lettera: costruisce la casa, oikodomei)” (8,2), per cui la carità ha realmente il potere di unificare ed edificare tutta la nuova creazione (panta) – e in particolare il matrimonio fondato sul sacramento -, come una grande casa.

Possiamo chiederci: come viviamo nella coppia questi 4 atteggiamenti che fanno del nostro matrimonio una casa nella quale regna la tenerezza e l’amore di Dio? Una casa capace di accogliere la vita (i nostri figli, le persone con le quali siamo in relazione) e promuoverla?

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[1] Cfr. Ef 5,29; Gv 13,34.

[2] S. KIERKEGAARD, «Aut-aut», in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, 10.

[3] I. YALOM, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1997, 30. Per un approfondimento, cfr G. CUCCI, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.

Beati i poveri in spirito

dall’avarizia al dono

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Chi sono i poveri in spirito

Gesù annuncia che la felicità, la gioia, è possibile nel già della nostra vita («Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3), e non solo del futuro. E «la parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine» (GE 64).

Ma chi sono i “poveri in spirito”? Sono gli 'anawim, i fedeli osservanti e devoti, spesso emarginati e disprezzati. Un esempio di essi nel Vangelo: la povera vedova di cui lui solo si accorge.

Seduto di fronte al tesoro, (Gesù) osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una povera vedova, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,41-44).

Gesù chiama a sé i discepoli. Stanno guardando altro. Forse stanno ancora pensando a ciò che Gesù aveva appena detto contro i maestri della legge: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere» (Mc 12,39-40). Sono falsi maestri di vita! Questi «Hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6,2.5.16).

Chi è invece il vero maestro? È chiaro, è Gesù. Ma egli stesso, seduto come maestro, ci addita quella povera vedova. Vuole che impariamo la lezione ultima. Quella donna per lui è una vera maestra di vita, è espressione del Vangelo che Gesù ha proclamato.

«Tutti hanno gettato parte del loro superfluo – spiega Gesù -… lei invece…». Questa donna consegna tutta se stessa in quello che dà. A questa donna non è rimasto niente se non il Signore; non ha altra ricchezza se non Lui. Come Gesù darà tutto se stesso per amore degli uomini, questa donna dà tutta se stessa per amore di Dio.

Un appunto: si noti qui il duplice comandamento – amore per Dio (espresso dalla donna) e amore per gli uomini (espresso dal dono di Gesù) che Gesù, poco prima, aveva dato come risposta alla domanda dello scriba: «Qual è il primo di tutto i comandamenti?» (cfr. Mc 12,28-32).

Mi piace pensare che la povera vedova ha vissuto non solo il primo comandamento, ma anche il secondo. Le due monetine – particolare precisato dall’evangelista – forse rappresentano proprio questo. Chi ama autenticamente il Signore come un povero, facendo di Lui il proprio tesoro, ama anche i fratelli.

Chi ha viaggiato nei paesi del terzo e quarto mondo sa bene che ci sono tanti poveri – ricchi di fede e di amore per il Signore – che vivono con gioia e sanno condividere con semplicità quello che hanno. Anche loro sono degli autentici maestri. E forse ce ne sono anche vicino a noi, nei “santi della porta accanto” (cfr. GE 6-9). Ma degli uni e degli altri c’è il rischio di non vederli perché guardiamo da un’altra parte. Quale? All’illusione della ricchezza.

 

L’illusione della ricchezza

Di essa Gesù ci mette in guardia:

«Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, beni e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Così è di chi accumula per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,14b-21).

«Stolto!» – chiama Gesù quest’uomo. Ma perché, al contrario dell’insegnamento del Maestro, uno dei simboli più radicati nell’immaginario dell’uomo moderno è l’associazione tra felicità e ricchezza, con i suoi molteplici derivati (consumismo, potere, accumulo)?[1] Perché dobbiamo guardare oltre l’apparenza.

Si noti che i ricchi, ai quali il mondo spesso guarda come persone riuscite e felici, spesso non si rendono conto di aver aperto un baratro nel quale essi stessi rischiano di precipitare. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001, dopo aver mostrato come gran parte della ricchezza negli Usa sia concentrata nelle mani dell’% della popolazione, commenta: «Gli appartenenti al primo 1 per cento hanno le case più belle, l’istruzione migliore, i dottori più bravi e lo stile di vita più piacevole, ma c’è una cosa che i soldi non sembrano aver comprato: la comprensione che il loro destino è legato a quello dell’altro 99 per cento di esistenze. Come mostra la storia, questo è qualcosa che il primo 1 per cento alla fine capisce. Spesso, tuttavia, lo impara troppo tardi»[2].

L’idea che la felicità sia associata a guadagnare e ad avere sempre di più porta a un aumento di stress e infelicità, a una disumanizzazione e perdita della propria dignità, perché genera quella che è stata chiamata «la corsa dei topi». Robert Kiyosaki, un imprenditore statunitense, per descrivere questo meccanismo riprende appunto l’immagine del topo che corre sulla ruota di una gabbia non arrivando mai da nessuna parte: allo stesso punto di arrivo conduce lo sforzo di chi mira a uno status di benessere posto sempre un passo più avanti di quanto realizzato. Più si guadagna e più ci si sente indigenti. L’immagine suggerisce anche il degrado inquietante a cui l’essere umano finisce per prestarsi, fino a diventare una cavia ammaestrata. Solo alla fine della vita si rende conto di aver sprecato le proprie energie ed essere stato privato dei propri sogni.

 

Le conseguenze dell’avarizia

Le conseguenze della perversione dell’avarizia – cioè dello scambiare il fine (la ricerca della felicità) con i mezzi (il denaro) – sono le seguenti.

• La perdita del senso del gratuito e dunque il senso dell’esistere. Si pensi ad es. alla reazione di Giuda di fronte allo spreco di profumo operato dalla donna nei confronti di Gesù (cfr. Gv 12,5); ogni cosa viene valutata per ciò che se ne può ricavare («trecento denari» precisa Giuda), e ogni altro elemento, relazionale o affettivo, passa inosservato. “Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12,8). Sembra con ciò intendere che si può incontrare Gesù solo nella gratuità e nell’amore, due realtà che sfuggono alla comprensione dell’avaro, perché nascono dallo stupore, dalla constatazione dell’essere nei termini di un dono offerto con generosità a fondo perduto, suscitando sentimenti esattamente opposti all’avarizia. L’amore e la gratuità suppongono infatti l’assenza di lucro, di un tornaconto personale.• All’avaro – come abbiamo visto nella parabola dell’uomo ricco - sfugge il senso della contingenza di ciò che ha, non si accorge che le cose che ha accumulato non gli appartengono veramente, e difatti dovrà lasciarle ad altri; riprendendo una parabola del vangelo, quella dell’amministratore disonesto (cfr. Lc 16,1-13), ognuno è soltanto amministratore di ciò che gli è stato affidato affinché possa fare del bene ad altri, e questo bene diventa l’unica ricchezza che gli appartenga veramente, l’unica ricchezza che non può essere rubata o andare perduta.• La paura e il senso di insicurezza. Il denaro, ben lungi dal rassicurare, quando diventa fine in se stesso aumenta le paure: la paura di perdere ciò che si è guadagnato, la paura che un rivale si aggiudichi prima quell’affare bramato, che balzi innanzi nella scala sociale rendendo vana la fatica di una vita...... Per un curioso meccanismo psicologico, quando si cerca un’eccessiva sicurezza, che il denaro dovrebbe assicurare, si ottiene il risultato esattamente contrario, l’ansia e l’insicurezza si diffondono e prosperano con sempre maggiore intensità. E questo è esattamente lo stato d’animo caratteristico degli avari:

«Essi sono sempre nell’agitazione e la loro anima non ha riposo. La premura di possedere ciò che ancora non hanno fa sí che considerino nulla quello che hanno già. Da un lato, tramano nell’apprensione di perdere ciò che già hanno accumulato e, dall’altro, lavorano per possedere altre cose, il che vuol dire nuovi motivi di paura»[3].

I padri sottolineano spesso l’angoscia mortale che assilla l’avaro, considerata come una serpe che si morde la coda; più possiede e più viene posseduto da ciò che lo spinge ad accumulare, e cioè l’ansia e la paura[4].

La tristezza. Essa è legata alla delusione di non poter mai trovare pienamente quello che brama, ma di sentirsi sempre più indigente: «Come il mare non è mai senza flutti e senza onde, allo stesso modo l’avaro non è mai senza tristezza»[5]. C’è una sorta di strano masochismo in questo vizio, in quanto ciò che si ritiene essere l’unica fonte di felicità, rende in realtà angosciati, fino a rovinarsi la vita: «Non solo gli avari si privano della gioia di ciò che hanno e di ciò che non osano usare a loro piacimento, ma anche di quello di cui non sono mai sazi e hanno sempre sete: vi può essere qualcosa di più penoso?»[6].• Disturbi psicologici e psicosomatici. Il conto che l’avarizia presenta alla vita di chi la coltiva è pesante: nevrosi, incapacità di staccare dal lavoro, di riposarsi, scomparsa di qualunque interesse che sia privo di “interessi”, disturbi del sonno.• Asocialità. Crisi dei legami matrimoniali e familiari in genere, perdita delle amicizie. C’è un legame stretto tra avarizia e antisocialità: l’avaro si trova a suo agio solo in compagnia delle sue cose, le uniche di cui può fidarsi: «L’immagine è quella di un personaggio triste, solitario, abbandonato dagli amici, poco loquace, sempre sospettoso, spesso brusco e arrogante, nel migliore dei casi maleducato»[7], perché l’avarizia abbruttisce l’animo, rende grossolani, superficiali, spenti, infelici, soli, in una parola disumani. La solitudine dell’avaro si mostra anche nella sua tendenza all’invidia delle cose altrui, che gli appaiono come più belle e desiderabili delle proprie. E dunque in tal modo l’avaro non è mai soddisfatto di ciò che ha.

Il frutto conclusivo che riassume tutta la sua esistenza è la polvere, la distruzione di ciò che ha di più caro. Il denaro, avendo preso il posto di Dio, si rivela per quel che è: un nulla che ha annientato tutto il suo essere. Della vita di un avaro infatti non si può dire nulla al di fuori delle cose da lui accumulate: esse sono state la sua vita.

 

«C’è più gioia nel donare che nel ricevere!» (At 20,35)

La felicità, come insegna Gesù, ha una dimensione relazionale e affettiva. Essa è indispensabile per la felicità proprio perché, a differenza della logica della ricchezza, dove tutto ha un prezzo, essa appartiene alla categoria del gratuito. Facciamo due esempi.

• La Hochschild, docente di socilologia a Berkely, aveva intrapreso una ricerca sui limiti del commerciabile con un esperimento, e in modo particolare le conseguenze del monetarizzare anche le prestazioni umane che normalmente vengono svolte tra persone che si vogliono bene, come il viaggiare insieme, il partecipare alle feste, il massaggiare in modo dolce, l’occuparsi di faccende domestiche, ecc. È chiaro che i risultati di tale ricerca hanno messo in luce la perdita dei sentimenti, di quella dimensione romantica e un po’ ingenua che caratterizza l’innamorato e che rimane una delle esperienze più belle e irripetibili della vita: il meraviglioso intreccio dell’amore, con i due partner che si prendono cura l’uno dell’altro, si amano e sono legati spiritualmente, viene ridotto a una prestazione a pagamento, meccanizzata e senza sentimento. Le cose più belle non hanno prezzo, anche se sono in commercio.

Delle conseguenze di questa monetarizzazione la Hochschild se ne accorse in modo lucido anche dalla reazione di sua figlia, quando scoprì che la sua festa di compleanno in realtà era stata allestita da una persona pagata dalla madre. La delusione sul suo volto era più eloquente di ogni discorso. Per quanto l’organizzazione fosse impeccabile, era artificiale, senza cuore; in essa si erano smarriti, insieme ai sentimenti, anche le persone: «”Capii in quel momento di aver oltrepassato il limite” […], il limite di aver varcato il confine del commerciabile tracciato dalla figlia»[8]. E il limite è la disponibilità a perdere tempo, a fondo perduto, con le persone che amiamo.

• Il secondo esempio lo traiamo dalla ricerca condotta dall’équipe della British University of Columbia (Usa) che ha mostrato che non esiste alcuna relazione tra i soldi spesi per se stessi e la gioia di vivere. Al contrario, alla fine si avverte tristezza. Quando invece si compra qualcosa per gli altri, ci si sente più felici di prima. E, questo, indipendentemente dal reddito percepito.

I ricercatori hanno tentato di testare questa differenza fornendo una somma di denaro (5.000 dollari ca.) a 16 impiegati, chiedendo loro quanto si sentissero felici (in un’ipotetica “scala della felicità”) un mese prima di ricevere la somma, e poi un mese e due mesi dopo averla spesa. Coloro che si sentivano più felici, non solo rispetto al resto del gruppo ma anche in rapporto al periodo precedente, erano coloro che avevano impiegato i soldi per fare contenti altri. «Il modo in cui il bonus veniva speso influiva sul grado di felicità di chi lo riceveva in misura maggiore dell’entità del bonus stesso»[9]. Non contenti, gli autori dello studio hanno svolto la stessa indagine su 46 studenti, con i medesimi risultati: la somma ricevuta, per quanto modesta (dai 5 ai 20 dollari), rendeva più felice il suo possessore quando veniva utilizzata per i bisogni altrui.

Donare rende felici. Perché si è felici quando ci si propone di fare felici gli altri. Poveri o ricchi, non fa differenza. Capita, anzi, che i poveri siano più generosi dei ricchi. Strano, ma vero: nel Vangelo i gesti generosi vengono da chi sembra non contare nulla, come nel brano della peccatrice perdonata (cfr. Lc 7,36-50), chi è ricco è più riluttante a donare, spesso dà il superfluo, di malavoglia, e facendolo pesare.

Gesù, guardando le offerte gettate nel tesoro del tempio, fa notare che chi è povero, chi non pretende di possedere e riconosce con gratitudine che ciò che riceve è dono, può veramente donare, anzi diventa dono.

 

L’arte di ridere di sé

Un frutto non molto evidente, forse, ma proprio dei poveri: il saper ridere di sé.

«Arte difficile, che non s’insegna in nessuna università. Arte imprescindibile se si vuole sfuggire a quei due grandi demoni della vita umana: quello che ci incita ad adorare noi stessi e quello che ci spinge a odiarci dall’interno del nostro stesso cuore. […]

Adorare sé stessi è una faccenda piacevole. E sebbene ne siano più tentati i cosiddetti uomini pubblici (i quali, dato che passano metà della vita su pulpiti, cattedre, piattaforme o piedistalli, hanno la facile tendenza a dimenticare la loro effettiva statura), coglie anche coloro che obiettivamente hanno ben pochi motivi per quell’auto-adorazione.

Peggio ancora quelli che odiano sé stessi. Sono milioni. Persone che non si perdonano di non avere realizzato tutti i loro sogni, persone che sono deluse di sé e trasformano quella delusione in amarezza e permalosità.

Per quanto si tenda a credere il contrario, non è affatto facile amare umilmente sé stessi, accettarsi come si è, lottare per essere quanto più possibile migliori, ma sapendo sempre che raggiungeremo questo miglioramento restando brutti come siamo, grassi come siamo e non più brillanti di quello che siamo. Nel comandarci di amare il prossimo come noi stessi, Dio ci ha comandato anche di amare noi stessi come il prossimo»[10].

In primo luogo il sentimento profondo, basilare, il più costante: il povero nell’anima sente che né si adora né si odia, ma ama umilmente sé stesso, si accetta per com’è e lotta per migliorare (cuore idealista) senza smettere di essere com’è e di accettarsi con spirito, senza arrabbiarsi e senza inasprirsi (testa di umorista semiscettico). Come diceva il curato di campagna di Bernanos alla fine della sua vita: «Sono riconciliato con me stesso, con questa povera spoglia»[11]. In secondo luogo, descrive lo sguardo: il povero in spirito ha uno sguardo compassionevole verso le persone, come quello dei genitori verso i loro piccini, e spoglio verso le cose.

Anche la Sacra Scrittura invita il credente a imparare a ridere di sé stesso, perché non deve avere paura delle proprie debolezze e miserie; lo libera dalla preoccupazione di apparire migliore di quello che è; lo libera anche dal giudizio degli altri, che tanto fa soffrire e impedisce di sorridere delle proprie piccinerie, mettendosi un vestito troppo stretto, che non consente di respirare. L’umorismo diventa così un segno di libertà e di verità verso sé stessi, perché si è consapevoli che la propria stima viene da un Altro[12].

Riesci a ridere delle tue abitudini, del tuo comportamento, delle tue stranezze? Sai riconoscere le tue incoerenze per sorriderne con lucidità e benevolenza?

 

Persone di fede

«Dio – dice san Giacomo – ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi mediante la fede» (Gc 2,5). Il Regno rappresenta, nella beatitudine, l'offerta della grazia, la povertà in spirito la risposta di fede dei poveri e dei piccoli. «È come se Gesù dicesse: Beati voi poveri «perché avete creduto»[13].

In questa prospettiva Maria è il modello sublime di questa beatitudine. È la beata perché è la credente. Beatitudine espressa da Elisabetta (Lc 1,45), ma anche da Maria stessa nel Magnificat («D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»: Lc 1,48). Se fede vuol dire accogliere dinamicamente il Dio di Gesù Cristo nella propria vita e lasciarsi coinvolgere nel suo mistero di sofferenza, morte, resurrezione e gloria, Maria certamente è stata una singolare donna di fede. Nel suo itinerario di fede, che ha conosciuto anche le “notti”, Maria ha sempre guardato al Figlio, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).

 

Povertà di sé, adorazione e preghiera

Tra la povertà in spirito e l’adorazione del Padre esiste una relazione splendida e feconda. Infatti rispetto al nostro Padre creatore, che ci ha dato la vita e ci sostiene in essa, siamo, per così dire, sempre «materialmente» poveri. Ma è una scelta libera, sotto il profilo spirituale, quella di riconoscerci creature e adorarlo con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze. Povera nell’anima è la Madonna che traduce il sentimento della sua piccolezza e del dovere tutto a Dio in pura lode, in adorazione piena di gioia e in desiderio di dare gloria al Signore.

Nell’adorazione del Padre, e del Figlio che ha inviato nel mondo, avviene il Regno. Quando si santifica il suo nome, il Regno dei cieli si apre e viene tra noi stabilendosi come volontà che dirige e ordina le azioni di coloro che lo accolgono liberamente. E in aggiunta ci dà il pane, ci perdona, ci libera dalle tentazioni e da ogni male. Quel Regno che è come celato, sotterraneo, velato, nascosto, si apre ed entra in vigore, assume valore, realtà, là dove qualcuno sceglie la povertà spirituale, là dove qualcuno sceglie di non afferrare ma di dare, di non auto-adorarsi ma di adorare il Padre, là dove qualcuno sceglie di non voler possedere né dominare né accampare diritti ma condivide, si spoglia, serve, ama.

La preghiera al Padre – anche quando è preghiera di domanda – è sempre vissuta nell’atteggiamento del povero che non ostenta se stesso, né moltiplica le parole, come fanno i pagani, per essere ascoltato; entrato nella cella del proprio cuore si rivolge con fiducia al Tu, consapevole che Egli «sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,8).

 

___ NOTE ____

[1] Anche quando il sogno della felicità non si realizza, rimane la convinzione che si tratti comunque del male minore. Come nota Woody Allen, «il denaro non dà la felicità, figuriamoci la miseria».

[2] J. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Torino, Einaudi, 2014, 453.

[3] San Giovanni Crisostomo, Commento al vangelo di Matteo, LXXXI, 4.

[4] Cf. San Gregorio Magno, Moralia, XV, 19

[5] San Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XVI, 21.

[6] San Giovanni Crisostomo, Omelie su 1 Corinzi, XXII, 5.

[7] C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000, 120.

[8] A. Russell Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, Bologna, il Mulino 2006, 55-58.

[9] E.W. Dunn – L. B. Akin et Al., «Prosocial Spending and Well-Being: Cross-Cultural Evidence for a Psychological Universal», in Journal of Personality and Social Psychology, n. 104, 2013, 635-652.

[10] J.L. MARTIN DESCALZO, «El arte de reírse de sí mismo», in Razones para la esperanza, Sociedad de educación Atenas, Madrid 1991, 80-81.

[11] G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1965, 272.

[12] R. POUDIER, L’umorismo nella Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996.

[13] Cfr. R. Cantalamessa, Le beatitudini evangeliche. Otto gradi verso la felicità, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, 15-16.

09 Marzo 2019

La donna di valore

La donna di valore

 

festa della donna

TESTO BIBLICO

Proverbi 31,10-31

 

10 Una donna di valore, chi la troverà? Lontano dal corallo il suo prezzo.
11 Confida in lei il cuore di suo marito bottino non mancherà.
12 Arreca a lui bene e non male tutti i giorni della sua vita.
13 Cerca lana e lino, lavora con il gusto delle sue mani.
14 È come le navi di un mercante da lontano fa venire il suo cibo.
15 Si alza quando è ancora notte, dà cibo alla sua casa, e porzione alle sue serve.
16 Esamina un campo e lo compera, con il frutto delle sue mani pianta una vigna.
17 Cinge con forza i suoi fianchi e rafforza le sue braccia.
18 Gusta con piacere che il suo commercio va bene non si spegne di notte la sua lampada.
19 Le sue mani stende verso il fuso, e le sue palme afferrano la rocca.
20 Le sue palme apre al bisognoso e le sue mani stende al povero.
21 Non teme per la sua casa, se nevica, perché tutta la sua casa è rivestita di scarlatto.
22 Si è procurata delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti.
23 È stimato alle porte suo marito, quando siede con gli anziani del paese.
24 Tuniche fa e vende, cinture dà al mercante.
25 Forza e dignità il suo vestito, sorride al giorno che viene.
26 La sua bocca apre con sapienza, un’istruzione di bontà sulla sua lingua.
27 Vigila l’andamento della sua casa, pane di pigrizia non mangia.
28 Si alzano i suoi figli e la dichiarano beata, suo marito per lodarla:
29 «Molte donne hanno fatto prodezze, ma tu hai superato tutte».
30 Ingannevole la grazia e fugace la bellezza, la donna che teme il Signore, essa merita lode.
31 Date a lei dal frutto delle sue mani, lodino lei alle porte le sue opere.

 

COMMENTO

 

Potrebbe sembrare un testo molto maschilista, ossia l’elogio di una donna che sia utile all’uomo. E quindi la nostra lettura e commento del brano sarebbe inutile, perché tradirebbe una cultura che non ha più diritto di cittadinanza. Ma è proprio così?

Anzitutto si noti una cosa: che già al suo tempo questo poema, tratto dal libro della Sapienza, si poneva in contrasto con la cultura dominante. Infatti esso non esalta la bellezza della donna, non descrive inoltre il suo aspetto fisico e non menziona sentimenti d’amore. Di questa donna si sottolinea soprattutto quello che fa. Questa descrizione è sicuramente una critica alla letteratura dedicata alle donne nel Vicino Oriente Antico, la quale era soprattutto interessata all’aspetto fisico della donna e fortemente caratterizzata in senso erotico. Contro l’ideale della perfezione femminile riflessa appunto nella poesia erotica diffusa e coltivata nel contesto delle corti reali e degli harem, il poema acrostico glorifica piuttosto l’agire attivo di una donna impegnata nei normali affari di famiglia e sociali.

Ma che importanza ha per l’autore del poema questo fare instancabile (si alza quando è ancora notte e, d’altro canto, la sua lampada non si spegne neppure di notte)? Non si tratta dell’elogio dell’iper-attivismo, ma di un fare che corrisponde a un progetto preciso, a una previa valutazione attenta (v. 16) – quindi una donna che riesce a realizzare ciò che desidera -; un fare, probabilmente, che non è solo materiale, ma una seconda e più importante finalità: la cura delle relazioni in famiglia e non solo. Tali relazioni per la donna di valore sono più importanti delle cose stesse che fa e dei beni, che sono solo degli strumenti. Il tesoro sono le persone con le quali lei vive in relazione!

Allora più che un testo maschilista, tale poema rappresenta davvero l’ideale – certamente con espressioni iperboliche – di un ritratto femminile caratterizzato dalla sapienza. E qui per “sapienza” non si intende solo un fatto di conoscenza; sapiente è colui che sa vivere, che vive con “gusto” la sua vita.

 

Per un profilo della donna di valore

a) Il “fare”. Addirittura questa donna fa delle cose che solitamente facevano gli uomini: compra un campo, pianta una vigna (cfr. v. 16), fa affari (cfr. v. 24) e insegna (cfr. v. 26). Il lavoro non è visto come compito degli schiavi, come avveniva invece nella colta Grecia, bensì come obbedienza al comando di Dio: “riempite la terra e soggiogatela” (cfr. Gen 1,28). Nel secondo racconto biblico della creazione Dio pose l’essere umano nel giardino appena creato (cfr. Gen 2,15) non solo per prendersi cura dell’esistente (custodire), ma anche per lavorarvi affinché producesse frutti (coltivare). L’uomo, mediante il lavoro umano, è chiamato a far emergere le potenzialità che Dio stesso ha inscritto nelle cose. Si pone nei confronti della creazione come con-creatore di un mondo, creato bello e buono dal Creatore.

La donna del cantico fa proprio questo: con il suo lavoro rende più bello l’ambiente umano familiare ed extrafamiliare.

 

b) A servizio della vita. Con il suo lavoro la donna-sapiente è a servizio della vita. Dei suoi familiari, anzitutto, che hanno “doppio vestito” (v. 21), nonché coperte per ripararsi del freddo della notte (cfr. v. 22), ma anche di chi è nel bisogno (cfr. vv. 19-20). Le mani che si muovono alacremente dal mattino alla sera, sono anche stese verso i poveri.

In questa prospettiva acquista senso il riferimento al «timore del Signore» che si trova alla fine del poema (v. 30). La fede della donna non si manifesta qui attraverso gesti rituali o atteggiamenti devozionali, ma si incarna in gesti concreti di solidarietà che esprimono il senso profondo del progetto di società che la legge del Signore, la sua istruzione, si propone di costruire tra gli uomini. Un progetto alternativo a quello vigente nelle società di ieri e di oggi, centrato, in genere, sul potere, sul prestigio, sul denaro; un progetto, invece, nel quale ogni uomo viene soccorso dal Signore nel suo bisogno, ma attraverso le mani di un fratello.

 

c) Una donna “forte”. L’inizio del poema (v. 10), che dà il tono a tutto ciò che segue, è costituito da un’espressione chiara, ma difficile da tradurre: ʾēšet ḥayil, che viene tradotta dalla LXX con ἀνδρείαν (virile) e dalla Vulgata con mulierem fortem. Il termine ḥayil ricorre 222 volte nella Bibbia ebraica e si riferisce a vari ambiti: alla forza [1], spesso con riferimento a uomini che sono soldati[2] , oppure alla ricchezza[3], al profitto[4]. Generalmente, uomini di questo tipo sono legati al potere, proprietari di beni, persone capaci.

In cosa consiste allora la “fortezza” di questa donna? È chiaro che qui non si parla di una fortezza fisica, ma della fortezza d’animo, propria di chi non si lascia prendere dalla pigrizia, come si afferma chiaramente al v. 27: “pane di pigrizia non mangia”. Il libro dei Proverbi stigmatizza numerose volte l’insipienza del pigro[5] e, in particolare in 21,25, così afferma: “I desideri del pigro lo portano alla morte, perché le sue mani rifiutano di lavorare”. Una donna, quindi, che non si lascia prendere dalla pigrizia, e la allontana prontamente come una tentazione.

 

d) Una donna che vive con “gusto”, gioiosa. All’inizio del libro dei Proverbi si afferma che l’uomo sapiente può gustare nel suo cuore le delizie e dolcezze dalla sapienza stessa (cfr. Pr 2,10). Se, infatti, la sapienza non è solo conoscere le cose ma anche vivere con gusto, con sapore, la nostra donna vive in tal modo il suo impegno. Gesù stesso nel vangelo sostiene che chi vive la sua sapiente parola deve essere una persona “salata”, e avverte che chi nono ha tale gusto fa, paradossalmente, la fine del sale insipido: “a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Mt 5,13; Lc 14,34).

Oserei aggiungere, alla luce delle parole di Gesù, che tale donna deve essere anche felice. In At 20,35 infatti leggiamo: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”. Gioia che la donna prova nel servire con amore i familiari e chi è bisognoso. Gioia, quindi, che è il risultato inaspettato dell’amore. Paradosso molto vero: la gioia si trova quando non la si cerca, quando si è dimentichi di sé e si vive con libertà interiore i propri servizi per amore. La gioia, quindi, non può essere raggiunta in modo diretto. Oggi, come sappiamo, c’è una grande ricerca di gioia, ma paradossalmente chi cerca di ottenerla per sé, mediante il possesso egoistico dei beni, il piacere del godimento, il potere e ogni altra autoaffermazione sulle cose e sui beni creati, si ritrova, alla fine, con in cuore vuoto.

 

e) Una donna religiosa. Al v. 30 si afferma espressamente: “la donna che teme il Signore… merita la lode”. Nel libro dei Proverbi si afferma chiaramente che non si può conseguire la sapienza senza il timore del Signore[6]. Vi si intrecciano un’azione divina e una disposizione umana. La sapienza, infatti, è un dono che il sapiente si dispone a ricevere dall’alto, dall’Unico che possa abbracciarne e afferrarne i segreti misteriosi e inaccessibili. E la preghiera è il luogo più appropriato per chiederla al Signore. D’altra parte ciò si integra, senza contrasto, con la coscienza di una sapienza che è il risultato di una ricerca assidua, di un esercizio di riflessione e di intelligenza per conoscere al meglio la realtà circostante con il gioco delle sue regole vitali. Tuttavia rimane vero che risulta vano ogni sforzo di ricerca umana della sapienza, se il Signore non interviene a donarla.

Ecco l’atteggiamento di questa donna: è sapiente perché aperta ad accogliere la sapienza che Dio dona. Non è una persona orgogliosa, ma umile; ed è, nonostante tutto il suo assiduo impegno, anche una donna di preghiera.

È interessante ciò che afferma il v. 11 del cantico: “In lei confida il cuore del marito”. Al di fuori di questo testo e di Gdc 20,36, infatti, la Scrittura condanna la fiducia riposta in qualcosa o in qualcuno al di fuori del Signore[7]. L’eccezione costituita da Pr 31,11 eleva la donna forte, che teme il Signore, al più alto livello di competenza e di spiritualità. 

f) Una donna bella. Al v. 10 del cantico la donna è paragonata ai «coralli» o alle «perle», gioielli. Eppure in tutto il cantico non si parla, come abbiamo già accennato, della bellezza fisica della donna, né dei suoi gioielli, anzi si afferma: “Ingannevole la grazia e fugace la bellezza” (v. 30). Eppure questa donna è davvero bella. Di quale bellezza? Di quella interiore. Ricordiamo l’insegnamento di San Paolo nella sua lettera a Timoteo: “Alla stessa maniera facciano le donne, con abiti decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce e ornamenti d'oro, di perle o di vesti sontuose” (1Tm 2,9). Anche Pietro, sulla stessa linea, esorta le donne cristiane: “Il vostro ornamento non sia quello esteriore - capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti -; cercate piuttosto di adornare l'interno del vostro cuore con un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio. Così una volta si ornavano le sante donne che speravano in Dio” (1Pt 3,3-5a). Questo deve essere – secondo Pietro – il vero ornamento della moda femminile. Conta ben poco l’ornamento esteriore, mentre va curato il “cuore”, la parte più intima e profonda della persona, la sede della coscienza, da dove sgorgano i pensieri, i desideri e le decisioni. In altre parole Pietro esorta le donne a passare dal piano delle belle cose (monili e vestiti preziosi) si passa al piano dell’essere, quasi a dire che il vero ornamento non sta in ciò che si indossa ma in ciò che si è. Insomma, va coltivata una bellezza integrale che non si limiti all’aspetto fisico, né puramente alla cura dell’anima: una bellezza che tocca l’intero comportamento e trasfigura tutta la persona.

 

Una donna difficile da trovare?

Il v. 10 del cantico, che paragona la bellezza della donna ai gioielli che non sono alla portata di tutti e che non sono neppure facili da trovare, ma esigono una ricerca attenta. Così è la donna di cui il cantico intesse le lodi. Ma è proprio così? Certo, la tradizione cristiana conosce divere donne ufficialmente riconosciute sante. Sono state davvero donne “forti”, che hanno combattuto non solo con le difficoltà della vita, ma anche con Colui che si oppone al vero bene dell’uomo, colui che cerca di vanificare ciò che Dio stesso desidera per l’uomo, Colui che fin dalla Genesi ha cercato di guastare il progetto bello della creazione divina.

E’ chiaro che anche questa domanda va “girata “ a ciascuno di noi: che donna intendo essere?

 

 Padre Michele Babuin, omv

____ NOTE ___

 

[1] Cfr. Gdc 3,29; 1Sam 2,4; Sal 18,33.40; Qo 10,10; Zc 4,6.

[2] Cfr. Gs 1,14; Gdc 6,12; 11,1; 2Re 24,14; 1Sam 16,18; 1Cr 12,9; 2Cr 17,13.

[3] Cfr. Gen 34,29; Nm 31,9; Dt 8,17; 1Re 10,2; 2Cr 9,1; Ez 28,5; Zc 14,14.

[4] Cfr. Ez 28,5; Gb 20,18.

[5] Cfr. Pv 6,6.9; 10,26-27; 13,4; 15,9; 19,24; 20,4; 21,25; 22,13; 24,30; 26,13; 26,14-16.

[6] Cfr. Cf. Pr 1,7.29; 2,5; 8,12-14; 9,10; 15,33. 

[7] Cfr. 2Re 18,21; Sal 118,8-9; Is 36,5; Ger 5,17; 12,6; 48,7; Ez 33,13; Mi 7,5; ecc.

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