Padre Michele

Padre Michele

30 Novembre 2023

Chiamati alla gioia

 

Il nostro cuore anela la felicità

Se guardiamo in profondità nel nostro cuore dobbiamo riconoscere che in esso c’è un anelito profondo di felicità. Conosciamo la celebre frase di sant’Agostino: «Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposta in Te». C’è ancora chi desidera e cerca la felicità, e chi invece si è rassegnato ad una vita cupa, cercando di gustare il più possibile le varie occasioni che la vita offre.

Come cristiani non è sufficiente credere che Dio ci ha creati per la gioia – e qui siamo sul piano logico-riflessivo -, perché dovremmo anche essere esperti – sul piano pratico-esistenziale – di essa. I santi erano persone gioiose. Si pensi da esempio a San Filippo Neri, alla sua gioia, allegria e bontà, tanto da essere ricordato come “il Santo della Gioia” o “il giullare di Dio”. Hanno scoperto il segreto della felicità autentica, che dimora in fondo all’anima ed ha la sua sorgente nell’amore di Dio. Perciò i santi sono chiamati beati. 

 

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44): gioia come libertà

In questo notissimo brano evangelico centrale è la gioia, che è presentata come la reazione interiore alla scoperta del «tesoro», che è Cristo.

Anzitutto le due parabole, con le quali Gesù ci racconta il Regno, parlano di un uomo che quasi per caso scopre un tesoro (come avviene in certe esperienze di conversioni), e nella seconda di colui che cerca esplicitamente la perla più preziosa. Ora se un uomo cerca vuol dire che spera di trovare, e quando lo fa scopre è vero ciò che San Bernardo di Chiaravalle affermò: «Cercare Dio è essere cercato da Lui».

Questa ricerca implica la gioia, una gioia iniziale, quasi embrionale e non ancora manifesta, presente nel profondo del cuore, perché conseguente alla fiducia che il credente ripone in Dio, quel Dio che è mistero buono, non enigma impenetrabile, e si lascia cercare-trovare. E poi la gioia di chi ha trovato. Il quale è così «pieno di gioia» per la scoperta che non esita un attimo a liberarsi di tutti i suoi averi per acquistare il campo.  

Tutta la nostra vita – e anche questo tratto che faremo insieme – è finalizzato alla ricerca del tesoro prezioso, di quella gioia vera che non è data dalle altre perle, per quanto preziose, ma da quella di valore inestimabile che fa impallidire le altre, cioè dall’incontro con Dio. 

 

Una gioia paradossale: le beatitudini

La gioia cristiana è però paradossale. Ce lo dicono le beatitudini. Come è paradossale agli occhi del mondo l’amore di Dio che si è fatto carne ed è morto e risorto per noi. La vera gioia – e non i momenti di entusiasmo o di semplice benessere – scaturiscono dall’incontro con questo Dio paradossale, che vive nella propria carne le beatitudini. Per cui prendere sul serio le beatitudini vuol dire che capiamo che la gioia vera per la nostra vita si ha conformandoci a Gesù, il beato per eccellenza. Le beatitudini non sono solo la carta della vita cristiana, ma sono il segreto del cuore di Gesù stesso». Egli è stato l’unico vero povero in spirito e il solo che abbia vissuto integralmente ciascuna delle beatitudini. Queste ultime si realizzano pienamente nella croce. Sul Calvario, Gesù è stato assolutamente povero, afflitto, mite, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, operatore di pace, perseguitato per la giustizia…

Capiamo quindi che la beatitudine di Gesù, che desidera anche per noi, non è una felicità umana secondo l’immagine abituale, ma una felicità inaspettata, trovata in situazioni e comportamenti che non sono spontaneamente collegati all’idea di felicità. Una felicità che non è un’autorealizzazione umana, ma una «sorpresa di Dio», concessa proprio là dove si considera assente o impossibile. È una felicità trascendente, che Dio dona e che può essere accolta solo da un cuore nuovo, rinnovato dallo Spirito Santo (cfr. Ez 36,26).

Esiste infatti una relazione assolutamente essenziale fra le beatitudini e la persona dello Spirito Santo. Ognuna di esse suppone un’attività dello Spirito Santo, che solo può permettere al cuore dell’uomo di comprenderle e di viverle. La povertà, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di Dio, la misericordia, la purezza del cuore, la comunicazione della pace, la gioia nella persecuzione suppongono un cuore trasformato dallo Spirito.

In senso inverso, si può anche affermare che le beatitudini evocano situazioni umane difficili, ma che sono un’opportunità per chi crede, oppure suscitano un atteggiamento di rifiuto, di difesa, di chiusura. Nella misura in cui alla luce del vangelo prendiamo con fedeltà e fiducia la strada che esse indicano, ci rendiamo disponibili all’azione dello Spirito.

Il cristiano è colui che lentamente è cresciuto in questo sorprendente apprendimento esperienziale: ha imparato a godere proprio laddove l’uomo di solito non può che soffrire; a incrociare lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine o dell’umana ingratitudine; a sentirsi da lui particolarmente custodito proprio quando si è abbandonati e traditi; prezioso ai suoi occhi quando non conti niente per nessuno; figlio suo pre-diletto quando la vita è violenta e chi hai amato ora ti si rivolta contro. Al punto che questa esperienza è divenuta sapienza, nel senso latino del verbo sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

Un obiettivo della mia preghiera deve essere quello di chiedere a Dio di mostrarmi, in quella che è oggi la tappa della mia vita, qual è la beatitudine sulla quale devo incentrare maggiormente la mia attenzione e i miei sforzi e che sarà un po’ la chiave del mio attuale progresso spirituale.

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Christus vivit, Cristo vive. Così s’intitola l’Esortazione post-sinodale che papa Francesco rivolge affettuosamente «ai giovani e a tutto il popolo di Dio», pastori e fedeli. L’amicizia con Cristo è il tema centrale dell’Esortazione apostolica. Christus vivit è un canto all’amicizia con il Signore. Con colui che «è l’eternamente giovane, e vuole donarci un cuore sempre giovane» (CV 13). «La giovinezza è un tempo benedetto per il giovane e una benedizione per la Chiesa e per il mondo. È una gioia, un canto di speranza e una beatitudine. Apprezzare la giovinezza significa vedere questo periodo della vita come un momento prezioso e non come una fase di passaggio in cui i giovani si sentono spinti verso l’età adulta» (CV 135).

La vera giovinezza

Ma che cos’è la giovinezza? Non è semplicemente un fatto di età: «la vera giovinezza consiste nell’avere un cuore capace di amare» (CV 13); e, allo stesso tempo, capace di aspirare a grandi ideali: «Un giovane non può essere scoraggiato, la sua caratteristica è sognare grandi cose, cercare orizzonti ampi, osare di più, aver voglia di conquistare il mondo, saper accettare proposte impegnative e voler dare il meglio di sé per costruire qualcosa di migliore» (CV 15). Ed esorta: «Non bisogna pentirsi di spendere la propria gioventù essendo buoni, aprendo il cuore al Signore, vivendo in un modo diverso. Nulla di tutto ciò ci toglie la giovinezza, bensì la rafforza e la rinnova: “Si rinnova come aquila la tua giovinezza” (Sal 103,5)» (CV 17).

Riprendendo l’episodio del giovane ricco di Mt 19,20-22 che si avvicina a Gesù per chiedere cosa deve fare per ottenere la vita eterna, ma poi declina la proposta esigente del Signore («Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi»), papa Francesco osserva che «in realtà il suo spirito non era così giovane perché si era già aggrappato alle ricchezze e alle comodità. Con la bocca affermava di volere qualcosa di più, ma quando Gesù gli chiese di essere generoso e di distribuire i suoi beni, si rese conto che non era capace di staccarsi da ciò che possedeva. Alla fine, “udita questa parola, il giovane se ne andò, triste” (v. 22). Aveva rinunciato alla sua giovinezza» (CV 18).

La giovinezza di Gesù ci illumina e ci coinvolge nella Risurrezione

Papa Francesco invita i giovani a contemplare il Gesù giovane che ci mostrano i Vangeli, «perché in Lui si possono riconoscere molti aspetti tipici dei cuori giovani. Lo vediamo, ad esempio, nelle seguenti caratteristiche: «Gesù ha avuto una incondizionata fiducia nel Padre, ha curato l’amicizia con i suoi discepoli, e persino nei momenti di crisi vi è rimasto fedele. Ha manifestato una profonda compassione nei confronti dei più deboli, specialmente i poveri, gli ammalati, i peccatori e gli esclusi. Ha avuto il coraggio di affrontare le autorità religiose e politiche del suo tempo; ha fatto l’esperienza di sentirsi incompreso e scartato; ha provato la paura della sofferenza e conosciuto la fragilità della Passione; ha rivolto il proprio sguardo verso il futuro affidandosi alle mani sicure del Padre e alla forza dello Spirito. In Gesù tutti i giovani possono ritrovarsi» (CV 31). Ed è importante vivere l’amicizia con Lui, che è risorto, perché «vuole farci partecipare alla novità della sua risurrezione. Egli è la vera giovinezza di un mondo invecchiato ed è anche la giovinezza di un universo che attende con “le doglie del parto” (Rm 8,22) di essere rivestito della sua luce e della sua vita. Vicino a Lui possiamo bere dalla vera sorgente, che mantiene vivi i nostri sogni, i nostri progetti, i nostri grandi ideali, e che ci lancia nell’annuncio della vita che vale la pena vivere» (CV 32). Il giovane che si lascia rinnovare da Cristo è chiamato a sua volta ad essere missionario: «Il Signore ci chiama ad accendere stelle nella notte di altri giovani» (CV 33).

Al servizio del rinnovamento della Chiesa

È bello constatare che papa Francesco crede nella capacità dei giovani di contribuire ad un rinnovamento della Chiesa. Per una Chiesa che sia «giovane». Ed è tale «quando è se stessa quando riceve la forza sempre nuova della Parola di Dio, dell’Eucaristia, della presenza di Cristo e della forza del suo Spirito ogni giorno. È giovane quando è capace di ritornare continuamente alla sua fonte (CV 35). La Chiesa di Cristo – continua papa Francesco – corre sempre il rischio di invecchiare quando rimane fissata sul passato, o, all’opposto, quello di illudersi di essere giovane «perché cede a tutto ciò che il mondo le offre, credere che si rinnova perché nasconde il suo messaggio e si mimetizza con gli altri»  (CV 35). Inoltre «può sempre cadere nella tentazione di perdere l’entusiasmo perché non ascolta più la chiamata del Signore al rischio della fede, a dare tutto senza misurare i pericoli, e torna a cercare false sicurezze mondane». «Sono proprio i giovani  che possono aiutarla a rimanere giovane, a non cadere nella corruzione, a non fermarsi, a non inorgoglirsi, a non trasformarsi in una setta, ad essere più povera e capace di testimonianza, a stare vicino agli ultimi e agli scartati, a lottare per la giustizia, a lasciarsi interpellare con umiltà. Essi possono portare alla Chiesa la bellezza della giovinezza quando stimolano la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste»  (CV 37).

Se questo è il grande contributo alla Chiesa che papa Francesco chiede ai giovani, «chi di noi non è più giovane ha bisogno di occasioni per avere vicini la loro voce e il loro stimolo, e la vicinanza crea le condizioni perché la Chiesa sia spazio di dialogo e testimonianza di fraternità che affascina. Abbiamo bisogno di creare più spazi dove risuoni la voce dei giovani: «L’ascolto rende possibile uno scambio di doni, in un contesto di empatia» (CV 38).

Il sì di Maria

Papa Francesco invita i giovani a guardare al sì di Maria, giovane. « La forza di quell’“avvenga per me” che disse all’angelo. è stata una cosa diversa da un’accettazione passiva o rassegnata. (…) È stato il “sì” di chi vuole coinvolgersi e rischiare, di chi vuole scommettere tutto, senza altra garanzia che la certezza di sapere di essere portatrice di una promessa. (…) Maria, indubbiamente, avrebbe avuto una missione difficile, ma le difficoltà non erano un motivo per dire “no”. Certo che avrebbe avuto complicazioni, ma non sarebbero state le stesse complicazioni che si verificano quando la viltà ci paralizza per il fatto che non abbiamo tutto chiaro o assicurato in anticipo. (…) Il “sì” e il desiderio di servire sono stati più forti dei dubbi e delle difficoltà» (CV 44).

Guardando a Maria anche i giovani possono dire il loro sì generoso e coraggioso. «Da lei impariamo a dire “sì” alla pazienza testarda e alla creatività di quelli che non si perdono d’animo e ricominciano da capo» (CV 45).

Giovani santi

Papa Francesco ricorda che tanti giovani hanno detto il loro sì e hanno dato la loro vita per Cristo, molti di loro fino al martirio. «Sono stati preziosi riflessi di Cristo giovane che risplendono per stimolarci e farci uscire dalla sonnolenza» (CV 49). «Attraverso la santità dei giovani la Chiesa può rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico. Il balsamo della santità generata dalla vita buona di tanti giovani può curare le ferite della Chiesa e del mondo, riportandoci a quella pienezza dell’amore a cui da sempre siamo stati chiamati: i giovani santi ci spingono a ritornare al nostro primo amore (cfr Ap 2,4)» (CV 50). E ne cita alcuni: San Sebastiano, San Francesco d’Assisi, Santa Giovanna d’Arco, il Beato Andrew Phû Yên, Santa Kateri Tekakwitha, San Domenico Savio, Santa Teresa di Gesù Bambino, i Beati Isidoro Bakanjail, Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo e Chiara Badano. Se questi giovani, insieme a tanti altri «che, spesso nel silenzio e nell’anonimato, hanno vissuto a fondo il Vangelo», anche i giovani di oggi che aprono generosamente il loro cuore a Cristo e vivono in intima amicizia con lui, possono con gioia, coraggio e impegno donare al mondo nuove testimonianze di santità (cfr. CV 63).

Una santità – precisa papa Francesco – che è personale, originale, unica: «Ti ricordo che non sarai santo e realizzato copiando gli altri. E nemmeno imitare i santi significa copiare il loro modo di essere e di vivere la santità: ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Tu devi scoprire chi sei e sviluppare il tuo modo personale di essere santo, indipendentemente da ciò che dicono e pensano gli altri. Diventare santo vuol dire diventare più pienamente te stesso, quello che Dio ha voluto sognare e creare, non una fotocopia» (CV 162).

Alcune indicazioni di percorso

In questa prospettiva papa Francesco offre alcune indicazioni per vivere in pienezza il dono della giovinezza:

- anzitutto vivere la giovinezza come «tempo di donazione generosa, di offerta sincera, di sacrifici che costano ma ci rendono fecondi»  (CV 108);

- non cedere al lamento, alla rassegnazione: «Quando tutto sembra fermo e stagnante, quando i problemi personali ci inquietano, i disagi sociali non trovano le dovute risposte, non è buono darsi per vinti. La strada è Gesù: farlo salire sulla nostra “barca” e prendere il largo con Lui! Lui è il Signore! Lui cambia la prospettiva della vita» (CV 141);

- perseverare sulla strada dei sogni. «Per questo, bisogna stare attenti a una tentazione che spesso ci fa brutti scherzi: l’ansia. Può diventare una grande nemica quando ci porta ad arrenderci perché scopriamo che i risultati non sono immediati. I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta. Nello stesso tempo, non bisogna bloccarsi per insicurezza, non bisogna avere paura di rischiare e di commettere errori» (CV 142);

- vivere pienamente il presente «usando le energie per le cose buone, coltivando la fraternità, seguendo Gesù e apprezzando ogni piccola gioia della vita come un dono dell’amore di Dio» (CV 147). «Mentre lotti per realizzare i tuoi sogni, vivi pienamente l’oggi, donalo interamente e riempi d’amore ogni momento. Perché è vero che questo giorno della tua giovinezza può essere l’ultimo, e allora vale la pena di viverlo con tutto il desiderio e con tutta la profondità possibili» (CV 148). E «questo vale anche per i momenti difficili, che devono essere vissuti a fondo… Egli è lì dove noi pensavamo che ci avesse abbandonato e che non ci fosse più alcuna possibilità di salvezza. è un paradosso, ma la sofferenza, le tenebre, sono diventate, per molti cristiani luoghi di incontro con Dio» (CV 149).

- vivere ogni giorno l’amicizia con Cristo: «Per quanto tu possa vivere e fare esperienze, non arriverai al fondo della giovinezza, non conoscerai la vera pienezza dell’essere giovane, se non incontri ogni giorno il grande Amico, se non vivi in amicizia con Gesù» (CV 150). E la preghiera è certamente il luogo privilegiato nel quale conversare con Gesù, con l’Amico, con il quale condividere le cose più segrete. «La preghiera è una sfida e un’avventura. E che avventura! Ci permette di conoscerlo sempre meglio, di entrare nel suo profondo e di crescere in un’unione sempre più forte. La preghiera ci permette di raccontargli tutto ciò che ci accade e di stare fiduciosi tra le sue braccia, e nello stesso tempo ci regala momenti di preziosa intimità e affetto, nei quali Gesù riversa in noi la sua vita. Pregando “facciamo il suo gioco”, gli facciamo spazio perché Egli possa agire e possa entrare e possa vincere» (CV 155).

- vivere l’amicizia vera e sincera con gli amici che sono al nostro fianco, che «sono un riflesso dell’affetto del Signore, della sua consolazione e della sua presenza amorevole. Avere amici ci insegna ad aprirci, a capire, a prenderci cura degli altri, a uscire dalla nostra comodità e dall’isolamento, a condividere la vita. Ecco perché “per un amico fedele non c’è prezzo” (Sir 6,15)» (CV 151).

- impegnarsi con coraggio nel sociale per contribuire alla costruzione di un mondo migliore. «Per favore – esorta papa Francesco – non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi siete quelli che hanno il futuro! Attraverso di voi entra il futuro nel mondo. A voi chiedo anche di essere protagonisti di questo cambiamento. Continuate a superare l’apatia, offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. Cari giovani, per favore, non guardate la vita “dal balcone”, ponetevi dentro di essa. … lottate per il bene comune, siate servitori dei poveri, siate protagonisti della rivoluzione della carità e del servizio, capaci di resistere alle patologie dell’individualismo consumista e superficiale» (CV 174).

- e, infine, essere missionari nei vari ambienti di vita. «Giovani, non lasciate che il mondo vi trascini a condividere solo le cose negative o superficiali. Siate capaci di andare controcorrente e sappiate condividere Gesù, comunicate la fede che Lui vi ha donato. Vi auguro di sentire nel cuore lo stesso impulso irresistibile che muoveva San Paolo quando affermava: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16)» (CV 176).

Ulisse od Orfeo?

Concludiamo con un’immagine. Ce la fornisce lo stesso Papa Francesco che, dopo aver esortato i giovani a non cedere al canto delle sirene, richiama due personaggi mitologici, entrambi positivi: Ulisse e Orfeo. Ma lui preferisce il figlio del dio della musica (Apollo) e della dea dell’eloquenza (Calliope) e lo propone ai giovani. Così scrive: «Ulisse, per non cedere al canto delle sirene, che ammaliavano i marinai e li facevano sfracellare contro gli scogli, si legò all’albero della nave e turò gli orecchi dei compagni di viaggio. Invece Orfeo, per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene. Ecco il vostro grande compito: rispondere ai ritornelli paralizzanti del consumismo culturale con scelte dinamiche e forti, con la ricerca, la conoscenza e la condivisione» (CV 223). E per realizzare questo grande compito nella Chiesa e nel mondo «bisogna mettersi molto in gioco, bisogna rischiare»! (CV 289).

 

Articolo tratto da: Myriam "Lasciamoci salvare da Cristo" (n. 1 del 2020)

In papa Francesco l’alleanza con Dio è il fondamento di una sana e costruttiva alleanza con l’umanità e con la terra.

Alleanza con Dio
Prima ancora che l’uomo cerchi Dio, è Dio che ha cercato l’uomo, che si è rivelato a lui e ha stretto alleanza con lui. L’alleanza, dunque, è anzitutto un dono divino. Sgorga dal desiderio eterno di Dio che ha accompagnato la creazione dell’universo e della creatura umana che ne è il vertice: desiderio di salvarlo ed elevarlo alla vita divina in Cristo (cfr. Ef 1,4-5), di introdurlo cioè nella circolarità eterna dell’amore del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. In questa prospettiva la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II così afferma: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio» (n. 19). L’uomo si realizza pienamente solo tendendo a questo fine esistenziale, vivendo la sua esistenza, nella varietà degli ambiti di vita, già davanti a Lui, in «santità di vita», come «figlio adottivo» (Ef 1,5) in Cristo.
È Dio stesso che, desiderando il vero bene della sua creatura, si è impegnato a stringere alleanza con l’uomo. Lo ha fatto con Abramo, sottraendolo da una realtà familiare di morte, ponendolo in cammino con una promessa di vita: un nome grande, una discendenza, una terra…; promessa confermata dalla solenne alleanza con il patriarca narrata in Gen 15 e riconfermata da Dio più volte. Dio è fedele. Giustamente papa Francesco, commentando il Salmo 105, afferma: «Il Signore si è sempre ricordato della sua alleanza. […] Il Signore non dimentica, non dimentica mai. Sì, dimentica soltanto in un caso, quando perdona i peccati»(Omelia 2.4.2020).
Quest’alleanza storicamente si è ampliata sul Sinai: da alleanza con una persona ad alleanza con un popolo, Israele, che egli ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto perché possa essere un popolo sacerdotale in mezzo a tutti i popoli della terra. Infine in Cristo si compie la «nuova alleanza» (cfr. Lc 22,20) sigillata con il suo sangue sulla croce.
Il Papa stesso pone in relazione elezione, promessa e alleanza come tre dimensioni della vita cristiana: «Ognuno di noi è un eletto, nessuno sceglie di essere cristiano fra tutte le possibilità che il “mercato” religioso gli offre, è un eletto. Noi siamo cristiani perché siamo stati eletti. In questa elezione c’è una promessa, c’è una promessa di speranza, il segnale è la fecondità: Abramo sarai padre di una moltitudine di nazioni e … sarai fecondo nella fede (cf. Gen. 17,5-6). La tua fede fiorirà in opere, in opere buone… Ma tu devi osservare l’alleanza con me (cf. 17,9). E l’alleanza è fedeltà. […] Tu sei cristiano se dici di sì all’elezione che Dio ha fatto di te, se tu vai dietro le promesse che il Signore ti ha fatto e se tu vivi un’alleanza con il Signore: questa è la vita cristiana. I peccati del cammino sono sempre contro queste tre dimensioni: non accettare l’elezione e noi “eleggere” tanti idoli, tante cose che non sono di Dio. Non accettare la speranza nella promessa, andare, guardare da lontano le promesse, anche tante volte, come dice la Lettera agli Ebrei (cf. Eb. 6,12; Eb. 8,6), salutandole da lontano… e vivere senza alleanza, come se noi fossimo senza alleanza» (Omelia 2.4.2020)
Con questa consapevolezza il cristiano esprime nella preghiera lo slancio interiore, il desiderio del suo cuore: vivere gli impegni di ogni giorno illuminato e sostenuto da quel rapporto con Dio, Padre tenerissimo, che Gesù ci ha rivelato (cfr. Mt 6,7-9) – tanto da osare di chiamarlo in modo confidente Abbà, “papà” –. «Il cristianesimo – scrive papa Francesco – ha bandito dal legame con Dio ogni rapporto “feudale”. Nel patrimonio della nostra fede non sono presenti espressioni quali “sudditanza”, “schiavitù” o “vassallaggio”; bensì parole come “alleanza”, “amicizia”, “promessa”, “comunione”, “vicinanza”. Nel suo lungo discorso d’addio ai discepoli, Gesù dice così: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Gv 15,15-16). Ma questo è un assegno in bianco: “Tutto quello che chiederete al Padre mio nel mio nome, ve lo concedo”!
Dio – continua papa Francesco – è l’amico, l’alleato, lo sposo. Nella preghiera si può stabilire un rapporto di confidenza con Lui, tant’è vero che nel “Padre nostro” Gesù ci ha insegnato a rivolgergli una serie di domande. A Dio possiamo chiedere tutto. Non importa se nella relazione con Dio ci sentiamo in difetto: non siamo bravi amici, non siamo figli riconoscenti, non siamo sposi fedeli. Egli continua a volerci bene. È ciò che Gesù dimostra definitivamente nell’Ultima Cena, quando dice: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,20). In quel gesto Gesù anticipa nel cenacolo il mistero della Croce. Dio è alleato fedele: se gli uomini smettono di amare, Lui però continua a voler bene, anche se l’amore lo conduce al Calvario. Dio è sempre vicino alla porta del nostro cuore e aspetta che gli apriamo. E alle volte bussa al cuore ma non è invadente: aspetta. La pazienza di Dio con noi è la pazienza di un papà, di uno che ci ama tanto. Direi, è la pazienza insieme di un papà e di una mamma. Sempre vicino al nostro cuore, e quando bussa lo fa con tenerezza e con tanto amore.
Proviamo tutti a pregare così, entrando nel mistero dell’Alleanza. A metterci nella preghiera tra le braccia misericordiose di Dio, a sentirci avvolti da quel mistero di felicità che è la vita trinitaria, a sentirci come degli invitati che non meritavano tanto onore. E a ripetere a Dio, nello stupore della preghiera: possibile che Tu conosci solo amore?» (Udienza generale 13.05.2020).

Alleanza tra gli uomini

Se gli uomini sapranno riconoscere questo volto di Dio, saranno capaci di vivere – in questo mondo segnato da molteplici ombre e dalla mancanza di un progetto per tutti – quella fraternità e amicizia sociale che con forza papa Francesco rilancia nell’enciclica Fratelli tutti. L’alleanza con Dio trova espressione nell’alleanza con gli altri uomini – di ogni cultura e religione – per un mondo aperto alla giustizia e all’amore, per un mondo fraterno che sappia promuovere il bene comune e, all’interno di esso, quello dei singoli uomini. Ritorna anche qui l’idea che per giungere a ciò – all’alleanza – è necessaria – come ha fatto Dio – l’elezione: eleggere come amici i fratelli vicini e lontani per portare ad essi – nel cuore della fraternità – il “tu” dell’amico. L’amicizia sociale è una forma di amore ed è il frutto di quell’amore che ci spinge ad uscire da noi stessi per andare incontro agli altri, vicini e lontani: «La vera carità – scrive papa Francesco – è capace di includere tutto questo nella sua dedizione e, se deve esprimersi nell’incontro da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di generare» (n. 165).
Per papa Francesco le dense ombre di un mondo chiuso sono numerose e prende in considerazione alcune tendenze che sono d’ostacolo alla fraternità universale: «la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero» (n. 13); la mancanza di un progetto per tutti, negando «con varie modalità, ad altri il diritto di esistere e di pensare» (n. 15); la cultura dello «scarto» di quelle persone che «non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili» (n. 18), il non rispetto dei diritti umani (n. 22), le «guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana» in molte regioni del mondo, «tanto da assumere fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”» (n. 25); «la solitudine, le paure e l’insicurezza di tante persone, che si sentono abbandonate…» (n. 28). Di fronte a tutto ciò – con l’aggravante delle pandemie e dei flagelli della storia (nn. 32-36), nonché delle migrazioni di un massiccio numero di persone che sfuggono alle guerre e alla povertà (nn. 37-41) –, urge il superamento di ogni forma di egoismo e di violenza in vista di una fraternità universale, urge un cammino di speranza per un mondo migliore: «la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n. 55).
Alleanza con la terra
Affinché si possa tendere – con passi concreti e coraggiosi – alla realizzazione di un mondo aperto e fraterno – anche con il prezioso aiuto delle varie religioni –, è necessario che venga salvaguardato l’ambiente nel quale viviamo. Sorge qui il grande tema dell’ecologia, ampliamente trattato da papa Francesco nell’enciclica Laudato sii. L’uomo non è un dominatore indiscriminato della terra, bensì il custode di essa per il bene di tutta l’umanità.
Ispirandosi ai testi biblici, che ci ricordano che «la cura autentica della nostra vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti con gli altri», l’enciclica ci chiede di partire dalle risorse, dalla terra, dall’acqua, dall’agricoltura e dal cibo, con un afflato ecologico che comprende anche l’uomo, scegliendo di non più tollerare le ingiustizie che perpetriamo – tanto alla natura quanto ai nostri fratelli e sorelle –. Ancora una volta si parla di alleanza: quella tra l’umanità e l’ambiente alla quale si deve impegnare la formazione nei vari ambiti educativi (scuola, famiglia, mezzi di comunicazione, catechesi, ecc): «solamente partendo dal coltivare solide virtù è possibile la donazione di sé in un impegno ecologico» (n. 211).
Anche qui l’alleanza tra l’uomo e la terra per una “cittadinanza ecologica” richiede una scelta: la «conversione interiore». Francesco cita Benedetto XVI: «i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo perché i deserti interiori sono diventati così ampi», e conclude: «vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (n. 217). L’uomo, “rinnovato” nel proprio cuore sarà così capace di un’«ecologia integrale»: ambientale, economica, sociale, culturale, della vita quotidiana, che protegge il bene comune e sa guardare al futuro.

Articolo tratto da: Myriam  "Nuova ed eterna Alleanza" (n. 1 del 2021)

La prospettiva paolina dell’unione con Dio

Secondo l’insegnamento di Paolo, lo scopo della nostra elezione in Cristo, ancora prima della creazione del mondo, è di volerci «santi e immacolati al suo cospetto»; cioè siamo stati eletti per «essere alla continua presenza agli occhi di Dio» (Ef 1,4). L’elezione ordinata alla santità quindi ha il significato di «essere accolti da Dio nella nostra essenza eternamente eletta in Cristo» e di essere fatti capaci di stare davanti a Dio, dialogare e vivere in comunione con lui. L’essere santi si concretizza nella condizione esistenziale di «figli adottivi di Dio» (Ef 1,5) in Cristo.

Di conseguenza il fine e la ragione dell’impegno dell’uomo è di portare a compimento lo sviluppo dell’unione con Dio in Cristo. Al riguardo, la Gaudium et Spes fa la seguente affermazione: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste infatti se non perché creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore» (GS 19).

La dichiarazione della Costituzione del Vaticano II risulta in piena consonanza con il dato biblico, soprattutto quello incontrato nella Lettera ai Colossesi 1, 15-17 e agli Efesini 1, 3-4, il quale esprime chiaramente, che la vocazione dell’uomo all’unione con Dio non solo è per mezzo di Cristo, ma è partecipazione della stessa relazione naturale che circola tra Dio Padre e Gesù Cristo suo Figlio naturale. Cioè Dio Padre ci ha voluti in Cristo e per mezzo di Cristo per farci partecipi di tutto ciò che è Cristo, di ciò che è di Cristo e, di conseguenza, anche della relazione filiale esistente tra Cristo Figlio naturale e il Padre. Ciò significa che, per grazia, la nostra unione con Dio Padre è partecipazione della stessa unione di amore che corre tra il Padre e il Figlio e tra questi e il Padre, siamo introdotti cioè e coinvolti nella circolarità dello stesso amore che nello Spirito Santo circola dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre.

Ai riferimenti delle due lettere della prigionia si possono aggiungere altri testi neotestamentari che esprimono, altrettanto chiaramente, che l’unione di Dio con noi è della stessa portata di quella tra il Padre e il Figlio: «Come tu Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17, 21). L’effetto di tale partecipazione è che «le cose del Figlio non sono solo del Padre, e quelle del Padre non sono solo del Figlio», ma la ragione di essere del Figlio è perché siano anche di noi figli nel Figlio. Una testimonianza a conferma di ciò viene dall’ambito dell’esperienza spirituale; san Giovanni della Croce non esita ad affermare: «le anime possiedono per partecipazione gli stessi beni che Cristo Figlio di Dio possiede per natura»[1].

Dio mediante la grazia dell’elezione dell’uomo in Cristo per l’unione con sé si abbassa a tal punto che si mette a servizio dell’uomo, si fa suo partner, e gli conferisce una sua propria personalità per stargli davanti, che lo fa “uguale” a sé, e che non gli fa sentire cioè l’inferiorità. Dio, chiamando l’uomo all’unione con sé in Cristo, non solo gli dona di “stargli davanti”, di essere suo diretto interlocutore, ma gli fa un dono di cui niente è più grande, poiché la peculiarità e la straordinarietà di tale dono consiste, come abbiamo detto, nel donargli se stesso, quale suo proprio senso e pienezza.

Per questo non esiste creatura che sia coronata di dignità più eccelsa di quella dell’uomo.

La grazia della chiamata all’unione, costituisce quindi la meta definitiva dell’uomo, ed è per natura anche causa di tutto ciò che è l’uomo e di tutto ciò che Dio ha compiuto e compie nella storia della salvezza a suo favore. Tale grazia cioè è la ragione degli elementi costitutivi ed essenziali della sua struttura, di tutti i gesti salvifici che Dio ha compiuto e continua a compiere lungo tutto l’arco della storia, e di tutti i beni e doni che gli ha fatto e gli fa in Cristo per lo Spirito Santo: dalla creazione all’incarnazione del suo Figlio diletto, alla redenzione nel sangue del Figlio, all’invio dello Spirito Santo, alla istituzione della comunità del Signore risorto, al dono della parola, dei sacramenti, della preghiera e infine al dono della partecipazione allo stato glorioso del Figlio suo Gesù Cristo.

 

Caratteristiche dell’unione

L’unione è possibile solo tra persone. La persona, in quanto essere in relazione, può avere la piena comprensione di sé solo in riferimento all’altro diverso da sé, per cui si può dire che nessuno è fatto per bastare a se stesso, ma ciascuno riesce ad attuare realmente la propria identità solo nella comunione con l’altro. Una comunione alla pari.

Inoltre l’unione tra due persone esige necessariamente la reciproca appartenenza e mutua donazione. La donazione reciproca, però, è vera, ed è bene per chi dona e per chi riceve, soltanto se le due persone si appartengono.

Il contrario di questo consiste nel depersonalizzare l’unione e nell’oggettivizzare l’altro, consiste cioè nell’atteggiamento o intenzione di possedere o di farsi possedere dall’altro. Non si può parlare quindi di vera unione dove al posto della parità dei soggetti si verifica la disuguaglianza tra loro, o la riduzione di uno dei due a oggetto dell’altro: là dove è rispettata la diversità dell’altro e la si promuove, lì c’è la vera unione e la vera crescita dei diversi che si donano e si appartengono. La parità tra i due soggetti e la promozione della diversità sono talmente essenziali nella vita di unione che escludono ogni deroga. L’esclusione di deroga vale anche per l’unione tra Dio e l’uomo, nonostante l’abissale disparità tra i due. Il problema della disparità lo ha risolto Dio, amore onnipotente. Dio, cioè, per salvaguardare la legge del carattere personale dell’unione e l’esigenza dell’uguaglianza, ha voluto creare l’uomo a sua immagine, cioè come copia di se stesso, come se stesso per partecipazione. La legge intrinseca dell’unione esige reciprocità da ambo le parti, per cui se da una parte la volizione dell’uomo come immagine lo mette sul piano di Dio, dall’altra c’è anche l’esigenza che Dio scenda e si metta sulla linea dell’uomo. Tutto questo si è fatto reale e visibile nell’evento dell’incarnazione del Figlio suo Gesù Cristo. In lui Dio si rivela essere il Dio con gli uomini e in mezzo agli uomini. Però, parlando della struttura e della dinamica dell’unione tra l’uomo e Dio bisogna precisare che essa più che un’unione con e per, è un’unione in, che è la forma più alta dell’unione, poiché si tratta della partecipazione dell’unione che circola tra le tre divine Persone. Perciò, perché l’appartenenza reciproca tra Dio e l’uomo sia perfetta e piena bisogna che consista essere uno nell’altro: Dio è nell’uomo e l’uomo in Dio.

 

L’amore dinamismo dell’unione

La dinamica dell’unione tra Dio e l’uomo ha una fisionomia differente da quella che c’è tra l’uomo e il suo simile. L’unione personale nella reciprocità tra Dio e l’uomo ha origine nell’amore gratuito di Dio, e dalla decisione di Dio di donare se stesso all’uomo non per un bisogno ma per rendere l’uomo uguale a se stesso. Da parte di Dio nei confronti dell’uomo la gratuità è assoluta. Tra Dio e l’uomo, l’essere l’uno nell’altro è sempre ed esclusivamente a favore dell’uomo. Dio è nell’uomo non per possederlo ma per donarglisi totalmente e arricchirlo di sé, e l’uomo è in Dio, non per arricchire Dio, che sarebbe una pura assurdità, ma per prendere di lui e arricchirsi di lui. Il donarsi di Dio non solo è privo di compensazione, ma si configura come un uscire da sé fino a prendere la forma e la condizione umana. Ciò fa sì che il donarsi gratuito di Dio si risolve nella kenosi, nell’abbassamento. Tuttavia, la kenosi, derivante dall’amore, non è annullamento ma manifestazione dell’onnipotenza. L’abbassamento di Dio rivela e produce la divinizzazione dell’uomo e la sua trasformazione in Dio.

Per san Giovanni della Croce la trasformazione, considerata alla luce di 1Gv 3, 2, ha il significato di diventare simili a Dio: cioè precisa il Santo «non nel senso che l’anima acquisterà le perfezioni di Dio, che è  impossibile, ma nel senso che tutto ciò che ella è, diventerà simile a Dio, per cui si chiamerà e sarà Dio per partecipazione»[2].

Ciò significa che l’anima trasformata è stata rivestita della “forma” di Dio e che in lei, quindi, non ci sarà più niente che non sia di Dio e che non esprima Dio; e tanto risplende della luce di Dio, che Dio guardandola vede in lei se stesso.

L’anima è diventata, secondo l’espressione di Teresa di Gesù, lo specchio nel quale «apparve nostro Signore…, parendomi di vederlo in ogni parte della mia anima come per riflesso. E intanto lo specchio si rifletteva tutto nel Signore per una comunicazione amorosissima che non so dire»[3].

La dinamica dell’appartenenza e donazione reciproca può essere compresa nella linea della chiamata e risposta. Nel caso dell’unione tra Dio e l’uomo, però, non essendoci la parità di condizione, l’iniziativa della chiamata spetta a Dio e solo a lui: è lui che chiama donandosi, mentre il ruolo proprio dell’uomo è di rispondere, di obbedire liberamente all’iniziativa di Dio donandosi. L’uomo, benché creatura, è messo dalla chiamata autodonante di Dio nella condizione di rispondergli con il dono si sé.

La donazione di sé a Dio altro non è che la donazione di ciò che Egli gli ha donato. E l’uomo, per il fatto di essere rivestito da Dio delle sue perfezioni, non solo è fatto degno di presentarsi a Dio e stargli davanti come suo partner, ma è amato da Dio con lo stesso amore con cui Dio ama se stesso: in definitiva, si può dire che Dio amando l’uomo ama se stesso, oppure che Dio si ama nell’uomo.

Il fatto dell’unione con Dio, costituendo l’elemento costitutivo principale della struttura dell’essere umano, fa pensare che la realizzazione del cristiano non può che avvenire sviluppando il rapporto personale con Dio in Cristo fino al traguardo finale mediante l’azione dello Spirito Santo. Il cristiano camminando con fedeltà nell’unione con Dio realizza - perfeziona - se stesso, e dà testimonianza che solo Dio è il vero senso e scopo della vita umana. Tuttavia la “via” che il cristiano deve percorrere non può che essere Cristo: poiché se siamo stati voluti in lui per partecipare di lui, non è ipotizzabile altra via fuori di lui: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).

Siamo stati voluti infatti per avere la stessa forma di Cristo (cf. Rm 8, 29).

L’attività dello Spirito Santo nel cristiano è finalizzata a trasformarlo e conformarlo all’immagine del Figlio incarnato di Dio, a renderlo partecipe della sua filiazione naturale, così da poter stare davanti a Dio e rivolgersi a lui come a suo proprio Padre, essere amato da lui come suo vero figlio e fatto partecipe della stessa gloria del suo Figlio naturale, Cristo Gesù. Il compito della terza persona della Trinità è appunto d’insegnare ai discepoli il mistero di Cristo, di farglielo accogliere come senso e significato della loro esistenza, di provocare la loro adesione a lui, di istruirli riguardo al modo di essere suoi discepoli, di far assimilare a loro la sua mentalità, che è la stessa mentalità del Padre.

 

L’esistenza umana lacerata dal peccato

L’uomo, nonostante la sua origine divina e la sua chiamata all’unione con Dio in Cristo, ha assunto nei confronti di Dio un atteggiamento di sfida, di rivalità e di contrapposizione. La sua pretesa è di voler farsi un proprio progetto su di sé, alternativo a quello di Dio; cioè di realizzarsi sradicandosi da Cristo. Tutto questo significa rifiutare la propria oggettività costitutiva, cioè il proprio essere in Cristo e la relazione personale con Dio. Ed è questo un peccato radicale, la cui forza distruttiva colpisce anzitutto l’identità dell’uomo, il suo essere in Cristo che rimane profondamente sfigurato.

Inoltre l’uomo sperimenta in sé una lacerazione a causa del peccato delle origini. Nel sacrario intimo da una parte avverte la chiamata al bene, alla comunione e all’amore, dall’altro sperimenta la legge del peccato che gli impedisce di assecondare la chiamata divina. Anzi la legge del peccato gli fa sentire pungolante la legge della comunione con Dio in Cristo, per convincerlo dell’incapacità di sottrarsi alla «inesorabile regolarità del dover peccare e  del dover fallire», per convincerlo cioè che per lui non c’è più niente da fare, che per lui c’è oramai la sola realtà della morte.

L’uomo storico, dice Paolo, è totalmente prigioniero dell’ordinamento del peccato: «vedo un’altra legge nelle mie membra che si oppone alla legge della mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nella mia carne» (Rm 7, 23).

La morte di cui parla Paolo non riguarda la morte come fenomeno naturale, che ci sarebbe stata comunque anche senza il peccato. La morte di cui parla Paolo è la conseguenza della pretesa di fondare la sua esistenza su di sé, cioè su una base che non può dare vita, separandosi e sradicandosi in tal modo da Dio, che è il fondamento del suo essere e della sua dignità di uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. San Paolo esprime questo pensiero nella Seconda lettera ai Corinti: «Abbiamo ricevuto la sentenza di morte per imparare a non riporre la fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà ancora, per la speranza che abbiamo riposta in lui, che ci libererà» (2Cor 1,9-10). Quindi secondo Paolo la liberazione dell’uomo non è dalla morte fisica, ma da quella più pericolosa: l’autodistruzione di se stesso.

 

La libertà umana di auto decidersi per il proprio bene

Se è vero, come lo è, che il vero senso dell’uomo è comprensibile solo conoscendo il suo ultimo fine, e che l’uomo riesce a dare senso compiuto alla sua esistenza solo conseguendo il fine ultimo e definitivo, la stessa cosa si può dire della libertà umana, cioè che il senso, e quindi la natura della libertà umana sono comprensibili conoscendo lo scopo per cui Dio ha partecipato all’uomo la sua libertà. Se la ragione della provvidenza di tutta la struttura dinamica sta nel fatto che l’uomo esiste sì, ma non già totalizzato, allora anche la ragione della libertà sta nel fatto che all’uomo è affidato il compito e la responsabilità di costruire la sua esistenza nella storia e nel tempo. Compiendo quelle scelte e solo quelle che gli permettono di autocostruirsi e di raggiungere il fine definitivo per cui è stato voluto e chiamato da Dio ad esistere in Cristo.

Tuttavia lo stato d’incompletezza dell’essere dell’uomo coinvolge anche la libertà; per cui la libertà umana è, sì, data e ordinata a compiere le scelte che permettano all’uomo di realizzarsi, ma anch’essa giace nello stato d’incompletezza e ha quindi bisogno di diventare libera, cioè di crescere in libertà, con scelte orientate al proprio bene, non cedendo al condizionamento del peccato che orienta a scelte opposte. In altre parole la libertà umana può diventare libera e crescere in libertà non solo liberandosi dai condizionamenti esterni ed interni, ma soprattutto compiendo sempre e unicamente scelte che la determinano al bene. Ciò significa che la vera via della crescita della libertà e quindi della realizzazione e costruzione dell’uomo è quella della radicale e fedele obbedienza alla sua oggettività costitutiva: crescere in libertà, che è poi la vera autocostruzione dell’uomo, equivale a orientarsi in modo determinato e costante a Cristo. Allora diventare libero per l’uomo significa non porsi in atteggiamento autonomo e indipendente davanti a Cristo ma aderendo con vero e profondo spirito di obbedienza a lui.

L’obbedienza del cristiano, quindi, manifesta la natura e soprattutto la finalità della libertà come partecipazione a quella di Cristo nei riguardi del Padre (cfr. Gv 15,10), che in tutto ha compiuto la sua volontà; una libertà aperta, ricevente e totalmente obbediente.

 

Lo Spirito di Cristo, spirito del cristiano

L’invio dello Spirito Santo a noi a Pentecoste dà origine ad alcune novità di grande rilievo. Balza anzitutto l’aspetto di storicizzazione dello Spirito Santo, causata appunto dalla nuova relazione instauratasi tra lo Spirito Santo e la storia umana, e viceversa. È accaduto che lo Spirito ha assunto quella dimensione storico-temporale, che apparteneva soltanto al  Cristo terreno, e che dopo la pasqua appartiene anche a lui: si può dire che egli ha preso il posto del Cristo storico. Col mistero pasquale si è verificato un capovolgimento: il Cristo, divenuto Signore e asceso alla destra del Padre nella gloria, è uscito dalla storia e dal tempo degli uomini, lo Spirito Santo invece è disceso ed ha assunto, con modalità diversa, la dimensione storica, che prima era del Cristo.

Il dover «dimorare per sempre presso di noi» (Gv 14, 16) mette in luce un altro aspetto molto importante sia per la teologia che per la vita spirituale; riguarda il dimorare della persona dello Spirito Santo nel cristiano. Se infatti prima della pasqua si suole parlare dell’uomo come di un essere in Cristo, con la Pentecoste si deve dire dell’uomo che è anche un «essere nello Spirito».

L’affermazione più importante e più esplicita al riguardo si trova nella Lettera ai Romani 8, 9, ed è la seguente: «voi non siete nella carne, bensì nello Spirito». Il senso dell’espressione, nell’intenzione di Paolo, non è parenetico, bensì indicativo: in essa cioè Paolo parla non di un comportamento che il cristiano deve tenere, ma di ciò che egli è diventato mediante la presenza permanente dello Spirito Santo in lui; cioè Paolo fa capire che il cristiano esiste caratterizzato da una nuova connotazione, pneumatica appunto, per cui è diventato «un essere nello Spirito Santo» in quanto, dice Paolo, lo «Spirito di Dio» si è impossessato della sua esistenza e ne ha fatto la sua dimora permanente. La portata e la profondità di questa affermazione ha il senso di una definizione.  «Il nostro “essere nello Spirito” ha il fondamento nell’essere lo Spirito in noi. Lo Spirito si è impossessato di noi; si è appropriato la nostra esistenza come luogo in cui si dispiega la sua efficacia... Il nostro modo di essere può dirsi ora un “essere nello Spirito” perché lo Spirito si è dischiuso a noi esercitando in noi la sua efficacia ed imprimendo la sua direzione. Il nostro essere nello Spirito è il suo essere in noi, e viceversa. L’inabitazione dello Spirito in noi coincide con la nostra inabitazione nello Spirito»[4].

 

La dimensione cristologica dell’attività dello Spirito

Chi sottolinea in modo esplicito il carattere cristologico dell’attività dello Spirito Santo in noi è l’autore del Quarto Vangelo. Giovanni parla dello Spirito Santo come dell’altro Paraclito, poiché il primo è Gesù; così dicendo esalta l’intreccio vitale e il rapporto intrinseco tra i due. Lo Spirito quindi, in quanto altro Paraclito, non è stato inviato a sostituire ma a continuare il compito di Gesù, nel tempo della sua assenza.

Il compito che lo Spirito deve continuare a svolgere nei discepoli, nella Chiesa e nei singoli cristiani è di insegnare e di testimoniare. L’insegnamento dello Spirito nei discepoli, nella Chiesa e nei cristiani consiste nel far comprendere il mistero della morte e risurrezione di Gesù nei momenti più difficili, in cui la loro fede in Gesù è minacciata e ostacolata. Ma l’insegnamento dello Spirito non è tanto il prolungamento dell’insegnamento di Gesù, quanto insegnare Gesù stesso. Ciò che importa capire e accogliere è la persona di Gesù e il significato della sua storia tra gli uomini. Si direbbe che lo Spirito riprende lo stesso atteggiamento del Figlio, che non è venuto a dire parole sue e a cercare una gloria propria, ma a raccontare ciò che ha udito dal Padre: allo stesso modo si comporterà lo Spirito nei confronti del Cristo: “Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo manifesterà” (Gv 16, 14). Per cui, «l’insegnamento dello Spirito Santo non è ripetitivo. L’autentica fedeltà esige approfondimento e attualizzazione. Quella dello Spirito è una fedeltà che continuamente si rinnova, sempre giovane, capace di adattarsi alle situazioni che via via presenta la storia. Giovanni precisa: l’insegnamento dello Spirito è un “guidare verso e dentro la pienezza della verità” (Gv 16, 13). Dunque una conoscenza interiore e progressiva. Non un progressivo accumulo di conoscenze, ma un progressivo viaggio verso il centro: dall’esterno all’interno, dalla periferia al centro, da una conoscenza per sentito dire a una conoscenza personale»[5].

L’altro compito dello Spirito è la testimonianza riguardante la verità su Cristo nei discepoli e quindi in ogni cristiano. Secondo Giovanni, lo Spirito viene per i discepoli ma non per il mondo (Gv 14, 16-17), ed è stato mandato da Gesù presso i suoi discepoli perché fosse suo difensore in loro e difensore della loro fede in lui di fronte al mondo (Gv 15, 26). Lo Spirito, cioè, difenderà Gesù nella coscienza dei singoli cristiani, spiegherà loro la grazia di essere discepoli quando questi saranno esposti, per l’ostilità del mondo, al dubbio, allo scandalo e allo scoraggiamento.

 

Dimora e appartenenza reciproca tra lo Spirito e l’uomo

Lo Spirito di Dio e di Cristo, è diventato «lo Spirito che è in noi» (Rm 8, 9.11). Il senso di ciò è che lo Spirito, oltre a essere in noi come garante del Padre e del Figlio e testimone della verità su Cristo, è diventato Spirito nostro, per cui ci appartiene, e noi gli apparteniamo. Tutto questo perché tra lui e noi si è stabilita una indissolubilità talmente profonda da produrre un’appropriazione reciproca.

Il momento rivelativo e storico-temporale di questa realtà si verifica mediante la rigenerazione battesimale. Il battesimo è un evento dalla duplice dimensione: quella di intervento salvifico, di pegno con il quale al cristiano viene garantita la presenza dello Spirito Santo, della sua fedeltà e della sua costante attività nel formare il Cristo in lui e nel conformarlo all’immagine di lui, l’altra dimensione è quella di essere segno con il quale l’uomo manifesta visibilmente la sua risposta e adesione al mistero pasquale di Cristo e al progetto salvifico di Dio su di lui. Il battesimo è pertanto un avvenimento che abbraccia un orizzonte molto vasto: prima ancora di apparire come intervento soteriologico o di liberazione dal peccato, esso ha il significato di piena rivelazione al battezzato del progetto divino di salvezza su di lui a cui egli è stato da sempre destinato. Il battesimo assume, così, anzitutto il significato di buona novella, in quanto con esso il progetto di Dio su di noi acquista visibilizzazione e dimensione storico-temporale.

Però, nonostante ciò, non possiamo far passare in secondo ordine l’aspetto soteriologico del battesimo, il cui effetto è liberazione dell’uomo dal peccato e la piena riconciliazione con Dio. Il destinatario del battesimo infatti è l’uomo storico, cioè l’uomo la cui esistenza giace in una situazione oggettiva di peccato. Per questo, si attribuisce al battesimo anche il significato di rinascita o rigenerazione dell’uomo in Cristo mediante l’azione dello Spirito Santo, tanto che l’uomo uscito dal fonte battesimale risulta essere un uomo nuovo, una creatura nuova in Cristo.

 

Lo Spirito di Cristo è l’attuatore del progetto di salvezza in Cristo

Come lo Spirito ha iniziato a dare dimensione storica al progetto salvifico divino formando il Cristo uomo nel seno della Vergine Maria, così continua a far diventare storia il progetto salvifico di Dio formando in noi il Cristo e conformando noi a lui. Ma poiché Gesù Cristo non è solo fonte e mediazione attiva, ma anche destinazione ultima e definitiva, allora il compito dello Spirito Santo è proprio quello di realizzare il Cristo in noi suscitando in noi l’adesione obbediente e libera a lui. Per cui tutta la vita teologale, cioè lo sviluppo del nostro rapporto personale con Dio, si attua mediante lo sviluppo del rapporto personale con Cristo nello Spirito Santo.

 

Lo Spirito è l’artefice dell’unione trinitaria

Dio se da una parte dimostra la grandezza, anzi l’onnipotenza del suo amore nell’estremo abbassamento, nel sottoporsi alla kenosi dell’umiliazione più profonda, dall’altra ci fa capire quanto Egli consideri grande l’uomo ai suoi occhi e quanto grande è la considerazione e stima che ha di lui. La nostra meraviglia e il nostro stupore aumentano a dismisura se ci soffermiamo a contemplare il grado di intima unione amorosa che lo Spirito Santo instaura tra noi e le divine persone della Trinità. Infatti, se lo Spirito Santo si è appropriato della nostra esistenza trasformandola in sua dimora, ciò significa che egli è diventato inseparabile da noi, e che noi siamo diventati luogo delle sue operazioni intratrinitarie; quindi ciò che egli, prima del suo invio a noi, operava all’interno della Trinità ora lo compie in noi coinvolgendoci direttamente. Ma se poi pensiamo che egli dimora permanentemente in noi come l’amore sostanziale che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre, allora veniamo a sapere che egli ci dice e ci dà l’amore del Padre e del Figlio, ci dice e ci fa sperimentare quanto il Padre e il Figlio ci amano in lui. Ciò concretamente significa che dove dimora lo Spirito dimorano anche il Padre e il Figlio, e che è la Trinità tutta ad appropriarsi della nostra esistenza e a farla sua dimora; così, invece di ascendere noi alla Trinità, è stata la Trinità a discendere verso di noi e a diventare la Trinità con gli uomini. Noi pertanto non solo siamo diventati luogo dove le divine Persone compiono le azioni propriamente trinitarie, ma siamo anche coinvolti attivamente nella circolarità dell’amore tra le divine persone e delle azioni compiute dalle stesse divine persone: esse si amano in noi e insieme a noi, compiono le loro azioni in noi e insieme a noi.

Se colui che Dio ha stabilito fin dall’eternità di darci in Cristo come sorgente di tutti i doni e beni spirituali è l’amore sostanziale tra il Padre e il Figlio, allora possiamo dire che egli è in noi per dischiuderci il dono più alto: introdurci nel mistero della Trinità come nel nostro habitat vitale. La comunione trinitaria, così, non appare più un mistero che sta fuori di noi o al di sopra di noi, ma un mistero che ci tocca direttamente, che s’intreccia con il nostro mistero; siamo immersi in esso e ne facciamo parte. Così, possiamo dire con Elisabetta della Trinità che noi siamo il vero cielo di Dio, dove siamo invitati a contemplare l’amore che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre, che è lo Spirito Santo dimorante in noi.

 

Aspetto cristologico dei dinamismi teologali

Se Dio ha stabilito, con decisione irrevocabile, che tutto esiste e vive in Cristo, che tutto ci viene da Cristo e che tutti siamo destinati a diventare conformi all’immagine di lui, Figlio suo incarnato (Rm 8,29), allora dobbiamo dedurre che lui e soltanto lui può essere il fondamento dei dinamismi (virtù teologali) per lo sviluppo della vita divina in noi. Ricordiamo ancora una volta: tutto ciò che siamo e che abbiamo, lo siamo e lo abbiamo perché partecipiamo di Cristo.

Data la costitutiva ed essenziale connotazione cristologica del piano salvifico divino, pensiamo che le virtù teologali della fede, della speranza e della carità, più che come potenziamento delle facoltà spirituali del soggetto umano, vanno intese come partecipazione della vita divina in Cristo, come dono ordinato allo sviluppo del rapporto personale con lui, e servono soprattutto a plasmare il credente.

 

Aspetto pneumatico dei dinamismi teologali

Ci è stato inviato il dono dello Spirito Santo, che Dio già aveva stabilito nel suo eterno progetto salvifico di darcelo come fonte di tutti beni spirituali. Così lo Spirito, da colui che ha posseduto e condotto il Cristo durante tutto il suo ministero messianico fino al sacrificio supremo di sé sulla croce (Eb 9, 14) e alla sua resurrezione, è passato con la pasqua ad essere posseduto da Cristo, da diventare appunto Spirito di Cristo, e Cristo lo ha inviato a noi con il compito di realizzare in noi il suo mistero di salvezza.

Infatti chi meglio dello Spirito, avendolo egli concepito nel grembo della Vergine Maria, ci può insegnare “Cristo”, farcelo conoscere, cioè farci incontrare con lui?

Tutta questa realtà vitale che lo Spirito Santo opera in noi, è ciò che chiamiamo “vita teologale”; e i dinamismi che ne accompagnano lo sviluppo li indichiamo con il nome di “fede”, “speranza” e “carità”, sempre con riferimento diretto a Cristo.

 

Fede come affidamento a Cristo

Per ogni essere umano l’affidamento di se stesso all’altro, nel rispetto assoluto della irripetibilità e irriducibilità essenziale della diversità, costituisce la via sicura alla piena realizzazione di sé. Il fatto quindi che la persona umana, essendo fondata nella vocazione comunionale, non è fatta per bastare a se stessa, né a essere se stessa senza l’altro, induce a concludere che essa attua pienamente se stessa soltanto nella comunione con altri, cioè nel fare spazio in se stessa all’altro, nell’uscire da se stessa e affidarsi a lui.

Per il credente l’altro non può che essere Cristo, senza il quale esso rimarrebbe chiuso in se stesso; Cristo, quale suo fondamentale e vero “Altro”, che gli permette di scoprire la propria identità e di arrivare alla piena verità su se stesso; inoltre l’affidamento a Cristo genera e sostiene anche la comunione di fede con gli altri simili.

I mezzi che la fede mette a disposizione del credente cristiano, per usufruire salvificamente della presenza del Risorto sono la parola e i sacramenti, con essi e in essi Cristo, morto e risorto, per ogni credente diviene presente, riferimento obbligatorio e fonte di vita.

 

La speranza

La speranza è forza che sostiene l’uomo nel lavoro di costruzione della propria esistenza in Cristo, nel fare storia e riempirla di senso e di significato; è la finestra che lo apre sull’eternità, la risposta ai problemi che lo assillano e annebbiano la sua esistenza. La speranza, da una parte sta a indicare l’inaffidabilità delle certezze umane, dall’altra offre certezza e garanzia circa il vero valore su cui l’uomo è chiamato a poggiare l’edificio dell’autocostruzione, che è la persona di Cristo. Così la speranza è il dono di vedere e accogliere l’evolversi e il compimento dell’esistenza storica del Cristo come garanzia del futuro e della meta definitiva di ognuno di noi.

La speranza, per il fatto che ha la sua fonte in Cristo, con il quale l’uomo è legato da un rapporto personale intrinseco e da un vincolo indissolubile, insieme alla vita partecipa pure alla tensione del Cristo stesso verso la sua definitività, cioè verso lo stato glorioso che lo ha insediato alla destra del Padre. La speranza teologale è la forza che impedisce all’uomo di rifugiarsi nel passato e lo spinge oltre i confini del presente.

La virtù della speranza è il pegno e la garanzia che lo stato glorioso di Cristo è anche la meta definitiva per la quale l’uomo è stato voluto; per cui la risurrezione di Cristo ha il senso anche della piena rivelazione della vocazione dell’uomo. Il senso dell’uomo voluto in Cristo, infatti, è che egli partecipasse di tutto ciò che è Cristo. Perciò anche la meta definitiva di Cristo che è lo stato glorioso presso la destra del Padre diventa per partecipazione anche la meta definitiva dell’uomo.

E la speranza non è solo la rivelazione di tutto questo ma ne è anche l’anticipazione in questa esistenza. Infatti lo Spirito che Gesù ha inviato e che è stato effuso nei nostri cuori è in noi come la primizia e garanzia dei beni futuri, cioè come anticipazione dei beni che di per sé sono soltanto del mondo futuro. Paolo dice che Dio ci ha dato la caparra dello Spirito Santo (2Cor 5, 5) e che siamo stati sigillati per mezzo dello Spirito Santo: «non affliggete lo Spirito Santo, dal cui sigillo siete stati segnati per il giorno della redenzione» (Ef 1, 13; cf. 4, 30). Col concetto di “caparra” riferito allo Spirito Santo, Paolo ci vuole dire che Dio, dandoci lo Spirito Santo, ci ha dato «un acconto del possesso della salvezza», quindi della gloria futura; invece col concetto di sigillo riferito allo Spirito Santo, Paolo vuole dirci che lo Spirito ci è stato dato come «segno di protezione e proprietà escatologica»[6], che noi cioè viviamo già sotto il segno e la signoria escatologica.

Quindi lo Spirito ci è dato da Gesù perché noi non solo raggiungessimo la meta: «la risurrezione, la piena libertà dei figli di Dio», ma perché fossimo già immessi fin da ora in questa realtà, che di per sé appartiene solo al mondo rinnovato.

La speranza è l’affidamento del cristiano alla storia, esprime un vincolo e un legame indissolubile con la storia: egli cioè ha il compito di «sperare per sé e per il mondo». Il suo spera- re, cioè, il suo aver fiducia nello Spirito di Cristo glorioso, che è in lui e che lo guida, ha il senso di buona novella per il mondo, di annuncio con il quale proclama «c’è una via d’uscita, non tutto è chiuso, c’è un riferimento; oltre non c’è che il vuoto, il nulla»[7]. La speranza è l’allontanamento dello spettro del nulla e del fallimento totale. Il cristiano esiste nel mondo come una persona che spera, come persona fatta speranza dallo Spirito Santo per gli altri, come segno vivo e porta aperta al futuro; così, la sua esistenza di credente sperante diventa presenza della speranza stessa nel mondo; lo sperare del cristiano è regalare al mondo la speranza, è fargli il dono della certezza dell’aldilà.

 

La carità: amare come ama Cristo

Come già abbiamo detto diverse volte, ciò che siamo e ciò che abbiamo, lo siamo e lo abbiamo per partecipazione di ciò che è Cristo. Quindi partecipiamo di Cristo oltre l’essere, nella sua realtà ontologico-costitutiva, anche tutto il mondo dei suoi dinamismi teologali, necessari per la nostra crescita e sviluppo in lui. Perciò partecipiamo di Cristo la sua libertà, fonte della capacità di volere; partecipiamo anche della coscienza di Cristo, per cui possiamo scegliere in modo responsabile e in armonia con la destinazione ultima del nostro essere; di lui partecipiamo inoltre ciò che costituisce l’essenza e il vertice della pienezza dell’essere umano: cioè l’amore.

L’amore tanto è qualificante per la struttura dell’essere umano che è la causa e il fine di tutti gli elementi della struttura ontologica dell’uomo. La sua fondamentalità è la ragione anche della sua funzione di criterio valutativo per lo sviluppo e il cammino di maturazione della persona umana.

L’amore, cioè, visto in questa prospettiva, non solo si configura come elemento fondamentale e costitutivo dell’essere umano, ma costituisce la finalità di tutti gli altri elementi e dinamismi che appartengono alla struttura dell’essere umano: libertà, coscienza, volontà ecc. L’amore è causa di tutto e la ragione che tutto è ordinato a che l’uomo possa crescere nella capacità di amare.

Mentre nel discorso sulla fede la vocazione all’unione ha lo scopo di giustificare la necessità del riferimento all’altro che, nel caso del credente, è Gesù Cristo, qui invece ha lo scopo di rendersi conto della centralità del dinamismo dell’amore nella costruzione dell’unione: l’amore esiste come l’unica forza che fa crescere e sviluppare l’unione tra due persone, è il motore che imprime all’unione un movimento continuo e impedisce di fermarsi, di diventare statica. La centralità di tale dinamismo diventa più chiara e necessaria soprattutto quando l’unione assume l’aspetto qualificante di dono, di appartenenza reciproca e di rapporto indissolubile tra due persone: cioè quando è dono totale e incondizionato di se stesso all’altro nell’amore e per amore, e quando l’altro accoglie tale dono con amore e per amore. Da tutto questo deriva che ciò che meglio qualifica la struttura dinamica della persona umana e meglio esprime la forza che fa progredire il rapporto tra due persone è il dinamismo dell’amore. Anzi bisogna ammettere che l’amore, nella struttura della persona umana, esiste come legge cui essa deve radicale obbedienza: ciò porta alla conclusione che non può esserci motivazione che giustifichi le scelte e l’agire della persona umana diversa da quella dell’amore..

Da tutto ciò spicca ancora con più chiarezza la fondamentalità e l’essenzialità del rapporto con Cristo per lo sviluppo della vita spirituale del credente. Questo perché Cristo è l’unico fondamento vitale di tutto il piano salvifico di Dio, per cui niente può esistere, vivere e realizzarsi fuori di lui e senza il riferimento a lui.

Per un’ulteriore chiarezza sul carattere cristologico del dinamismo della carità, dobbiamo ricordare che Cristo s’identifica con la stessa carità o amore; egli è la carità di Dio pienamente manifestata, anzi è la carità di Dio diventata persona umana. Al riguardo, l’insegnamento paolino presenta il Cristo non solo come manifestazione della carità di Dio, ma come la stessa carità di Dio diventata visibile assumendo la forma umana; per cui credere in Cristo, per Paolo, è credere «alla carità che Dio ha per noi». Se è vero che tutto ciò che siamo e abbiamo, lo siamo e lo abbiamo perché partecipiamo di Cristo, questo fatto è vero soprattutto per ciò che concerne Cristo come fonte del nostro amore; questo fatto ci permette di asserire che anche l’uomo è “amore” per partecipazione. Penso che consista proprio in questo il vero contenuto dell’essere immagine di Dio in Cristo sua perfettissima immagine: perché anche noi, benché per partecipazione, fossimo amore come lo è lui. Infatti, se andiamo a considerare che la perfezione o santità di Dio sta nell’essere amore (1Gv 4, 8), allora anche
l’uomo, in quanto immagine di Dio in colui che è perfettissima immagine, Gesù Cristo, non può che trovare nello sviluppo dell’amore il vero senso della sua esistenza e la sua piena realizzazione.

La persona di Cristo, in quanto amore di Dio fattosi visibile, cioè in quanto amore che ha spinto Dio a uscire da se stesso e farsi uomo per essere l’intimo dell’uomo e condividerne la concretezza storica, insegna che l’amore è vero quando spinge la persona a uscire da se stessa e a mettersi a disposizione dell’altro, accogliendo anche il rischio che ne può derivare, cioè essere rifiutato e considerato nemico dall’altro a cui si fa prossimo.

Il mistero e la vicenda di Cristo insegna ancora che non basta amare gli altri, ma che bisogna amarli come li ama Cristo. La partecipazione all’amore di Cristo, non solo fa capire che il nostro amore è lo stesso amore di Dio fattosi visibile in Gesù Cristo, ma comporta anche sintonizzarsi sulla stessa logica del modo di pensare e quindi di amare di Cristo; quindi se il nostro amore è lo stesso di Cristo, anche il nostro modo di amare non può essere che quello di Cristo.

Ma la certezza della fattibilità, della attuabilità e della capacità di riuscire ad amare come ama Gesù Cristo ci è garantita dalla presenza in noi di quello Spirito Santo, che è Spirito dell’amore del Padre verso il Figlio e del Figlio per il Padre e, che per amore, ha formato il Cristo nel grembo della Vergine Maria e lo ha guidato a dare se stesso per gli uomini. Ebbene, in noi lo Spirito di Cristo esiste come Spirito dell’amore, lo Spirito dell’amore del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre; per cui è lui che non solo ci rende partecipi dell’amore di Cristo e ci fa amore, ma è in noi come amore, come forza che ci abilita ad amare come Gesù, con la stessa totale dedizione e gratuità di lui; egli c’insegna e ci dà il coraggio di uscire da noi e di diventare prossimo di chi è nel bisogno, di chi è emarginato, di chi non la pensa come noi; ci dà la forza di correre il rischio di affidarci anche a chi non solo non ci accetta, ma ci considera nemici da combattere.

Se nel considerare lo Spirito Santo come datore di vita, è emerso l’aspetto di fonte e di agente principale nella costruzione del cristiano, qui lo Spirito Santo come per- sona diventa il “modello” del comportamento del cristiano.

 

Lo Spirito, modello del cristiano

Lo Spirito Santo può essere preso a modello del dinamismo e del comportamento della persona umana.

Il concetto di persona, per gli occidentali, si identifica con quello di relazione: così in Dio (nel nostro caso nello Spirito Santo) essere persona significa essere relazione, essere in relazione. Per gli orientali, si può dire la stessa cosa. Anzi per loro, strettamente parlando, la persona esiste soltanto in Dio: l’uomo, per Evdokimov, ha soltanto la nostalgia di diventare persona,   e ciò avviene attraverso la comunione con le persone divine. È ancora Evdokimov a riassumere una costante tradizione orientale dichiarando: «La persona esiste per la comunione ed esiste essenzialmente per la comunione». È soltanto nel dono, nella comunione, nella condivisione che l’uomo, in quanto immagine di Dio, realizza la sua vocazione originaria. Tutto questo, possiamo dire, è vero in modo del tutto particolare in riferimento allo Spirito Santo. Egli, infatti, è definito e chiamato dai mistici e dagli autori spirituali “dono, amore, comunione, bacio, carezza, gratuità trascendimento”. Prendere lo Spirito Santo a modello della persona umana significa anzitutto sottoporre questa a un continuo processo di revisione e di conversione, perché l’egoismo è sempre in agguato e perennemente insi-dioso. Secondo un recente teologo dello Spirito Santo: «il modello trinitario e, in maniera specifica, il modello pneumatologico dell’essere persona rivela che l’essere persona comporta essenzialmente anche la capacità di tirarsi indietro e di fare-spazio-all’altro»[8]. Con questa espressione si evidenzia non una espropriazione, una scomparizione o una perdita di sé, ma una vera autorealizzazione di sé.

Di tutto questo, la vera immagine e ideale è la persona divina, in particolare lo Spirito Santo. Alla luce di essa vanno compresi, interpretati e risolti i concetti di responsabilità e di libertà.

Infatti, considerando l’ideale cristiano e dell’uomo in quanto tale, se c’è una cosa da escludere in modo categorico è l’isolamento. Ciò che invece va fortemente perseguito è la pericorési cioè la circolarità, la comunione, la comunicazione, l’aprirsi all’altro, il dire e dare sé all’altro. Alla luce del messaggio evangelico, l’esistenza del cristiano acquista il significato di “pro-esistenza”, cioè di un’esistenza per l’altro più che per se stesso. Questo è il vero anzi l’unico modo di diventare cristiano, o di diventare uomo. Al contrario, invece, se l’uomo si chiude in se stesso, non si costruisce in quanto uomo, non riempie di vero significato la propria esistenza, anzi si avvilisce, ricade su se stesso, e in se stesso rimuore. Questa è la lezione che viene dalla Trinità e da tutti coloro che hanno fatto proprio l’insegnamento del Vangelo; cioè coloro che hanno imparato a perdere la propria vita in favore degli altri: se si vuole trovare la propria vita, dice il Vangelo, bisogna perderla per il regno, cioè per la salvezza dei fratelli.

L’uomo spirituale

L’uomo in quanto configurato e conformato a Cristo dall’attività dello Spirito Santo, può essere considerato come manifestazione visibile di Cristo. Questo concetto è molto bene espresso dalla celebre affermazione agostiniana, secondo cui il cristiano non è soltanto colui che appartiene a Cristo, ma è anche Cristo: «ego christianus non solum sum Christi, sed etiam sum Christus», è il Cristo sperimentato e riprodotto mediante il vissuto quotidiano.

L’aspetto di crescita e di sviluppo del credente in Cristo sotto l’azione dello Spirito Santo orienta a considerare l’opera di personalizzazione della  vita cristiana come cammino verso la singolarizzazione cui il cristiano è stato chiamato e che lo Spirito attuerà in lui, se da parte del battezzato ci sarà un’adesione incondizionata all’azione dello Spirito. La singolarizzazione è la realizzazione di ciò che specifica un battezzato in Cristo da un altro.

Tutto questo accade per opera dello Spirito, il quale appunto è nel battezzato per fare di lui «questo particolare cristiano», distinto da qualsiasi altro discepolo di Cristo. Egli perciò va producendo nell’uomo nuovo in Cristo quella singolarizzazione che lo distingue e lo rende e fa irripetibile nei confronti di ogni altro battezzato e credente in Cristo.

 

Chiamato alla santità

Nella lettera agli Efesini Paolo precisa che l’unione dell’uomo con Dio avviene nella santità: «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità…» (1,4). Ma in che cosa consiste la santità di cui parla Paolo? Bisogna distinguere tra santità ontologica e santità morale. Ogni essere umano, in quanto creato ad immagine di Dio, è santo per costituzione ontologica. Mi spiego. Di per sé solo Dio è santo. Nella Sacra Scrittura, infatti, è santo ciò che è separato dal profano. Dio è santo perché è Dio è il trascendente. Dire che Dio è santo significa affermare il suo essere infinitamente e totalmente separato dall’uomo, e designa il mistero più intimo della sua persona. Ma è santo anche tutto ciò che entra in rapporto con Dio. E in particolare l’uomo, chiamato ad essere partecipe di Dio, anzi «della sua natura divina» (2Pt 1, 4) che è santa per essenza, è ontologicamente santo. È dunque in virtù di questo rapporto qualitativo con Dio che la santità acquista la valenza di elemento essenziale della struttura dell’essere umano e fonte della sua trascendenza nei confronti degli altri esseri creati.

La santità morale non deve essere altro che una risposta alla santità ontologica dell’uomo; la santità ontologica senza quella morale riamarrebbe inattuata.

In questa prospettiva la santità morale costituisce la diversità tra persona e persona.

Per  comprendere meglio la distinzione e il nesso intrinseco tra l’aspetto ontologico e quello morale ci si può servire del rapporto esistente tra il bambino e l’adulto. Sul piano ontologico dell’essere umano, tra il bambino appena nato e l’adulto non c’è alcuna differenza. La differenza tra di loro esiste sul piano dinamico o dello sviluppo. Poiché, mentre nell’adulto la vita umana si è manifestata in pienezza, nel bambino invece è ancora tutta in embrione e perciò tutta da sviluppare. Altrettanto si può dire della differenza tra la santità ontologica e quella morale. Sul piano ontologico, tra il bambino e il mistico o tra il peccatore e il santo non c’è alcuna differenza. Essa esiste sul piano dinamico dello sviluppo. Nel grande mistico la santità è giunta alla piena manifestazione col vivere santamente, mentre nel bambino battezzato essa è, ancora, tutta in embrione e nel peccatore è rimasta sepolta.

 Come l’agire, per ciò che riguarda l’essere, è il momento rivelativo della sua natura e  lo strumento del suo sviluppo, così per il cristiano (qui parlo di cristiano e non di semplice essere umano perché il primo ha coscienza, mediante la rivelazione divina, della sua chiamata) il vivere santamente costituisce il momento della manifestazione della santità ontologica e lo strumento del suo sviluppo per la piena attuazione. E ciò nello Spirito Santo che abita in lui e per mezzo dei dinamismi teologali di cui è dotato. Il cristiano, in virtù del battesimo, sa che nella sua concretezza storica non si appartiene più, ma appartiene al Signore, perciò è incalzato dall’imperativo di manifestare visibilmente con coraggio la sua appartenenza al Signore attraverso il vissuto quotidiano: per lui non esistono circostanze o situazioni in cui può pensarsi fuori del Signore, o che non gli sia richiesto di donarsi a Dio in Cristo.

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[1] SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico Spirituale B, 39,6.

[2] SAN GIOVANNI DELLA CROCE, 2Notte, 20,5.

[3] SANTA TERESA DI GESÙ, Autobiografia, 40,5.

[4] H. SCHLIER, La lettera ai Romani, 407-408.

[5] B. MAGGIONI, Il vangelo di Giovanni. Traduzione e commento, in AA.VV., I Vangeli, Cittadella Editrice, Assisi 1989, p. 1614.  

[6] Cf. H. SCHLIER, Lettera agli Efesini, pp. 99 s.

[7] G. MOIOLI, L’esperienza spirituale, p. 25.

[8] G. FROSINI, Lo spirito che dà la vita, p. 154.

1. Spiritualità mariana del Lanteri

1.1. L’affidamento a Maria

Già dai primissimi anni della sua vita, il Lanteri imparò a vedere nella Vergine Maria la sua madre. A lei fu affidato dal padre dopo la morte della propria mamma: «D’ora in poi lei sarà la tua mamma».  Aveva solo quattro anni. Più tardi il Lanteri, quando avrà toccato la sessantina, sovente diceva agli amici: «Per me non c’è stata altra mamma che la Santissima Vergine Maria e io non ho ricevuto altro che carezze e favori da una Madre così buona».

 All’età di ventidue anni il giovane Lanteri, nell’imminenza dell’ordinazione al primo degli ordini maggiori, il suddiaconato,  si affidò a Maria.

«Cuneo, il 15 agosto 1781.                                .       
Sappiano tutti coloro nelle mani delle quali capiterà questa mia Scrittura, che io sottoscritto B. [Bruno] mi vendo per schiavo perpetuo della Beata Vergine Maria Nostra Signora con donazione pura, libera, perfetta della mia persona, e di tutti i miei beni acciò ne disponga ella a suo beneplacito come vera, ed assoluta Signora mia. E siccome mi riconosco indegno di una tal grazia prego il mio S. Angelo Custode, S. Giuseppe, S. Teresa, S. Giovanni, S. Ignazio, S. Francesco Saverio, S. Pio, S. Bruno acciò mi ottengano da Maria Santissima che si degni ricevermi tra i suoi schiavi. A conferma di ciò mi sottoscrissi. Pio Bruno Lanteri».

Apparentemente questo atto sembra esprimere un semplice omaggio a Maria, frutto di una devozione fondata poco da un punto di vista teologico, ma solo sentimentale, poiché non vi appare nessun riferimento esplicito a Dio e a Gesù Cristo presente invece nell’atto di schiavitù proposto da S. Luigi Maria De Monfort.

Ma se noi leggiamo anche quanto il Lanteri scrisse poco dopo aver redatto la sua “scrittura di schiavitudine” nel suo Direttorio Spirituale, possiamo cogliere tutta la profondità teologica della sua “scrittura” e la sua intrinseca relazionalità all’onore e alla gloria di Dio:

«Voglio avere un amore tenero verso Maria Vergine e confidenza in lei di figlio a sua Madre, e in grado tale, che mi paia impossibile che mi permetta di essere vinto e perisca in quella battaglia: ricorrerò dunque a Lei come un pulcino si ricovera sotto le ali di sua madre alla voce del nibbio vorace, e dopo l’atto d’amor di Dio dirò: “Monstra te esse matrem etc. Sub tuum præsidium etc. Maria mater gratiæ etc. ”, e ciò farò con quella confidenza che un bambino usa con sua madre domandandole ciò che fa di mestieri con gran sicurezza, come se fosse tenuta a concederglielo, e a lei ricorrendo in tutti i suoi travagli, cosicché resta la madre come obbligata, e ricava quindi motivo di voler più bene al figlio, e se le madri di quaggiù cattive qualche volta, pur non sanno negare niente, che si dirà della Gran Madre di Dio? Mi approfitterò di tutti i meriti, grazie e privilegi di questa mia Signora come chi sa di aver ad essi quel diritto che hanno i figlioli alla madre... Unirò i miei atti di fede, speranza, carità ai meriti di mia Madre, e così inseriti in un traffico sì grande e ricco, crescerà a dismisura il povero mio capitale».

Come appare evidente, dietro queste frasi di Pio Bruno vi è il riferimento al libro dell’abate Henry-Marie Boudon da cui anche il Monfort trasse ispirazione per la sua teologia mariana:

«Boudon parlò della santa schiavitù alla Madre di Dio, consistente non nel fare pratiche di devozione o recitare preghiere o fare mortificazioni, ma soprattutto e prima di tutto nel consacrare la propria libertà, il proprio cuore e le opere buone al totale servizio di Maria».

Questa certamente era l’intenzione del Lanteri nel mettersi totalmente nelle mani di Maria, sua Madre, in piena fiducia e confidenza. Questo gesto, visto il primato assoluto di Cristo come unico Mediatore tra il Padre e l’umanità, è giustificabile solo alla luce della misteriosa volontà di Dio che ha fatto sì che una piccola fanciulla di Nazareth fosse intrinsecamente inserita nel mistero dell’Incarnazione del suo Verbo, diventandone madre in quanto alla natura umana, proprio in Lei e da Lei assunta. È in forza di questo mistero che Ella partecipa spiritualmente alla generazione di tutti i membri del Corpo Mistico diventandone Madre attraverso la Chiesa, la quale estende a tutti i tempi e luoghi la maternità di Maria. Questo è, in effetti, quello che il Monfort chiama “il segreto di Maria”. Sapere cioè che Dio ha scelto Lei per realizzare nello Spirito Santo la santificazione di tutti i suoi “figli adottivi” (Rm 8,15) invitati ad affidarsi totalmente a Lei, come mezzo assolutamente il più sicuro, facile e certo per realizzare la propria santificazione, cioè la propria conformazione a Cristo.

 

1.2. Con confidenza di figlio

Verso questa «Madre sì buona» il Lanteri sente un «amore tenero» ed una confidenza di figlio.

«O Signora, se per tuo mezzo il tuo Figlio è diventato nostro fratello, non sei tu forse diventata nostra Madre? E se vi ho offesi tutti e due, tutti e due siete clementi e pieni di pietà. Dunque fuggirò l’ira del Dio giusto ricorrendo alla pia Madre, l’ira dell’offesa Madre ricorrendo al benigno Figlio.  E dirò: O Dio che ti sei fatto Figlio di Donna a causa della nostra miseria, o Donna che ti sei fatta Madre di Dio per la sua misericordia, o avete compassione di me peccatore, o mostratemi altri più misericordiosi a cui rivolgermi».

«Vergine Santa, Madre di Dio, e madre mia, io vi domando due cose che mi sono ugualmente necessarie: datemi vostro Figlio, è il mio tesoro, senza di lui sono povero; date me a vostro Figlio, è la mia saggezza, la mia luce, senza di lui sono nelle tenebre. Tutto a Gesù per Maria. Tutto a Maria per Gesù. Come la vita naturale di Gesù nel seno di sua Madre dipendeva totalmente da Lei, così nella vita della grazia, di cui non c’è nulla di più fragile – perché anche un fantasma, un pensiero può rovinarla – ricorriamo a Maria nostra Madre, lei non mancherà mai di sovvenire ai nostri bisogni, se noi non usciamo fuori dal suo seno».

Da anziano il Lanteri, quando avrà toccato la sessantina, sovente diceva agli amici: «Per me non c’è stata altra mamma che la Santissima Vergine Maria e io non ho ricevuto altro che carezze e favori da una Madre così buona». Spesso la chiamava sua Madre, sua Maestra, sua Nutrice, suo Paradiso.

Nel testamento, scritto verso il 1816 a motivo della scarsa salute, il Lanteri si raccomanda a questa cara Madre: «Raccomando l’anima mia alla Ss. Triade, al S. Cuore di Gesù, alla Beatissima Vergine Maria che mi fu sempre tenera Madre, a S. Luigi, S. Francesco Saverio, al mio Angelo Custode, al B. Alfonso de Liguori, a tutti i Santi ed Angeli del cielo che spero presto di vedere come fratelli in paradiso, alle preghiere della Santa Cattolica, Apostolica e Romana Chiesa nel cui seno m’intendo e voglio vivere, e morire, ed a quelle dell’infrascritto mio Esecutore testamentario, e di tutti i miei parenti, ed amici».

 

1.3. Pratiche personali di pietà

Il Lanteri esprimeva la sua devozione mariana attraverso varie pratiche. Come prescritto nei regolamenti dell’Aa e dell’Amicizia cristiana, i vari digiuni in onore di Maria impegnavano gli adepti – e quindi anche il Lanteri – e le preghiere loro usuali. Riguardo la recita del santo rosario probabilmente il Lanteri lo recitava quotidianamente e forse anche più di uno, perché doveva essere per lui, come per gli altri confrères e gli amis, una preghiera che accompagnava gli spostamenti e i vari spazi di tempo vuoti della giornata: «Nelle ore libere penserò a me, o ai bisogni del mio stato, o dirò la corona». E ancora aggiunge, come mezzo pratico per vivere quest’unione a Maria nella tentazione: «[Portare] un rosario al collo, recitare 9 ave, avere una sua immagine, parlarle, salutarla sovente».

Sono gesti che richiamano un forte rapporto affettivo ed esprimono la profonda intimità che il Lanteri aveva con Maria.

 

2. Maria negli insegnamenti del Lanteri

Maria è la creatura più amata dal Creatore, ma grande è anche l’amore con cui Essa ha corrisposto a Dio: «Maria Vergine era la più santa di tutte le creature, dunque era la più amata dal suo Creatore. Essa fin dal suo concepimento, acceleratole l’uso della ragione, si voltò a Dio con una carità così infiammata, che non fu punto inferiore agli ardori di ogni massimo Serafino del cielo, indi poi sempre crebbe a dismisura tal vampa, che da sé sola più amava Dio, che non l’amavano le creature tutte unite insieme, angeliche e umane».

Maria è la donna forte: «Angustie, tentazioni, aridità, abbattimenti, tribolazioni, ingiurie, disgusti, affronti, ingratitudini, croci, contrarietà, e guai io me li aspetto, e anche da persone amate e beneficate, ma non li considererò mai come castighi, né mirerò mai la loro origine negli uomini, ma in Dio; so che nulla può accadere contro la volontà di Dio, so che questa è la strada che ha tenuto Egli stesso qui in terra, e per cui ha condotto i santi suoi più cari amici, anzi la sua stessa Madre per poi cotanto glorificarla in Cielo».

E’ la creatura più umile sulla faccia della terra: «... non fu forse la madre vostra Maria Santissima la più umile di tutti? Eppure immune la preservaste da qualunque neo di colpa».

Maria – come dicono le litanie lauretane - è colei che ha vinto tutte le eresie (la “Cunctas haereses”): «Regina degli Apostoli: essi, presi singolarmente, hanno predicato il Vangelo in tutte le parti del mondo, tu da sola col tuo potente patrocinio hai distrutto tutte le eresie in tutte la parti del mondo».

Maria è causa precipua, dopo Gesù, della nostra salvezza, perché Dio stesso così ha stabilito: «Basti l’accennarvi che sopra di Maria non v’ha più che Dio e sotto di Maria v’è tutto ciò che non è Dio. Basti il dire che può ben Dio creare un mondo più grande, più eccellente di questo, ma non può creare una creatura più grande della Madre di Dio, come si esprimono i Ss. Padri; è dunque chiaro che Maria è da venerarsi in modo affatto particolare dopo Dio, ella… è dopo Dio la sorgente di tutte le grazie e benedizioni, perché è la causa specialissima della nostra Redenzione, perché è nostra Corredentrice, perché dopo Dio è quella che più s’interessa per la nostra salute. Gloriamoci dunque di dire con la Chiesa: Virgo veneranda, ora pro nobis».

Ella è nostra Madre: «Dal momento che il Figliuol di Dio si fece nostro fratello primogenito, Maria Vergine divenne Madre di Gesù e Madre nostra, Madre di Gesù per natura, Madre nostra per adozione; e tale si fu questa parentela legale d’affetto, con cui ci adottò per figli e ci tenne per tali, che quasi sono per dire superò la parentela di sangue contratta col suo divin Figlio, mentre non solo si degnò di obbligarsi a farci l’officio di Madre, come se ci fosse Madre naturale, ma giunse di più, ed è che fin dal momento dell’Incarnazione del divin Verbo nelle sue sante viscere si offerse a patire ella per noi ogni cosa ed a soffrire tanti tormenti nella persona del suo divin Figliuolo, e non una, ma più volte…».

Negli scritti del Lanteri si nota la predilezione a determinati titoli mariani: Maria assunta in cielo, Maria Mediatrice di tutte le grazie, Maria Madre della celeste Sapienza, ecc.

Maria è stata assunta in cielo per diventare la protettrice degli uomini rimasti sulla terra: «Maria Vergine fu assunta in cielo, senza né lasciarci né mandarci niente di sua memoria, è vero: ma se n’andò per ricevere la sua dote che sono i peccatori, acciò l’eterno Padre avesse una persona umana e prediletta da rimirare, per cui si muovesse a compassione delle anime peccatrici».

Profondo studioso delle opere di san Bernardo, di san Bonaventura e di san Alfonso, il Lanteri non poteva non mettere in risalto l’efficacia della mediazione di Maria: «… la Chiesa usa presentarla in tutte le Icone degli Altari maggiori perché crede che da essa passano le nostre preghiere. Quibus te laudibus efferam nescio quia quem cæli capere non poterant, tuo gremio contulisti.

La sua autorità che può negarle il Figlio, se ella gli è Madre, anzi talmente l’onora che non si concede quaggiù grazia che non passi per le sue mani, anzi ciò che egli è più veloce esaudirci, se invochiamo ella che non lui, non già perché sia più di lui, ma perché, essendo lui il Signore, il Giudice, discerne il merito di tutti, perciò quando qualche volta non esaudisce, giustamente lo fa, ma quando lo preghiamo a nome di Maria, non più riguarda i meriti del supplicante, ma l’intercessione, i meriti della Madre, e direi, anche i doveri che egli ha come figlio».

«Per portare le anime a Dio bisogna farle passare per la mani di Maria, come le grazie di Dio passano tutte per le sue mani benedette».

Per il Lanteri la conoscenza della grandezza di Maria e la devozione mariana vanno di pari passo. «Diletti, non conoscete l’efficacia di questo mezzo [la devozione] perché non conoscete Maria: chi sia, quanto possa, quanto ci ami, voglia. Maria è la più bell’opera che sia mai uscita o possa uscire dalle mani di Dio, opera tale che anche le menti più sublimi, attonite esclamano ri­mirandola: Chi è questa?, quindi S. Giovanni Crisostomo: Chi non si stupisce della Beata Vergine Maria non conosce Dio. Ammiratela, stupite».

In merito il Lanteri si appunta quattro cose: 1 - Ammirarla. 2 - Onorarla. 3 - Amarla, con­fidare tutto in Maria - difenderla, invocarla, ispirarne la devozione. 4 - Con quali pratiche esercitare la devozione verso Maria.

Quattro sono i motivi per cui Maria è così grande: la sua verginale maternità, la sua pienezza di grazia, la sua singolare sublimità, la sua grande autorità. «Ella è Madre di Dio. È dunque tale che Dio stesso non può farla più grande; può, ben dice S. Bonaventura, (fare) un altro mondo maggiore, ma fare una madre più grande della madre di Dio non può».

Spiega quindi che cosa comportino le parole «piena di grazia»: «È piena di grazia, secondo tutta la Sua capaci­tà, la quale era proporzionata alla dignità di madre di Dio; l’ha detto l’Arcangelo. Radunate tutte le virtù dei Santi che fiorirono sulla terra, tutta la bellezza degli Angeli, questo è poco in Maria.

In Maria sola è radunato quanto di bello, di buono, di grande possono essere capaci tutte le creature passate, future possibili. Iddio L’ha colmata di beni, gratia plena. Quindi Maria è in possesso di una gloria sublime fra tutte le creature, sopra le Vergini, i Confessori, i Martiri, gli Apostoli, i Patriarchi, sopra tutta la Gerarchia celeste. E’ insomma elevata so­pra tutto ciò che non è Dio, ha sotto di sé tut­to ciò che è inferiore a Dio. Insomma, Ella non è Dio, ma è subito dopo Dio; da qui na­sce la sua amplissima autorità, e se vi è cosa che Maria non potesse, non vi é più altri che possa ottenerla. Che vi è che possa negare un Dio alla sua stessa Madre, anzi appunto per­ché è sua Madre? Anzi, non vi è grazia che non passi per le sue mani, perciò è l’oggetto di ammirazione di tutti gli angeli, dei Santi».

Il Lanteri evidenzia come Maria sia oggetto di meraviglia e di spettacolo: «Spettacolo del cielo: compiacenza della Ss. Trinità: il Padre la considera come Figlia, il Figlio Madre, lo Spirito Santo Sposa, quin­di ne nasce quel culto d’iperdulia che le compete e le rende la Chiesa. Spettacolo della terra: non vi é angolo del mondo, non vi é condizione, stato di persona in cui non risplenda Maria per miracoli, per benefici. Spettacolo della Chiesa: che le rende il culto speciale di iperdulia. Non vi é quasi altare nel mondo in cui non si trovi Maria. Si istituirono tante feste, si eressero tanti sontuosissimi tem­pli, Le furono dati tanti titoli, erette tante con­fraternite, tante devozioni pubbliche, tanti pel­legrinaggi; si fa menzione di Maria in tutte le messe, nelle ore canoniche, nei rosari, nei salte­ri. Spettacolo dell’Inferno: divenne così terribile ai Demoni, che paventano e tremano al solo nome».

Per cui conclude: «Fingetevi pure Maria grande quanto vorrete, non ve la immaginerete mai abbastanza. Ora consolatevi, esultate: questa gran Madre di Dio, Diletti, è madre nostra, questo è il gran dono che ci ha fatto-Gesù Cristo dalla sua croce: Ecco la tua madre. Diletti, sta nelle nostre mani approfittarci di così gran mezzo per ottenerci delle grazie. Invo­chiamola, preghiamola, e siamo sicuri, Ella è la stessa Madre della Misericordia; non può pe­rire colui per cui s’interessa Maria. Pensate quanto deve essere misericordiosa. La stessa misericordia non si sarebbe incarnata nel suo seno, se non avesse trovato viscere di miseri­cordia».

Nella spiegazione delle Litanie il Lanteri scrive: «... passiamo subito ad esaminare la forza di questo primo titolo che la S. Chiesa dà a Maria Vergine: Sancta Maria.  Due cose ci si propone quivi, la Santità e il Nome di Maria. La Chiesa chiama dunque primieramente Maria Santa, ma quale santità le attribuisce mai? È ella una Santità comune agli altri Santi? Ella è tale che noi non possiamo immaginarcela più grande, e la ragione si è perché, come nota un S. Padre, sopra Maria non v’è più che Dio, sotto Maria v’è tutto ciò che non è Dio. Possiamo noi dirne altrettanto di qualche altro soggetto anche angelico?

Dunque dopo Dio non v’è oggetto più eccellente, più degno di lode che Maria. Dunque dopo Dio ad essa dobbiamo ricorrere e riporre tutta la nostra fiducia. Inoltre si noti come la Chiesa chiama Maria Vergine Santa; siccome la Chiesa trionfante canta di Dio: Santo, Santo, Santo, così la Chiesa militante canta di Maria: Sancta Maria, Sancta Dei Genitrix, Sancta Virgo Virginum, dicendola anche così Santa, Santa, Santa, cioè Santa di nome, Santa nell’officio e Santa di costumi, e così viene predicata per Santa alla somiglianza della santità di Dio; e questo perché la santità di Maria supera di gran lunga ogni altra santità ed è la più simile a quella di Dio. Vogliamo noi difatti formarci una qualche idea di questa sì grande santità? Riflettiamo che Maria Vergine non cominciò ad esistere che non cominciasse anche ad essere Santa (cosa che non accadde in alcun’altra persona). Si noti ancora che nel primo momento del suo essere Maria Vergine non solo fu Santa, ma Santissima, perché la sua Santità fin d’allora era più grande della Santità di qualunque non che Santo di questa terra, ma di qualunque Cherubino o Serafino, cioè era più dotata di doni, di grazie, di virtù, di perfezioni che qualunque di essi; la sua eccellenza superava l’eccellenza di chiunque, amava più Dio ed era amata da Dio più di qualunque; era in sostanza la più unita a Dio, la più simile a Dio che qualunque creatura più bella, più perfetta del Cielo.

Si noti inoltre che in ogni momento raddoppiava essa di tutto il capitale che aveva il momento avanti, perché cooperava in ogni momento a tutta la grazia che Dio le comunicava, onde il secondo momento di sua esistenza era già il doppio più santa del primo, il terzo momento era 4 volte più santa del primo, il quarto 8 volte, il quinto 16 volte, il sesto 32 volte, il settimo 64 volte; in fin di un’ora poteva avere raddoppiato il suo capitale di santità tante volte quanti sono i granelli d’arena che avrebbero riempito la terra fino al Cielo.

Che dovrà dunque dirsi di tutto il corso di sua vita che giunse a 72 anni? Quale computista può calcolare simile aumento? E tutto questo solo ex opere operantis; che sarà di quanto si accrebbe ex opere operato? Come quando le sopraggiunse lo Spirito Santo, quando concepì, portò, partorì il Divin Figliuolo? Quando il Divin Figliuolo la visitò dopo la risurrezione e in tante comunioni che fece? La S. Chiesa le appropriò quanto si dice della Sapienza eterna?

Quanto al nome poi Maria significa Mare, Mare Amarum, Stella Maris, Illuminatrix, DominaMare per la copia di grazia che ricevette, siccome si dice dell’oceano omnia flumina intrant in mare, così può dirsi di Maria che tutti i fiumi di grazie degli Angioli, Patriarchi etc. si trovano in Maria. Mare amarum per il mare d’angoscia in cui fu assorbito il suo cuore alla Passione di Gesù. Mare amarum per i demoni, per il potere di sommergere i demoni stessi. Stella maris, perché c’illumina nel mare di vicende di questa vita, perché ci procurò la luce del suo divin Figliuolo. Illuminatrix coi suoi esempi, coi suoi benefizi di misericordia, colla sua gloria in cielo relativamente agli Angioli, ai Beati. Domina degli Angioli che tutti vanno a gara a ubbidirle, degli uomini perché tutti ci tiene sotto la sua protezione, dei demoni che fuggono al solo suo nome. Diciamo dunque veramente con fiducia: Sancta Maria ora pro nobis».

 

3. La devozione mariana

3.1. Caratteristiche della devozione mariana

Il ricorrere a Maria ci viene anzitutto insegnato dalla stessa Madre Chiesa: «Dopo il ricorso alla Ss. Trinità ed alla Ss. Umanità di Gesù Cristo, la S. Chiesa ci insegna a ricorrere alla Ss. Vergine Maria onde soggiunge subito nelle Litanie Sancta Maria ora pro nobis. Non mi tratterrò a dimostrare l’equità di questo giudizio e modo di procedere della S. Chiesa, la quale sempre assistita dallo Spirito Santo tutto ciò che fa sarà sempre ottimamente fatto; ed in verità quale maggiore convenienza che dopo l’invocazione alla Ss. Trinità c’indirizziamo subito a quella che è Figlia del Padre, Madre del Figlio, Sposa dello Spirito Santo? Troveremo noi altrove titoli, prerogative ed eccellenza più grande o anche solo uguale a questa?».

«La stessa S. Chiesa ci propone sovra tutte le creature, sovra tutti i Santi, sovra tutti gli Angioli a venerare Maria, esigendo a ragione della sua virtù ed eccellenza tutta particolare e superiore ad ogni altra; una venerazione ed un culto che chiama per questo culto Iperdulia. Dunque sola può dirsi veneranda a preferenza di tutti, e in conseguenza dobbiamo unirci alla S. Chiesa per invocarla particolarmente con questo titolo: Virgo Veneranda ora pro nobis».

La devozione a Maria deve portarci non solo ad amarla e ad onorarla, ma anche ad accrescere la fiducia in Lei e nel suo patrocinio:

«... ad Essa dobbiamo ricorrere ed in lei riporre tutta la nostra fiducia».

«Sebbene Dio non ami le vostre mancanze e venialità, ama però la vostra persona. Ad una madre amorosa dispiace la debolezza ed infermità del figlio, ma ama il figlio, e lo compassiona, e lo aiuta; anzi quanto maggiore è l’infermità del figliuolo, tanto maggiore è l’aiuto che gli presta».

Negli appunti dei discorsi sull’Assunta, il Lanteri ci indica con quale spirito deve essere celebrata la novena e la festa: quello di imitare Maria.

«1. Dimorare fra i cori degli Angioli, imparare da essi le grandezze di Maria Vergine che l’elevano sopra tutto ciò che non è Dio, e mettono ai suoi piedi tutto ciò che è inferiore a Dio, e dopo il suo ingresso in cielo, godettero un nuovo Paradiso in Paradiso; trattenersi particolarmente con S. Gabriele e quello che fu custode della Beata Vergine, prendendoli tutti per intercessori presso Dio e la loro Regina per ottenere la santa purità.

2. Trattenersi con i Patriarchi e Profeti che tanto sospiravano la venuta di Maria e che ne predissero tante belle cose, chiedere loro qualche cognizione di Maria; desiderare di vederne la sua gloria; imitare quel Santo che si protestava pronto a sostenere qualsiasi martirio per vedere anche solo di passaggio la gloria di Maria. Conversare particolarmente con S. Gioacchino, S. Anna, S. Giuseppe.

3. Passarsela con i Ss. Apostoli e Discepoli che furono i favoriti di Maria; imparare da essi ad amarla; trattenersi particolarmente con S. Giovanni Evangelista, e S. Luca.

4. Trattenersi con i Martiri che mettono ai suoi piedi le loro palme e corone, riconoscendola loro Regina, massime per quanto Essa soffrì nel suo cuore ai piedi della croce, animarsi a soffrire anche qualche cosa per Dio, giacché ogni minimo patimento è contraccambiato in così gran gloria in cielo.

5. Conversare con i Confessori che riconoscono la loro Santità, particolarmente da Maria, prendere la risoluzione di imitare le loro virtù, prenderli per intercessori presso Maria di una veloce santità.

6. Trattenersi a conversare con le Vergini, considerare i loro sforzi per resistere alle tentazioni e conservare la bella virtù della verginità: ricorrere alla loro intercessione ed all’intercessione della Vergine per eccellenza, per ottenere lo stesso.

7. conversare con tutti i Santi del vecchio e del nuovo Testamento che tutti si gloriano di riconoscere e venerare Maria Vergine per loro Regina, per chiedere a tutti che ci ottengano da Dio e da Maria la perseveranza nel bene».

La devozione mariana non può allora rimanere a livello di bocca, ma deve diventare vita, opere, secondo la volontà di Dio.

«La vera devozione dev’essere religiosa, cioè tale da unire il cuore alla bocca e all’opera, altrimenti diventa un compimento vuoto e inutile. La devozione è la volontà pronta e decisa di eseguire tutto ciò che desidera la Santa Madre di Dio. In base a questa regola devono essere esaminati gli atti della devozione, se cioè procedono da questa volontà come effetti e segni, o ad essa dispongono come mezzi dei quali dobbiamo servirci per raggiungere questo ultimo scopo».

E’ chiaro che «eseguire tutto ciò che desidera la Santa Madre di Dio» significa, come a Cana, fare unicamente ciò che vuole il Figlio da noi: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5).

Per il Lanteri non vi è affatto il rischio di «esagerare» nella devozione: «Quanto alla devozione verso Maria Vergine si rifletta che non si può eccedere, 1. in onorarla, dacché il Verbo eterno volle onorarla qual sua Madre; 2. in amarla, dacché lo Spirito Santo l’amò a segno di volerla sua sposa; 3. in confidenza, dacché il Padre Eterno le confidò la cura del suo Unigenito».

 

3.2. Alcune «grazie» che Maria ci ottiene

Scorrendo le pagine degli scritti possiamo vedere che il Lanteri era convinto che l’autentica devozione a Maria ci ottiene diverse «grazie». Ne cito alcune:

● ci protegge dal Maligno: «… tutti ci tiene sotto la sua protezione, dei demoni che fuggono al solo suo nome».

● ci aiuta a superare la tentazione: «Voglio avere un amore tenero verso Maria Vergine e confidenza in lei di figlio a sua Madre, e in grado tale, che mi paia impossibile che mi permetta di essere vinto e perisca in quella battaglia: ricorrerò dunque a Lei come un pulcino si ricovera sotto le ali di sua madre alla voce del nibbio vorace, e dopo l’atto d’amor di Dio dirò: “Monstra te esse matrem etc. Sub tuum præsidium etc. Maria mater gratiæ etc. ».

«Che se nonostante tutte le suaccennate avvertenze qualche tentazione contro la purità li assalisse, prima di tutto ricorrano sollecitamente alla preghiera giusta l’avviso dello Spirito Santo. “Sapendo che non l’avrei altrimenti ottenuta, se Dio non me l’avesse concessa… mi rivolti al Signore e lo pregai” (Sap 8,21), e particolarmente invochino l’assistenza di Maria, né cessino di pregarla finché dura la tentazione».

«Modo di vincerle: Fede, orazione, disprezzo, allegria, nomi santissimi di Gesù e di Maria, fortezza di cuore: Resistite fortes in fide; ...».

E a Suor Crocifissa, spiritualmente turbata, il Lanteri scrive:

«Fidatevi più del vostro Celeste Sposo e di Maria Vergine, vostra cara Madre (e più specialmente vostra) quali io sono certo che vi vogliono perseverare da ogni colpa grave: non vi lasciate dunque turbare»

● ci preserva dal cadere nell’eresia:

«Il B. Liguori somministra pure le armi contro tutti gli errori correnti, e dà il mezzo di precauzionare se stessi e gli altri da simile peste, con eccitare e promuovere in ogni modo ed occasione una devozione filiale e tenera verso Maria Santissima, la quale sola può bastare contro ogni eresia, e di più con procurare una stima grande, ed un forte attaccamento con vero spirito d’obbedienza».

Il Liguori stesso «non ha mancato di raccomandarsi a Dio ed a Maria Santissima per non errare».

● ci ottiene la grazia di una «stabile e vera compunzione di cuore» per i propri peccati.

«Invocate la protezione di Maria come rifugio dei peccatori, acciò vi ottenga una stabile e vera compunzione di cuore, ed a questo fine visiterete tre volte il suo altare recitando in ogni volta la Salve con aggiungere quel versetto: Fac me vere tecum flere, crucifixo condolere donec ergo vixero [“Fammi sempre piangere con te, condividere i dolori del Crocifisso, finché vivrò”]».

● ci dà la grazia di «morire interamente» a se stessi «e vivere totalmente per Dio e per il prossimo». ci ottiene di perseverare nel bene; ci ottiene l’amore per le virtù e il desiderio di imitare Maria. E’ una convinzione che emerge, ad esempio, nella lettera che il Lanteri scrive ad una sua penitente e figlia spirituale, Leopolda Mortigliengo: «Io penso che in questa novena della Santissima Vergine vi occuperete più che mai di allontanare da voi ogni scoraggiamento nel servizio di Dio... e che invece procurerete di esercitarvi con tutto l’impegno negli atti delle virtù teologali, come pure dell’umiltà e della dolcezza così care ai Cuori di Gesù e di Maria; perché in questo mistero dell’Assunzione noi troviamo un modello bellissimo di queste virtù, un invito dolcissimo a praticarle, una protettrice potente e sollecita ad aiutarci, ed una ricompensa al di sopra di ogni nostra aspettativa, perché sarà quella ricompensa medesima che fu data alla santa Vergine. Portiamoci dunque ora al letto della sua morte ad impetrare l’eredità delle sue virtù e soprattutto la febbre del suo divino amore e la sua benedizione…».

E, scrivendole nel 1813 da Bardassano il Lanteri si augura che la novena a Maria le ottenga la grazia di iniziare ogni giorno e di vivere nella fede.

Nelle Massime indirizzate ad una dama penitente, probabilmente nobile e sposata di recente, il Lanteri suggerisce di chiedere a Maria le seguenti grazie: «La generosità di animo, e la libertà di cuore nell’agire e nel soffrire, la fedeltà nelle risoluzioni fatte a Dio, la tranquillità, l’allegrezza, l’amore del prossimo, la compassione delle miserie altrui, la bontà, la pazienza, la longanimità, l’affabilità, la condiscendenza in tutto ciò che non è offesa di Dio; insomma l’essere mite ed umile di cuore, è egli carattere che mi prefiggo di avere e che domanderò continuamente al S. Cuore di Gesù e di Maria».

Similmente, in un altro testo, leggiamo: «Quanto ai sentimenti di superbia che vi assalgono, non dovete scoraggiarvene, ma disprezzarli sulla persuasione che ne siamo impastati, e chiedete a Maria Santissima l’umiltà…».

Ancora, negli «Appunti» di discorsi sull’Assunta, leggiamo: «Uno sguardo a Maria che muore d’amore per Dio. Desiderio d’imitarla; fa che arda il mio cuore. E’ assunta tra gli Angeli in cielo. Invidia di tenerle dietro; chiederle che almeno ci stacchi il cuore dalle cose di questa terra. Incoronata in cielo; oggetto di ammirazione poiché sopra Maria non c’è più che Dio, sotto Maria c’è tutto ciò che non è Dio; prostrarsi con gli angeli per venerarla. (…)

Maria Vergine fu incoronata in cielo come Figlia, come Madre, come Sposa; con triplice corona di Sapienza, di Potenza, di Bontà; con l’attendere all’orazione si partecipa alla sua Sapienza, con vincere se stesso si partecipa della sua Potenza, con la carità, cordialità, condiscendenza verso il prossimo si imita la sua Bontà».

● ci ottiene i «lumi» necessari:

-  per vivere con fedeltà la propria vocazione: «Professerò sempre una particolare e tenera devozione al S. Cuore di Gesù, ed a Maria Vergine, che sono le fonti di tutte le grazie, ad essi mi indirizzerò in tutti i miei bisogni, perché mi diano lumi e grazie necessarie, fermamente persuasa che è impossibile che essi mi abbandonino, e non si interessino per me».

All’oblato Luigi Craveri che lascia la congregazione il Lanteri scrive: «M. [Maria] V.ne cui Ella si dedicò in modo speciale unitamente con noi per promuovere questa sua Congregazione, non crederei che le abbia suggerito di lasciare uno stato di migliore e maggior bene da lei riconosciuto e confessato più volte per tale, e di contravvenire alle obbligazioni contratte con questa stessa Congregazione…».

- per fare le scelte secondo la maggior gloria di Dio. Così, ad esempio, nella lettera del 12 gennaio 1816 indirizzata all’oblato Craveri, il Lanteri, dopo averlo informato che il Provicario è impossibilitato a dare gli esercizi a Casale, gli chiede se può darli lui al suo posto. E per tale scelta gli assicura: «... mi restringerò a pregare il Signore e Maria Ss. perché le dia i lumi, ed aiuti opportuni».

● otteniamo la celeste Sapienza. Così il Lanteri invita gli Oblati: «Riguardo al modo [dello studio] ricorreranno in primo luogo con l’orazione al Padre dei lumi e alla Madre della celeste Sapienza, perché vogliano illuminare la loro mente e fornirli della necessaria scienza».

● ci configura a Cristo: «Il frutto… che incessantemente chiedono a Gesù ed a Maria, è una grande somiglianza ed unione con Gesù, ove consiste tutta la santificazione nostra».

● ci ottiene la grazia di vivere giorno per giorno, momento per momento, alla presenza di Dio: «Conversar sempre con le Divine Persone. Desiderarle di presto vederle per amarle senza intermissione e non più offenderle. Maria Vergine e San Giuseppe ne ottengano l’esecuzione dal Sacro Cuore di Gesù, e la continua sua unione, compagnia e società. Te Deum laudamus».

● ci assiste nell’ora della morte: «Io credo, io spero di salvarmi, benché colpevole ed ingrata. Voi, o Ss. Vergine, soccorretemi in questo pericoloso ed ultimo combattimento. Maria Mater gratiæ, Mater misericordiæ, tu me ab hoste protege, et mortis hora suscipe. Glorioso Patriarca S. Giuseppe, datemi questa grazia che io spiri l’anima nelle vostre mani, nelle mani di Gesù, e di Maria ».

 

4. Maria nella liturgia

Nella preparazione alla santa Messa il Lanteri si rivolge a Maria perché gli presti «le Sue vesti, gioie e tutti gli abbigliamenti di casa per tale funzione, e di poter offrire tutti i suoi meriti al benedetto Suo Figliolo per ricoprire così l’indecenza di un sì sordido albergo». In un altro passo del suo Direttorio scrive, sempre riguardo la celebrazione della santa Messa: «Per l’apparecchio […] pregherò Maria, Giuseppe a insegnarmi la maniera di trattare con Gesù…». Come si può notare con facilità, si tratta di una vera imitazione delle virtù e atteggiamenti di Maria nel trattare con Gesù, secondo la dottrina che sottolineerà il Vaticano II.

Per partecipare con profitto alla S. Messa il Lanteri suggerisce: «Dobbiamo immaginarci di essere in cielo, non in terra; assistono migliaia di Angeli adorando e avendo in pregio le mani del Sacerdote; offrire Gesù alla Santissima Vergine».

Il Lanteri vuole intendere qui la presentazione amorosa e affettuosa del Figlio alla Madre. Rendendo presente il Figlio nel sacramento di cui Maria stessa un tempo si nutrì, il Lanteri immagina di offrire, nel senso di presentare quel Gesù Eucaristico che le sue mani consacreranno a sua Madre.

Riguardo alla visita al Santissimo nel suo Direttorio spirituale scriveva: «Atto di fede, di adorazione, supplicarLo del patrocinio negli affari o meditare una domanda del Pater, o con la sua assistenza porgere la supplica del Pater, ringraziamento, Sub tuum».

E per i suoi Oblati il Lanteri scrive: «Conoscendo finalmente il desiderio che il Signore ha di stare con noi, e come ci aspetta per usarci misericordia, non sarebbero tranquilli [gli Oblati] se lasciassero passare la giornata senza ricorrere con amorosa fiducia a questo fonte di misericordia che sempre ci invita e non facessero ad un tempo ricorso a Maria Santissima, la quale è trono della divina misericordia, ed il canale per cui si ricevono tutte le grazie. Non lasciano perciò di fare ogni giorno la Visita al SSmo Sacramento e a Maria SSma al tempo fisso, se possono, od altrimenti nel primo intervallo libero di tempo che hanno, anche per dimostrare il singolare impegno che hanno di professare una speciale devozione a Gesù e a Maria, e di promuoverla pure in ogni tempo e luogo negli altri».

 

5. Maria e gli Oblati di Maria Vergine

Gli Oblati – scrive il Lanteri - sono «pienamente a Maria Vergine dedicati» e «si propongono di attendere seriamente alla salute e santificazione di se stessi per via dell’imitazione la più attenta di Gesù Cristo che si propongono per modello in ogni azione, unitamente agli esempi di Maria Santissima loro cara Madre».

Il Lanteri vuole che per gli Oblati Maria sia modello, scala, scuola, aiuto per conformarsi a Gesù: «In ciascuna azione hanno dunque sempre Gesù innanzi agli occhi; Gesù è sempre il loro compagno ed il loro modello, e si studiano d’imitarlo nel modo più perfetto, sia quanto all’interno che all’esterno, unitamente agli esempi di Maria Santissima, per rendere in questo modo, con l’intercessione di Maria più somigliante a Dio, l’immagine impressa nella nostra anima».

Centrale alla devozione a Maria è l’attenzione alle sue virtù evangeliche per imitarla nel suo modo di vivere e così accogliere da lei Cristo e a lui conformarsi. Il Lanteri invitava i suoi Oblati a chiedere a Gesù e Maria...

«... una grande somiglianza ed unione con Gesù, ove consiste tutta la santificazione nostra, poiché così continuamente [gli Oblati] si esercitano a conservare la memoria non dissipata, ma dolcemente fissa in Gesù, ad assuefare l’intelletto a vedere e giudicare sempre ogni cosa secondo Gesù, a tenere la volontà sempre tranquilla ed unita a quella di Gesù. Insomma, così sono sempre in compagnia di Gesù, conversano sempre con Gesù, sempre uniti con Gesù nelle intenzioni e nelle azioni, e così diventano una copia viva di Gesù. Così Gesù forma l’unico tesoro del loro cuore; così Gesù abita nei loro cuori, ed essi abitano nel Cuore di Gesù».

L’Oblato sa di trovare in Lei una madre nel suo progetto spirituale. Sente che tutta la sua identità nella Chiesa nasce da Maria, si svolge in Maria, prende forma concreta con il patrocinio di Maria, ed esprime questa convinzione chiamando Maria «la sua fondatrice». Maria è anche la sua maestra, che protegge la Congregazione da ogni errore di dottrina ed esercita verso di essa «un’assistenza veramente speciale e mirabile».

 

6. «Pensa Maria, invoca Maria»

Sullo stemma degli Oblati leggiamo: «Mariam cogita, Mariam invoca». È una frase di San Bernardo che ci invita a contemplare la figura di Maria come ce la presenta il Vangelo, modello di disponibilità totale alla Parola e allo Spirito; e a invocare Maria, con una preghiera fiduciosa che sa rimettere alla sua materna intercessione tutto il nostro essere e agire.

Perché nel titolo di questo intervento abbiamo chiamato la vergine Maria «Donna del settimo giorno»? Perché ce lo suggerisce il Vangelo di Giovanni.

 

La cifra mariana del “settimo giorno” nel Vangelo di Giovanni

È interessante notare che nel Vangelo di Giovanni Gesù si rivolge a Maria con l’appellativo «Donna» in due episodi: le nozze di Cana (Gv 2,4) e  sulla croce (Gv 19,26). In entrambi gli episodi cioè avviene – secondo la cronologia della settimana – il settimo giorno. Certo la cronologia dell’ultima settimana è rovesciata: si parte da «sei giorni prima della Pasqua» (Gv 12,1), quando Gesù si reca a Betania, e si giunge, a ritroso, al grande sabato della pasqua ebraica, che per noi cristiani è il sabato santo, nel quale Maria è in casa con il «discepolo amato», Giovanni.

Nel seguente schema possiamo meglio vedere il riscontro speculare delle due settimane di giorni nel Quarto Vangelo.

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SETTIMANA INIZIALE

1°  giorno:   Gv 1,1-28: “In principio era il Verbo… e si è fatto carne…e noi l’abbiamo visto”.

2°  giorno:  Gv 1,29-34: “Il giorno dopo… ‘Ecco l'Angello di Dio!’ ”

3°  giorno: Gv 1,35-42: “Il giorno dopo… ‘Rabbì, dove abiti?’ ”

4°  giorno:  Gv 1,43-51: “Il giorno dopo… [in Galilea] ‘Seguimi!’ ”

5°  giorno: (il vangelo non narra alcun evento)

6°  giorno: (il vangelo non narra alcun evento)

7°  giorno: Gv 2,1: “Tre giorni dopo [il quarto] ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù là”

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SETTIMANA FINALE

1°  giorno: Gv 12,1-11: “Sei giorni prima di Pasqua Gesù andò a Betania…” (cena in casa di Lazzaro)

2°  giorno:  Gv 12,12-50: “Il giorno dopo… ‘Osanna!’ ”

3°  giorno (il vangelo non narra alcun evento)

4°  giorno (il vangelo non narra alcun evento)

5°  giorno (il vangelo non narra alcun evento)

6°  giorno: 13,1-19,43: “Prima della festa di Pasqua…” (Ultima Cena)

“Era notte... (13,30) allora condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio…

Era l’alba… crocifissero Gesù…

Donna, ecco tuo figlio, figlio, ecco la tua madre. E da quel momento il discepolo la prese con sé”.

Morte e sepoltura di Gesù

7°  giorno (sabato santo; pasqua ebraica)

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Per non confonderci nella cronologia bisogna ricordare che per gli ebrei il giorno iniziava dopo il tramonto del sole con l’apparire delle prime stelle in cielo. Quindi anche l’ultima cena, che per noi è il giovedì santo, per Gesù è iniziata – secondo il computo dei giorni ebraico – all’inizio di venerdì, di questo lungo gran giorno che conosce tutta la passione e morte di Gesù e la sepoltura affrettata a causa della pasqua ebraica.

Quale rapporto c’è tra Gesù, l’Uomo (Gv 19,5), e Maria, la Donna, nei due episodi posti dall’evangelista nel 7° giorno? Credo che lo si debba interpretare in base all’espressione pronunciata da Gesù nell’episodio di Cana: “QUID MIHI ET TIBI EST MULIER? (τί ἐμοὶ καὶ σοί , γύναι)» (Gv 2,4).

Spesso questo idiomatismo (il testo latino della Vulgata è fedele al testo greco, che a sua volta rispecchia un’espressione idiomatica semitica) viene reso (non ‘tradotto’) con formule varie e molto diverse, esprimenti un rapporto dialettico (più o meno pesante) tra Gesù e Maria. Così, ad esempio, nell’ultima versione CEI leggiamo: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora”.

Credo, invece, che si possa dare un senso diverso alla frase, decisamente positivo. Infatti nei due episodi evangelici del settimo giorno c’è la piena solidalità, o perfetto accordo, del Figlio e della Madre nel “Sì” al volere del Padre. Perciò suggerisco di tradurre: “Donna, è ancora la tua ora, la mia non è ancora giunta”. Si tratterebbe allora, da parte di Gesù, di un invito a un protagonismo femminile che Maria subito mette in atto, producendo un capolavoro che può dirsi di ‘cristofania’; Maria-Donna, sentendosi investita da Gesù in una responsabilità personale, vive la sua «ora», facendola meditrice-rivelatrice-promotrice dell’ora di Gesù. Gesù agisce lasciando prima intervenire lei, la Donna.

L’evangelista non ignora che già trent’anni prima Dio aveva voluto fare appello alla responsabilità di Maria, al suo protagonismo di Donna giovane e umile, un protagonismo grande, perché pienamente libero. Giovanissima, aveva dato il suo convinto assenso accogliendo in sé, con la fede più pura nella parola che l’angelo le aveva detto. Con il suo “sì” è iniziata l’ora di Maria, cioè quel protagonismo a servizio del progetto di salvezza divina nell’accogliere il Figlio eterno, generarlo e darlo alla luce, vissuto nei lungi a Nazareth educarlo… ed ora, ormai grande e pronto ad iniziare la missione pubblica, indicare proprio a Lui che manca il vino a Cana. Ed è proprio questo

È chiaro che la sua ora Maria la sta vivendo da molti anni, cioè proprio dal sì dell’annunciazione, l’ha vissuta nei lunghi anni a Nazareth come un servizio materno verso il figlio Gesù, ed ora, in questo settimo giorno di Cana è riconosciuta ufficialmente da Gesù stesso, e la vivrà in pienezza come un servizio alla fede e alla vita del giovane Discepolo divenuto suo “figlio”, e di ogni discepolo amato simboleggiato dalla figura di quel discepolo sotto la croce.

Passiamo ora all’altro episodio del settimo giorno, ove Maria è sotto la croce e sente la voce del suo Figlio morente dire: “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre”. E “il discepolo la prese in casa sua”. Nel cuore di Giovanni, fratello di Giacomo, soprannominati “boanerges”, cioè “figli del tuono” (cfr. Mc 3,17), comprensibilmente per lo slancio generoso della loro indole, ora regnava la morte. La sepoltura era stata eseguita in fretta, perché iniziava, con le prime stelle, il grande giorno del sabato, quando nessuno “lavoro” si doveva più fare: solo squilli di tromba, canti alleluiatici, fervore religioso, festa di popolo. Ma il cuore di Giovanni non poteva essere in sintonia con questo clima di festa perché il suo Maestro, giaceva là, freddo, sulla pietra del sepolcro.

Giovanni ha dunque vissuto quel sabato,  quel “settimo giorno”, con la Madre di Gesù, che non esita a ripetergli: “È ancora, sempre, il Figlio di Dio!”. In altre parole “il discepolo che Gesù amava” ha potuto vivere la sua più nera giornata non nella solitudine mortale, ma sorretto dalla fede di «colei che ha creduto» (Lc 1,45). Benché fosse stata trapassata dalla spada che trafigge l’anima (cfr.Lc 2,35), continuava a credere che, pur deposto il corpo del suo figlio nel sepolcro, il Maestro è il Signore della vita. Giorno mariologico per eccellenza quel sabato, detto “santo”.

Potremmo pensare che con la risurrezione di Cristo sia terminata quest’ora di Maria. E invece no. Crediamo infatti che la sua ora – affidata da Cristo sulla croce – continua nel tempo della storia, tra la risurrezione di Cristo e la sua venuta nella gloria, finché il settimo giorno della storia possa un giorno entrare nell’ottavo, cioè nella pienezza escatologica. Si tratta – per così dire – di un ministero materno di Maria verso quel discepolo amato che è l’immagine di ogni credente in Cristo.

 

L’intervento teologico di Maria a Fatima

Nel corso delle apparizioni mariane ai tre fanciulli di Fatima c'è un “Dio vuole”. Nella relazione fatta dai bambini la sera del 13 giugno 1917 si legge che la Bella Signora, rivolta a Lucia, dice: “Gesù vuole servirsi di te per farmi conoscere e amare. Vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato”; seguì una visione: “davanti alla palma destra della Madonna un cuore coronato di spine che ci sembravano confitte. Capimmo che era il Cuore Immacolato di Maria”.

Nell'apparizione del 13 luglio ai bambini è data la visione dell'inferno: “Avete visto l'inferno dove vanno a finire le anime dei poveri peccatori. Per salvarli il Signore vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato”. Si pensa spontaneamente che 'il Signore', che la Madonna nomina, sia sempre Gesù, come nella seconda apparizione, ma nella ' Quarta Memoria', che Lucia scrisse dietro ordini dei superiori nel 1941 (aveva 34 anni), le parole della Madonna fanno riferimento a Dio: "Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Imma­colato"; non cambia molto quanto a rilevanza teologica del messaggio, perché Gesù parla comunque con autorità divina; si precisa però, in senso forte, la comprensione che ne ha avuto la veggente.

Ciò che non risulta ancora preso in attenta considerazione non è la “'devo­zione al Cuore Immacolato di Maria”, che nel frattempo è stata ampiamen­te dibattuta, ufficialmente riconosciuta e onorata di una memoria liturgica obbligatoria proprio il sabato che segue la Solennità del SS. Cuore di Gesù; non risulta ancora tema di sistematica riflessione il dire che questa “devozione” è una “istituzione” voluta da Gesù, voluta da Dio.

La Madonna usa il verbo “volere” per rivelare un Disegno di Dio. Se ci si chiede quale realtà è l'oggetto del “Dio vuole che..”, la risposta è una sola: l'istituzione a livello mondiale di un culto al Cuore Immacolato di Maria[1]. Occorre uno sforzo per non perdere di vista la novità di questa richiesta. Dio vuole una “devozione istituzionalizzata” al Cuore Immacolato di Maria, non opzionale e non riservata alla Chiesa anagraficamente riconoscibile, ma uf­ficiale. Di conseguenza Fatima ci invita a contemplare un protagonismo mariano nell'economia della Salvezza voluto da Dio stesso, che è più rilevante di quanto per l'addietro si fosse disposti ad ammettere.

 

La Donna-Signora “in cattedra”ad Amsterdam

A quarant'anni di distanza dalla prima apparizione di Fatima, apparendo il 31 maggio 1957 per l'ultima volta alla veggente cinquantaduenne in pre­senza di altra gente, la Madonna ha detto: "Per dodici anni ho potuto venire a mettervi in guardia... mediante l'intercessione della Signora di tutti i Popoli, Sposa del Signore e Regina del Re, è stato possibile salvare ancora una volta il mondo"; è l'in­consueto linguaggio con cui termina la lunga serie di messaggi dettati dalla Madonna alla veggente di Amsterdam[2].

Già l'immagine offerta allo sguardo della veggente da (Donna)Signora di tutti i popoli, perché fosse tradotta in icona e destinata a tutti i popoli', è forte­mente rivelativa.

La B. V. Maria è raffigurata in veste candida, la sua persona copre quasi per intero lo stipes (tronco verticale) della croce che le fa da sfondo e della quale sono visibili solo la parte terminale dello stipes stesso e le estremità del patibulum; un drappo le avvolge la vita, i piedi poggiano saldamente su un globo che emerge da una innumerevole schiera di uomini, le braccia sono rivolte in basso, le mani aperte con una piaga sul palmo e tre raggi di luce ne escono scendendo verso l'umanità; la stessa Beata Vergine afferma che quell'immagine “è significato e raffigurazione di un nuovo dogma”.

Nei simbolismi, che non sono di difficile intuizione e dei quali Lei stessa del resto ha dato spiegazione, c'è il tema della sofferenza innocente che si associa a quella del Figlio; in particolare del drappo che le avvolge la vita dice che è come la fascia che cinse i fianchi del Figlio sulla Croce'52; i tre raggi che escono dalle piaghe che ha nelle mani sono 'i raggi di Grazia, Redenzione e Pace', palese richiamo alle Persone divine con le quali Lei sta in singola­rissima relazione.

Impressiona l'esplicito riferimento a un Disegno che, partendo da Dio, include la Donna così come l'immagine la presenta (sembra di riudire la “Bel­la Signora” di Fatima che dopo quarant'anni torna a ribadire una esplicita “Volontà” di Dio): “…il Padre e il Figlio vogliono presentarmi nel mondo in questo periodo come Corredentrice, Mediatrice e Avvocata”; dichiara che questo “è un nuo­vo dogma”, precisando che il riconoscimento dogmatico sarà preceduto dalla diffusione dell'immagine.

Non può non stupire che colei che così parla è sempre “l'umile ancella del Signore”.

La Madonna stessa prevede un'aspra opposizione dei teologi al “nuovo dogma”, e tuttavia di­chiara che “Quando il dogma, l'ultimo dogma della storia mariana, sarà proclamato allora la Signora di Tutti i Popoli donerà la Pace, la vera Pace al mondo”. Ci si trova di fronte a un tema su cui è impossibile equivocare; solo prendendo atto che il posto che spetta alla DONNA-SIGNORA nei disegni di Dio è molto più alto di quanto le menti umane osino pensare non si rimane spiazzati.

 

L’“io voglio” di Maria a Civitavecchia

Nelle apparizioni e messaggi di Maria a Civitavecchia (1995-1996) afferma che il suo compito “concessomi a Dio è portarvi tutti a Gesù” (messaggio del 21 agosto 1995). Nei suoi messaggi già negli anni 1995-1996 la Vergine aveva messo in guardia da u piano diabolico che prevede: l’attacco e la distruzione della famiglia; grande apostasia; scandali dentro la Chiesa; gravi mancanze fra le stesse schiere gerarchiche, da cui un forte richiamo ai vescovi per la loro unità intorno al papa Giovanni Paolo II, indicato come modello e suo dono per i tempi presenti; pericolo per la nazione italiana, con il rischio concreto di una terza guerra mondiale tra Occidente e Oriente.

Di fronte a tutto ciò Maria non esita ad esprimere un forte “Io voglio”: “Il mio volere è che vi consacriate tutti al mio Cuore Immacolato, Regina del Cielo, Madre delle Famiglie, Portatrice di Pace nei vostri cuori”. La consacrazione al suo cuore non appare quindi più una pia pratica mariana, riservata ad un certo numero di devoti, ma un forte appello a tutti i credenti affinché stringendosi a Lei, possiamo essere il “vero popolo di Dio con un unico cuore che pulsa raggi di luce del Signore per diffonderli in tutto il mondo” (messaggio del 25 agosto 1995)[3].

 

Il ruolo unico e singolare di Maria nell'opera della salvezza (riflessione teologica)

Possiamo approfondire quanto detto fino ad ora riflettendo sul ruolo unico e singolare di Maria nell'opera della salvezza. Dio l'ha scelta dall'eternità ad essere madre del Figlio che si è fatto uomo nel suo seno. Ma questa maternità, per volontà stessa di Dio, si espande su tutti gli uomini. Maria, infatti, è vera madre di Gesù, che è il Capo del Corpo che in sé riunisce le creature salvate. Pertanto Maria è Madre del «Cristo totale» (cfr. CCC 726), ovvero madre del Capo e nello stesso tempo madre del suo Corpo, della Chiesa che è chiamata a radunare tutti gli uomini salvati.

Seguendo la lettura del teologo De Fiores, che in Maria vede un caso palese della logica storico-salvifica dell’abbassamento-esaltazione, possiamo dire che Maria, resasi piccola per poter essere vicino ai piccoli, è innalzata quale Madre di tutti gli uomini bisognosi della salvezza.

La lettura pneumatologica della maternità divina è pista per poter comprendere la portata della maternità divina quale espressione più caratteristica della sua cooperazione umana, ovvero l’estensione della sua maternità spirituale e corporale di Gesù Cristo alla maternità spirituale di tutti gli uomini.

Ogni rapporto di ciascun uomo con Cristo avviene nello Spirito Santo. Per opera dello Spirito avviene la filiazione adottiva della nuova creatura e la sua identificazione con Cristo. Lo stesso Spirito che ha animato e riempito l’umanità di Gesù Cristo, in quanto perfetto uomo, ricrea nell’umanità, in ogni singolo uomo, i lineamenti della umanità salvata di Gesù. Questa perfetta umanità di Gesù è definita da due dati fondamentali: essere figlio del Padre e, per opera dello Spirito, figlio della Vergine Madre. Nessuno di questi dati rappresenta un carattere puramente biologico o privato di Gesù. Quando lo Spirito, nella manifestazione della salvezza, riproduce nell’uomo salvato i lineamenti della perfetta umanità di Gesù Cristo, Verbo incarnato e figlio di Maria, riproduce anche la sua filiazione da parte di Maria. Pertanto, nello Spirito tutti gli uomini salvati sono anche figli di Maria. Ricevendo lo Spirito, la nuova creatura diventa figlio nel Figlio e anche, partecipando alla filiazione di Gesù, figlio della Vergine Madre.

Da questo deriva, che non si può essere salvati in Cristo senza diventare figli della Madre. La maternità universale di Maria, che il Concilio Vaticano II chiama maternità nell’ordine della grazia (cfr LG 31), acquista la sua universalità secondo l’opera dello Spirito che universalizza e interiorizza l’evento della salvezza. Partecipando come nuova creatura alla filiazione divina di Gesù e crescendo come immagine di Dio nel suo pellegrinaggio verso la somiglianza con Dio, l’uomo partecipa alla, e così realmente entra nella, relazione che Gesù Cristo ha vissuto e vive con sua madre. Per questo essere salvati significa essere figli nel Figlio, partecipare alla filiazione divina di colui che è il Figlio eterno del Padre e il Figlio vero di sua madre. Proprio lo Spirito di Cristo crea la nuova e universale relazione materna tra la Beata Vergine e l’uomo che partecipa alla filiazione di Gesù. Tutti coloro che sono figli nel Figlio, per l’opera dello Spirito che rende capaci di partecipare alla filiazione stessa del Figlio, hanno il Dio di Gesù come loro Padre e la madre di Gesù come loro madre.

Se dunque il cristiano è cosciente di questa volontà divina di venire salvati in Cristo diventando figli della Madre, capiamo che non può che riferirsi a lei come figlio. Per questo motivo crediamo che l'atto di consacrazione a Maria non è, nella coscienza di chi ha compreso qual è il posto singolare e unico di Maria nella salvezza, voluto da Dio stesso,  una semplice devozione, magari accessoria, ma un atto con il quale accogliamo la salvezza stessa attraverso la mediazione materna di Maria che Dio ha pensato per ciascun figlio nel Figlio. Capiamo allora, in questa prospettiva, la richiesta stessa di Maria di consacrarsi al suo Cuore Immacolato e il fatto che questa consacrazione è volontà di Dio, come lei stessa ebbe modo di affermare a Fatima e ribadita a Civitavecchia. E se vogliamo essere realmente figli nel Figlio, rimaniamo docili alle richieste e  agli appelli che la Madre di Dio - nelle sua apparizioni -  ci rivolge nel settimo giorno, cioè nel presente che stiamo vivendo in questo tempo di grazia. Faremo esperienza che nonostante tutte le difficoltà e le crisi che stiamo vivendo, non ci verrà a mancare - come a Cana - il vino dello grazia del Signore. 

 

E la proclamazione del nuovo dogma mariano?

Sappiamo che è in atto un serrato dibattito sulla possibilità e opportunità di un nuovo dogma mariano che abbia come oggetto l’unicità della cooperazione salvifica della Madre di Dio. Sappiamo che ci sono teologi a favore della proclamazione di Maria come corredentrice, altri invece no. Altri teologi, benché in parte aperti alla possibilità di questo futuro dogma mariano, negano l’urgenza di tale proclamazione nel momento attuale della Chiesa, spiegando che oggi non vi è un’eresia che neghi il fatto di fede, essendo il dogma sempre un pronunciamento mirato a salvaguardare il depositum fidei e assicurare la vera fede.  

Forse è necessario andare oltre queste posizioni che legano strettamente l’opportunità di un dogma alla comparsa di eresie, come già si è fatto negli ultimi due dogmi mariani. Riteniamo, infatti che, oltre a rispondere alla richiesta esplicita di Maria ad Amsterdam, anche il mondo attuale ci indica che oggi è il momento opportuno per la promulgazione del nuovo dogma. La Chiesa odierna si trova di fronte alle caratteristiche e alle conseguenze della post-modernità. In questa nuova stagione culturale – se così la possiamo chiamare – si è assiste alla fine delle “grandi narrazioni”. Dio per molti contemporanei rimane lontano ed estraneo; anche se esiste – almeno per chi ci crede in un Ente soprannaturale - non ha alcuna incidenza nella vita concreta di tutti i giorni. E nemmeno si sente il bisogno di salvezza; a meno che con tale termine si invochi la scienza e la tecnica, capace di “salvare” l’uomo dai suoi limiti creaturali – o almeno alcuni di essi -, se non nel presente con la speranza che ciò avvenga nel futuro grazie al progresso della scienza stessa.

Perdendo il proprio riferimento a Dio l’uomo post-moderno ha perso anche il senso della propria identità – e, se ancora si parla di identità, esse sono assai “fragili”, frammentarie e “provvisorie” – e il senso stesso della fraternità con gli altri uomini.

L’uomo post-moderno, forse più che in ogni altro periodo storico, vive come un’isola, nell’egoismo e negli aspetti materiali. È un consumista e viene misurato secondo il suo avere.

Immerso nella cultura nichilista, relativista e post-moderna, l’uomo contemporaneo riceve tutta una serie di stimoli negativi – segnali, informazioni, messaggi, richiesta, modi di dire e di fare – il cui senso è sempre lo stesso: nulla ha davvero valore (o, al massimo, una realtà ha un valore per il singolo soggetto), vivere è sopravvivere finché si può, la felicità non esiste. In confronto, gli stimoli positivi, quelli che fanno respirare le persone, sono assai rari. La percezione del valore delle persone e della vita stessa, della solidarietà, della bellezza, della giustizia, della pace e della propria responsabilità per tutto questo si affievolisce e viene sepolta in una montagna di angoscia. Anche la bellezza della natura, che è come l’abbraccio di Dio aperto verso un’umanità di cui si attende il risveglio, resta disattesa e tradita. Così molti si scordano del futuro che li riguarda, perdono la consapevolezza di appartenere alla storia comune dell’umanità, rimuovono l’idea di una salvezza possibile.

In questo clima culturale l’uomo deve cominciare a ritornare alla consapevolezza che per la sua natura egli ha bisogno della forma dialogica della sua vita. Ha bisogno di comprendersi secondo la propria apertura all’Altro e agli altri.

L’umanità può trovare in Maria di Nazareth un significativo esempio e paradigma di questo uomo nuovo: una donna forte che riconosce la propria identità nel dono che l’Onnipotente le ha fatto – lei è la “piena di grazia” – in vista di una chiamata, a cui corrisponde una missione (e tutti gli uomini ricevono una “chiamata” da Dio perché ciascuno è davanti a lui una persona unica e  irripetibile); è donna forte che nel corso della propria vita dà generosamente il proprio contributo per la salvezza di tutti nell’unico Mediatore, che è il suo Figlio e il suo Salvatore.

In questo senso, si può a ragione ritenere che un nuovo dogma che proclamasse la forma particolare della cooperazione salvifica di Maria sarebbe anche un impulso significativo verso la riscoperta dell’unica vera identità dell’uomo nel mondo odierno.

Perché – allora – tentennare ancora alla richiesta della Madonna?

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[1] Che non si tratti di un culto di latria è chiaro da sempre nel pensiero cristiano; questo non significa che debba essere un culto 'di libero ossequio'; dal momento che Dio ama la mediazione, può ben essere che nei suoi Disegni la devozione al Cuore Immacolato di Maria partecipi della necessaria divina mediazione del Figlio.

[2] Il vescovo di Amsterdam mons. J. Punt il 31 maggio 2002 riconobbe ufficialmente l’origine naturale delle apparizioni e dei messaggi. Leggiamo la dichiarazione: «Come vescovo di Haarlem/Amsterdam mi è stato chiesto di pronunciarmi riguardo l’autenticità delle apparizioni di Maria come Signora di tutti i Popoli ad Amsterdam durante gli anni 1945-1959. … abbiamo permesso la pubblica venerazione nel 1996. … ed io constato che questa devozione ha preso posto nella vita di fede di milioni di fedeli sparsi nel mondo e che viene sostenuta molti vescovi. Mi sono state anche riportate testimonianze di conversione e di riconciliazione, come anche di guarigione e di particolare protezione. Nel pieno riconoscimento della responsabilità della Santa Sede, è in primo luogo compito del vescovo locale pronunciarsi, secondo coscienza, sull’autenticità delle rivelazioni private che stanno avvenendo o che sono avvenute nella propria diocesi. … Considerando questi pareri, testimonianze e sviluppi, e ponderando tutto questo nella preghiera e nella riflessione teologica, tutto ciò mi conduce alla constatazione che nelle apparizioni di Amsterdam c’è un’origine soprannaturale. … E’ mia sincera convinzione che la devozione alla Signora di tutti i Popoli ci può aiutare, nella drammaticità del nostro tempo, a trovare la giusta via, la via verso una nuova e particolare venuta dello Spirito Santo, Lui che solo può sanare le grandi piaghe del nostro tempo».

[3] Il lettore potrebbe obiettare che l’apparizione a Civitavecchia e le presunte apparizioni e messaggi non sono ancora riconosciuti ufficialmente della Chiesa. Su questo attendiamo un suo giudizio. Tuttavia sul fatto che la Madonnina – e qui ci spostiamo su un piano più oggettivo – ha lacrimato sangue e trasudato del profumo – segni di un qualcosa di soprannaturale che stava avvenendo  –  ne era convinto anche il vescovo diocesano, mons. Grillo, e il papa di allora, Giovanni Paolo II.

Il vescovo di Civitavecchia, Mons. Girolamo Grillo, è stato chiamato a giudice e testimone dell’iniziativa di Dio nella sua diocesi, ed è pervenuto a un rinascimento pieno dei fatti che investe la sua autorità e l’autorità della Chiesa. Nell’esito del suo discernimento, mons. Grillo è stato corroborato dal parere positivo delle indagini della Commissione teologica diocesana.

Per quanto riguarda Giovanni Paolo II, il papa stesso ha pregato davanti alla Madonnina, l’ha benedetta, incoronata e baciata. E domenica 8 ottobre 2000 il Santo Padre ha fatto l’Atto di Affidamento di tutta la Chiesa alla Madonna in Piazza San Pietro accogliendo, anche, la richiesta di Consacrazione avanzata con forza più volte dalla Madonna di Civitavecchia.

Vogliamo qui trattare di quello che normalmente chiamiamo “esame di coscienza”, che – in prospettiva ignaziana – è più corretto chiamarlo “esame di consapevolezza”.

 

1
Come intendere rettamente l’esame di consapevolezza

Esame e discernimento

Per molti oggi la vita non è altro che spontaneità. Se la spontaneità è trascurata o soffocata, la vita stessa è morte. Da questo punto di vista, l’esame è la vita vera privata della spontaneità. Per queste persone lo Spirito è nella spontaneità; per cui qualunque cosa militi contro la spontaneità non è spirituale.

Questa idea non tiene conto del fatto – come ben sappiamo – che nella coscienza ed esperienza di ciascuno di noi sono radicate due spontaneità: una buona, secondo Dio, e una cattiva, non secondo Dio. Questi due tipi di impulsi e movimenti capitano a tutti noi. Per una persona desiderosa di amare Dio con tutto il proprio essere, il problema è la capacità di vagliare i vari impulsi spontanei per dare piena approvazione quelli che sono da e per Dio e respingere gli altri che ci allontanano da Lui e dalla sua volontà. In tutto questo l’esame ha un ruolo centrale.

Quando l’esame è collegato al discernimento, diviene esame di consapevolezza più che di coscienza. L’esame di coscienza ha un tono strettamente moralistico. Nell’esame di consapevolezza la prima cosa da guardare non è la moralità di azioni buone o cattive, ma piuttosto come il Signore ha agito nel nostro cuore cercando di illuminare la mente (ricordiamo l’importanza di discernere i pensieri che vengono da Dio) di fronte a certe situazioni quotidiane, e toccando e muovendo in profondità la nostra affettività. Ciò che sta accadendo nella nostra coscienza procede ed è più importante delle nostre azioni, che giuridicamente possono essere catalogate come buone  o cattive. Come stiamo sperimentando il disegno del Padre (Gv 6,44) nella nostra coscienza esistenziale e come la nostra natura corrotta ci sta tentando pian piano e ci sta attirando lontano dal Padre nostro attraverso i sottili raggiri del Nemico: è questo l’oggetto del nostro esame quotidiano, prima di guardare al modo in cui noi corrispondiamo attraverso le azioni. Certo, l’esame non deve dimenticare o trascurare i nostri mancamenti, non solo perché sono moralmente condannabili, bensì in quanto rappresentano dei momenti di infedeltà alla voce del Signore.

L’esame di coscienza così inteso non si ridurrà allora a una pia “pratica” quotidiana (Ignazio la richiede due volte al giorno), ma troverà la sua più solida giustificazione e il suo più valido sbocco in quell’“habitus” di vigilanza: la “pratica” mira a crearlo e a farlo crescere e diventare sempre più attivo.

Sant’Ignazio fece uso costante dell’esame di coscienza, come ne danno testimonianza i suoi più intimi e familiari. Esaminava sempre ogni movimento e inclinazione del suo cuore, il che vuol dire che discerneva quanto ogni cosa fosse congruente con il suo vero io incentrato in Cristo, al fine di progredire.

Nell’annotazione 1 degli Esercizi sant’Ignazio accenna alla differenza tradizionale tra il camminare il correre nella vita spirituale. Il semplice fedele cammina nella via del Signore, il discepolo vuole invece correre, rimuovendo ogni impedimento, superando ogni intralcio.

 

Una forma di preghiera

L’esame di coscienza va quindi considerato una forma di preghiera, non solo un mezzo di disciplina ascetica. E’ l’uno e l’altro insieme. L’esame fa sì che la nostra esperienza di contemplazione quotidiana di Dio dia una spinta reale al nostro vivere di ogni giorno: è un mezzo importante per trovare Dio in ogni cosa, e non solo nel tempo formale della preghiera. Senza questo contatto contemplativo con la rivelazione che il Padre fa della realtà in Cristo, la pratica quotidiana dell’esame diventa vuota, avvizzisce e muore. Senza questa relazione, l’esame – se proprio si continua a farlo – scivola a livello di riflessione su di sé in vista di un autoperfezionismo. L’esame senza una regolare contemplazione, è quindi futile.

 

2
Articolazione dell’esame di coscienza

Sant’Ignazio articola l’esame di coscienza in 5 punti o 5 tappe(Esercizi n. 43), che vanno visti e gradualmente sperimentati nella fede, come dimensioni della coscienza cristiana formata da Dio.

 

RENDIMENTO DI GRAZIE

Il primo movimento dell’esame di coscienza – rendere grazie – è anzitutto un rinnovare la propria fede nella divina Provvidenza, che con la sua azione benefica piena, paterna  e continua fa concorrere tutto a mio vantaggio. Il suo amore è personale, è un amore che mi colma di doni, che previene le mie attese e interviene in mio favore con premura. Questa fede rinnovata nell’attività provvidenziale del Signore basta da sola a lenire ogni inquietudine, a spegnere ogni risentimento. Ogni creatura, ogni particolare della giornata mi è stato di aiuto nella misura in cui non mi sono chiuso all’intenzione divina e non mi sono rinchiuso nell’orizzonte terreno, resistendo al disegno divino.

Se fondata così sulla fede assoluta e luminosa nella Provvidenza, la memoria dei benefici fa parte del riconoscimento evangelico concreto delle verità vedute. Riconoscere i doni del Signore, la sua presenza affet­tuosa nella mia vita, mi radica nel suo amore e mi permette di guardare alla vita con ottimi­smo, fiducia, speranza, voglia di fare.

Questa fase dell’esercizio esprime dunque un ringraziamento motivato e cosciente per tutti i doni ricevuti. Così svilupperò un atteggiamento vigilante, attento a scoprire il bello, il buono, il bene, il positivo presenti nella mia vita.

- E’ opportuno innanzitutto ricordare, volta per volta, uno dei grandi doni della fede che mi aiutano nel mio cammino spirituale: le «benedizioni» di Efesini 1, 3-14 (la creazione, l’ele­zione, la redenzione, la filiazione, la ricapitolazione, lo Spirito); ancora: la fede, i sacramen­ti, la provvidenza, la Chiesa, la vita, il mondo, gli altri, ....

- Quindi passare in rassegna tutti i doni ricevuti in questo giorno: i piccoli-grandi fatti, cioè, nei quali ho letto l’amore di Dio per me (momenti positivi, relazioni fruttuose, avvenimenti gioiosi, semplici, fraterni) e quelli nei quali ho visto nascere e vivere, nei rapporti tra le persone, i doni dello Spirito: «amore, gioia, pace, comprensione, cordialità, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé» (Gal 5, 22-23).

- Infine, direi, è bello ringraziare il Signore anche per i favori “temporali”. Così notando tale benevolenza divina il nostro cuore si riscalda, s’infervora nell’amore di Dio. Perché – ad esempio – ringraziare raramente per la buona salute? Se mai sfogliamo un manuale di patologia medica, presto ci rendiamo conto che la buona salute è come un miracolo permanente, un continuo scampo ai mille pericoli e squilibri che stanno come in agguato. Se i genitori, pur disinteressati, accolgono con speciale gioia il grazie dei figli, quando questi si accorgono delle premure, di ciò che fanno per loro; così e quanto più il Signore, da cui discende ogni sentimento paterno tra gli uomini, non accoglierà il nostro grazie? E finalmente se considero me stesso attualmente creato, donato a me stesso, il ringraziamento finisce in adorazione.

Preghiera. Ti ringrazio, Signore:
- per questo particolare dono della fede...
- per questi piccoli-grandi doni che mi hai fatto oggi...

 

DOMANDA DI LUCE ALLO SPIRITO SANTO

La domanda di luce allo Spirito ha un duplice scopo: per conoscere me stesso, e per riconoscere nella mia giornata le chiamate del Signore.

 
1. Per conoscere me stesso

Già gli antichi saggi ammettevano che la sapienza sta in primo luogo nel conoscere se stessi. All’ingresso del tempio di Delfo era scritto: «Gnôti seauón», che i latini traducevano «nosce teipsum» (conosci te stesso).

Da parte sua, la fede conferma e fa intravedere ancor più profondo il mistero dell’uomo: la dottrina del peccato originale allude a un caos interiore subentrato fin dagli inizi della storia nel nostro cuore; l’affermazione che siamo fatti «ad immagine e somiglianza di Dio» rivela virtualità inaudite. Solo Dio conosce perfettamente se stesso e può sondare fino in fondo anche gli abissi della nostra miseria e della nostra dignità, delle nostre infedeltà e delle nostre potenzialità: «Signore, tu mi scruti e mi conosci» (Sal 139/140). La nostra domanda si può allora tradurre più determinatamente: «Signore, fa’ che io mi conosca come tu mi conosci. Che nella misura del possibile io diventi trasparente ai miei occhi come lo sono ai tuoi! Che possa in verità conoscere il mio cuore, le motivazioni e intenzioni delle mie azioni». Si può rievocare lo sguardo di Gesù a Pietro durante la passione e affidarci a quel raggio di luce che penetrò nel cuore dell’apostolo, non come fredda e impietosa luce ma cole calore che ne scioglieva la durezza (cfr. Lc 22,61-62).

 
2. Per riconoscere nella giornata le chiamate del Signore

La preghiera di discernimento ha come scopo principale appunto quello di aiutarmi a discer­nere la volontà di Dio sulla mia vita, ossia come affrontare le situazioni della vita che mi si presentano, in modo che con le mie scelte, i miei atteggiamenti, i miei comportamenti io possa costruire la mia risposta d’amore all’amore di Dio per me, dare il mio personale con­tributo alla realizzazione del Regno di Dio.

In che modo posso dunque capire quale scelta assumere, quale atteggiamento adottare, come comportarmi in quella determinata situazione? Prestando attenzione ai movimenti interiori che provo come reazione interiore a quella situazione, per cui è necessario discer­nerli per decidere se assecondarli o meno.

Se la scelta, l’atteggiamento, il comportamento che essi mi spingono ad assumere in quella situazione mi porta a conseguenze positive per me e per gli altri e mi lascia nella serenità e nella pace (anche se mi costa), significa che questi sentimenti è Dio ad ispirarmeli per il mio bene. Accolgo dunque questa mozione che mi spinge a scegliere o agire in un certo modo come chiamata di Dio a crescere nella libertà e nell’amore ad immagine di suo figlio Gesù Cristo.

Se, al contrario, prevedo che le scelte ed azioni che mi sento spinto a fare avranno delle conseguenze negative ed inoltre non mi fanno sentire tranquillo, in armonia con me stesso, con gli altri e con Dio, si tratta di una mozione dello spirito del male per farmi allontanare dalla strada del bene autentico e la respingerò come tentazione dei demonio che mi allonta­nerebbe dal mio bene autentico

Ora siccome nell’esame ci consapevolezza ho bisogno di rileggere ciò che già è avvenuto in me, chiedo luce allo Spirito perché sappia cogliere i movimenti più significativi che hanno attraversato il mio cuore, sia come conseguenza degli eventi che mi si sono posti davanti, sia come azione diretta dello Spirito del Signore o del Nemico.

Preghiera. Signore, dammi il tuo Spirito, perché possa vedere me stesso e il mio vissuto di oggi come tu lo vedi, con i tuoi occhi ed il tuo cuore.

 

DOMANDARE CONTO ALLA COSCIENZA

In questo terzo punto dell’esame di solito ci affrettiamo a rivedere in qualche particolare le azioni di quella parte della giornata appena conclusa, per poterle catalogare come buone o cattive. Proprio quello che non dovremmo fare! Lo ribadiamo: la nostra prima preoccupazione è invece quella di riconoscere quello che è accaduto in noi dall’ultimo esame, come il Signore ha operato nel nostro cuore, che cosa ci ha chiesto. E solo in un secondo momento saranno considerate le azioni.

Questa parte dell’esame suppone che siamo attenti alle illuminazioni, ai sentimenti, agli stati d’animo, agli impulsi più piccoli – cioè gli «spiriti» - che devono essere esaminati e vagliati, perché possiamo riconoscere la chiamata di Dio a noi nella profondità del nostro essere.

L’esame di coscienza, dunque, non è introversivo. E’ interessato al servizio divino compiuto dal soggetto e nel soggetto, come si controlla un lavoro portato a termine: sia al servizio del Signore. Paolo usa termini commossi quando parla della coscienza: «buona coscienza» (1Tim 1,5.9; Eb 13,18), «coscienza pura» (1Tim 3,9), coscienza cioè divenuta diafana di Dio, profumata di Dio, interprete dello Spirito Santo. Veramente la coscienza serena nel Signore è la Terra promessa della vita cristiana. L’esame è mezzo «per conservarsi nella pace e nella vera umiltà interna».

La nostra prima attenzione qui è perciò rivolta verso ciò che è successo nel nostro cuore: per prendere coscienza delle motivazioni e intenzioni del mio agire, sentimenti ed emozioni; e inoltre per valutare in che misura ho colto e risposto alle chiamate del Signore.


1. Motivazioni e intenzioni, sentimenti ed emozioni, mente e cuore

1.1.  Motivazioni e intenzioni

Nell'esame di coscienza – come spesso si fa - non è sufficiente osservare le azioni, esterne o interne, ma è indispensabile indagare sulle motivazioni che spingono ad agire e sulle intenzioni che attraggono il nostro fare. Oltre a chiedermi cosa ho fatto devo sapere perché e per chi l’ho fatto. Solo a questa condizione comincia a farsi luce nel nostro psichismo, e possiamo sperare di scoprire — un po’ alla volta — quelle intenzioni nascoste, e meno rette che tanto spesso s’infiltrano indisturbate nelle nostre azioni, anche in quelle buone, fino a diventare motivazione più influente o addirittura principio di decisione e d’azione.

Ricordiamolo: ciò che abbiamo sempre più ignorato diventa lentamente padrone del nostro cuore. È un processo quasi impercettibile di sedimentazione progressiva, che parte dalle prime veniali concessioni e leggerezze, si radica in profondità quanto più genera abitudini sempre meno controllate e sempre più «autorizzate», e diventa motivazione inconscia quando innesca nel nostro modo di vivere un dinamismo automatico, resistente al cambiamento e ogni giorno più esigente nelle sue pretese. Ora, come ben sappiamo, è difficile scrutare e «liberare» l’inconscio, ma è possibile prevenirlo, ossia impedire quel processo di sedimentazione attraverso una quotidiana attenzione a ciò che in effetti ci spinge ad agire. Oltre tutto è proprio lì, nel «cuore», che si situa il peccato (cf. Mc 7,21-23).

L’esame di coscienza è la provvidenziale sosta nella giornata nella quale diventiamo più coscienti e dunque più liberi e meno automi, più responsabili di noi stessi e meno schiavi del passato.

1.2.  Sentimenti ed emozioni

Un altro mal vezzo dell’esame d’incoscienza è quello d’indagare solo sui comportamenti e sui fatti concreti, ignorando tutto quel mondo interiore di sensazioni, sentimenti, emozioni, ecc., che pure fa parte — eccome! — di noi. Non che tutto questo sia peccato, intendiamoci, ma è indubbiamente una pista utilissima per scoprirci e conoscere le reali motivazioni che muovono il nostro agire. Se, ad es., un fratello in comunità mi è cordialmente antipatico non è sufficiente che nell’esame di coscienza io controlli il comportamento tenuto con costui, magari congratulandomi con me stesso o giustificandomi perché «non gli ho mica fatto niente di male!», ma devo avere l’onestà di ammettere questo sentimento, d’interrogarmi sulla sua origine e sul suo significato, d’intuire come al di là di gesti concreti esso abbia condizionato il mio rapporto con lui e la comunità intera. Non c’è dubbio che farei delle scoperte interessanti sul mio egoismo latente, sul mio modo troppo umano di vedere gli altri, sulla mia tendenza pagana ad amare solo chi mi sta bene, ecc...

Lo stesso vale per i sentimenti positivi o troppo positivi (simpatie, attrazioni varie), o per le emozioni e sensazioni in genere che avverto in me. I momenti di gioia e di dolore, in particolare, costituiscono dei passaggi in cui emerge senz’altro qualcosa del mio io più profondo. Dunque sono aree obbligate d’indagine. Verificando che cosa in concreto mi fa godere e soffrire, fino a che punto mi lascio condizionare da queste emozioni e condiziono gli altri col mio umore, che cosa c’è dietro a certe sofferenze... io scopro una realtà del mio io che spesso resta nascosta, ma nondimeno influente. Potrei scoprire, ad es., che se soffro così tanto perché sono stato calunniato o trattato a parer mio ingiustamente, potrò anche avere le mie buone ragioni, ma oltre un certo livello m’accorgerò che la mia angoscia è segno d’eccessivo bisogno della stima altrui, di false aspettative nei confronti degli altri, d’un esagerato sentire di me stesso e della mia dignità. E mi guarderò bene allora dall’offrire, magari con sussiego e vittimismo, certe mie «sofferenze» al Signore!

Un buon esame di coscienza, in tali casi, è più che un termometro: mi misura la «febbre», e mi dice anche da dove viene. E probabilmente mi fa soffrire meno e meglio...

1.3. Mente e cuore

Chissà se i farisei facevano l’esame di coscienza; se lo facevano, certamente non andavano oltre la verifica della loro osservanza legale. Così fa oggi chi s’accontenta di controllare le trasgressioni senza interrogarsi sulle convinzioni. Aderire a un valore significa sperimentarlo sulla propria pelle, farne il principio ispiratore del decidere e dell’agire, conformare ad esso i propri gusti e i propri criteri valutativi, le aspirazioni e i progetti, insomma essere sempre più in sintonia con esso, amarlo ed innamorarsene. E soprattutto su questa sintonia che devo esaminarmi.

Dobbiamo ammettere, invece, che normalmente i nostri esami di coscienza indagano quasi esclusivamente sull’area della volontà, quasi ignorando mente e cuore. Ecco perché sono sempre sbrigativi, spesso ricchi di luoghi comuni e poveri di dolore vero, e solo raramente fanno nascere in noi un’autentica coscienza di peccato.

Sarà importante, in concreto, cogliere quei dettagli nei quali si nasconde e viene fuori la nostra mentalità: progetti, modi concreti d’attuarli, incidenza effettiva (e affettiva) dei valori nelle scelte, disponibilità a pagare di persona per il valore o ad essergli fedele nel segreto della propria coscienza; come pure sarà opportuno verificare il contenuto di immaginazioni, ricordi, sogni a occhi aperti, distrazioni ricorrenti, desideri intimi inconfessati, ecc.

Tutto questo è materiale utilissimo per scoprire ciò che abbiamo nella mente e nel cuore, e può diventare pericoloso non prestarvi attenzione, perché proprio lì dentro — anche lì dentro — è rintracciabile la mia identità. Nulla, nella nostra vita psichica e spirituale, succede a caso, e tutto, di quel che viviamo, lascia in noi un qualche segno. La stessa nostra coscienza, nella sua capacità di giudicare il bene e il male, ha la sua storia o preistoria; essa è il prodotto d’un laborioso e misterioso processo che ha luogo dentro di noi, a volte a nostra insaputa, e di cui avvertiamo chiaramente più il risultato o le conseguenze (il «sentire» una cosa come buona o cattiva) che non le singole fasi evolutive.

L’esame di coscienza è un vero e proprio confronto quotidiano, «in coscienza», con la Parola e i suoi criteri; più in particolare, è un porre costante attenzione al lento processo di formazione della coscienza stessa, perché non si compia indisturbato nel «sottosuolo» oscuro della nostra psiche, ma avvenga alla luce liberante della Parola di Dio.

In tal senso possiamo senz’altro dire che l’esame di coscienza «forma» la nostra coscienza. La forma al punto da renderla capace di percepire profondamente il peccato, e di soffrirlo come rifiuto della sua Parola e del suo progetto di amore. C’è un nesso evidente, tra queste tre realtà: esame di coscienza, formazione della coscienza, coscienza di peccato; e tale legame carica ancor più d’importanza quel momento di preghiera che ci mette di fronte a Dio nella verità di noi stessi.

 

2. Come ho risposto alle chiamate del Signore? Come ho reagito alle tentazioni del Nemico?

a) Guardando al mio cuore mi chiedo:

- con quali modi sottili, intimi (ispirazioni, illuminazioni, sentimenti suscitati dallo Spirito Santo) il Signore ha trattato con me nelle ore passate?  Forse non l’ho riconosciuto quando mi chiamava in quel momento appena trascorso.

- cosa ho avvertito nel cuore di fronte alle situazioni in cui mi sono trovato: occasioni di amore, di servizio, che si sono presentate davanti a me (l’incontro inaspettato con una persona, una richiesta che mi è giunta, una situazione in cui potevo intervenire positivamente, qualcuno che voleva essere ascoltato), situazioni nelle quali esercitare la pazienza, ecc?

b) Solo dopo aver preso coscienza di ciò che è avvenuto nel mio cuore potrò valutare come sono state le mie risposte alla sua chiamata: dove abbiamo detto il nostro sì o il nostro no? Quando la nostra “carne” o lo spirito del Nemico si sono insinuati e ci hanno ingannati? Qui va fatta una precisazione quanto mai necessaria a proposito dei movimenti disordinati: ne siamo responsabili e ce ne accusiamo solo nella misura in cui sono accettati volontariamente. E’ vero che non è sempre facile riconoscere nella prassi dove comincia l’eventuale consenso; ma non è affatto necessario affliggersi e cadere negli scrupoli. E’ salutare piuttosto – dopo aver fatto del nostro meglio per non acconsentire – rimettersi al Signore che ci conosce più di noi stessi e soprattutto è misericordioso. In ogni caso, l’avvertenza anche ai movimenti del tutto involontari è di grande utilità sia per conoscerci meglio, sia per nutrire una più sincera e profonda umiltà: l’involontarietà, infatti, non toglie che essi in qualche maniera provengano dal fondo del nostro essere, e certo non dal nostro essere migliore.

Può darsi che a qualcuna di queste chiamate o tentazioni abbia già dato risposta nel corso della giornata, magari dando retta allo spirito del male.

In tal caso è questo il momento di accorgermi dell’inganno in cui sono caduto,

* guardando alle conseguenze delle mie scelte / atteggiamenti/comportamenti (senz’altro negative per me stesso o per gli altri o sul rapporto con gli altri e con Dio),
* osservando quel che provo ripensando a ciò che ho fatto (disagio, dispiacere)
* cercando infine di capire come ciò sia potuto accadere (es. attaccamenti disordinati: non voglio assolutamente perdere o cerco a tutti i costi di ottenere qualcosa. Che cosa?).

In dialogo col Signore cercherò di discernere quale chiamata Egli mi rivolge per uscire da questa situazione di peccato e risolvere i problemi che essa ha creato. Appoggiandomi al suo perdono, che mi dà forza, fiducia, ottimismo, fede, speranza, mi rialzerò e riprenderò il cammino, pronto a compiere la sua volontà.

Preghiera

1. Oggi il Signore nella preghiera o durante la giornata, mi ha dato la seguente illuminazione o ispirazione…

2. A casa, al lavoro, nello studio,  tempo libero, durante la preghiera, facendo quella certa atti­vità, ecc.,
a)  * mi sono trovato in questa situazione
     * mi è capitato questo fatto
     * ho incontrato questa persona
     * ho sentito questi discorsi/notizie

b)  ed ho provato un sentimento di...
* gioia, soddisfazione, gratitudine, meraviglia, sorpresa, ammirazione, simpatia, pietà, entusiasmo, speranza, gusto spirituale, commozione, ottimismo, pace, serenità;
* noia, disagio, contrarietà, fastidio, antipatia, inquietudine, disappunto, turbamento, imbarazzo, smarrimento, sgomento, aridità, insoddisfazione, sfiducia, pessimismo, tristez­za, scoraggiamento, amarezza, dolore, sofferenza, disperazione, paura, rimorso, dispiacere.

c) che mi porta ad assumere questa scelta, questo atteggiamento, questo compor­tamento...

d)  con queste conseguenze...

⇒ poiché queste conseguenze sono positive per me e per gli altri, ho accolto questa mozione come chiamata di Dio?
⇒ poiché queste conseguenze sono negative per me e per gli altri, ho respinto questa mozione come tentazione del demonio che mi allontana dal mio bene autentico?

 

CONTRIZIONE E DOLORE DEL CUORE

La contrizione del cuore sgorgherà spontanea dal contrasto avvertito tra la Bontà divina e la propria ingratitudine: il cuore contrito è sintomo di fede viva. In ogni caso dovemmo essere interessati in primo luogo alla sincerità del nostro dispiacere più che all’intensità: non perché questa non abbia valore (tutt’altro!), ma solo perché è mille volte meglio un pentimento modesto ma sincero che un pentimento pompato artificialmente a forza di volontà.

Da qui sgorgherà il canto di un peccatore costantemente consapevole di essere preda delle sue tendenze peccaminose, e tuttavia di essere convertito nella novità, garantita dalla vittoria di Gesù Cristo.

Preghiera

* Signore, in queste mie scelte / atteggiamenti / comportamenti... ho seguito  queste motivazioni e intenzioni non rette, non mature, non consone con il Vangelo; mi sono lasciato trascinare da questi sentimenti, che rivelano un cuore ancora bisognoso di purificazione; mi sono accorto che sto agendo e faccio scelte ancora legate ad una mentalità poco evangelica…

* Signore, in queste mie scelte / atteggiamenti / comportamenti... mi sono lasciato sviare dallo spirito del male. Me ne rendo conto da queste conseguenze... , e dal dispiacere che provo al ripensarci.

* Ho ceduto alla tentazione perché... (per superficialità, per mancanza di onestà, di coraggio, per debolezza…)

* Per uscire da questa situazione di peccato e risolvere i problemi che essa ha creato tu mi chiami a...

* Ti ringrazio perché Tu segui con amore il mio cammino, pronto a rialzarmi tutte le volte che cado. Il tuo perdono mi dà il gusto di riprendere con gioia e fiducia a camminare sulla strada che Tu mi indichi.

 

RISOLUZIONE PIENA DI SPERANZA PER IL FUTURO

Quest’elemento finale dell’esame quotidiano emerge molto naturalmente dai punti precedenti e ci porta a guardare il prossimo futuro perché sia integrato nella nostra vita.

Può forse sembrare che difficilmente il proposito per il futuro possa essere autentico, dato che l’esperienza insegna quanto poco si possa sperare realisticamente in un sensibile miglioramento. La risposta a questa obiezione deve certo fare appello alla grazia di Dio e non semplicemente alla nostra buona volontà. Tuttavia l’obiezione resta, perché la grazia – ne possiamo essere certi – non ci è mancata neanche in passato, eppure ci ritroviamo ancora con molti difetti. Forse una risposta meno inadeguata possiamo ricavarla ricorrendo a due serie di riflessioni:

- la sincerità del proposito può coesistere con la previsione delle nostre cadute. L’analogia con chi sta apprendendo l’arte di sciare può riuscire di qualche utilità: è certissimo che l’apprendista sciatore è sincero nel proporsi di non cadere e tuttavia è altrettanto certo che altre cadute ci saranno;

- l’utilità spirituale del proposito, lungi dal consistere nel solo obiettivo progresso (cioè di avanzamento) sta anche nel non arrendersi per pigrizia o scoraggiamento: il che ci permette di perseverare nonostante tutto nel cammino e di non cadere vittime di un atteggiamento rinunciatario, che facilmente dalla stasi passa al regresso;

- la perseveranza serena e umile nel proposito ci permette un’accettazione serena della nostra peccaminosità, che sia pur in misura diversa è destinata a rimanere comune retaggio anche in quei santi che hanno raggiunto le più alte mete della vita cristiana;

- è buona cosa non moltiplicare i propositi; anzi è meglio farne uno solo (e perseverarvi a lungo), perché da una parte non ci fa disperdere le energie su troppi fronti, e dall’altra il valido combattimento su un fronte – data la fondamentale unità della coscienza – allerta indirettamente la nostra attenzione anche sugli altri. Inoltre il proposito deve essere bene indovinato. Proprio il fatto che ricadiamo in quella mancanza è indice che il proposito ha colto nel segno: un proposito che subito o in breve tempo tolga di mezzo il difetto molto probabilmente non ha centrato un punto davvero significativo del nostro cammino, ma solo qualcosa di accidentale e di non radicato nella nostra persona;

- soprattutto questi ultimi due punti dell’esame devono essere permeati di molta supplica. Non solo petizione di grazia, ma anche espressioni di fiducia e di abbandono nelle mani del Signore. Una grande speranza dovrebbe essere il clima del nostro cuore, una speranza non fondata sui nostri meriti o sulle nostre capacità per l’avvenire, ma piuttosto fondata molto più pienamente su Dio nostro Padre, di cui condividiamo la vittoria gloriosa in Gesù Cristo attraverso la vita dello Spirito Santo in noi. Più ci fidiamo di Dio e gli permettiamo di entrare nella nostra vita, più sperimentiamo una vera speranza soprannaturale in Dio, un’esperienza che passa attraverso le nostre deboli capacità e va abbastanza al di là di esse. San Paolo nella lettera ai Filippesi esprime bene lo spirito di questa conclusione dell’esame di coscienza: «lascio il passato dietro di me, e con le mani protese verso ciò che mi sta davanti corro verso la meta» (Fil 3,7-14).

Preghiera. Confidando nel Tuo aiuto, ti offro, Signore, il mio impegno a rispondere alle chiamate che mi hai rivolto e ti chiedo di sostenere il mio proposito con la tua grazia.

La dinamica del pettegolezzo

 A un'analisi attenta delle modalità comuni­cative si constata quanto sia diffuso il fenomeno del pettegolezzo, al punto che esso contribuisce a crea­re un vero e proprio stile comunicativo, non solo personale, ma anche di gruppo. Non di rado si è tal­mente coinvolti in questo meccanismo da non per­cepire più il limite tra la constatazione oggettiva dei fatti, che può anche prevedere la critica costruttiva, e il parlare malevolo verso qualcuno. Ciò si verifi­ca lì dove non si condivide più la propria esperien­za di vita, ma piuttosto quella degli altri, soprattut­to degli assenti, dei quali vengono sottolineati aspetti curiosi, difetti, fatti inerenti alla sfera priva­ta e affettiva, con l'intento di riderci sopra; ma nei casi più gravi, anche con lo scopo di denigrare e di­struggere la fama della persona interessata.

Viene da chiedersi quale e quanto sia il gra­do di incidenza della società nel portare avanti la tradizione del pettegolezzo, cioè se prima ci sia la società pettegola, che genera nuovi pettegoli o vi­ceversa. Certamente possiamo stabilire una stret­ta connessione: il pettegolo ha sempre dietro le spalle una tradizione pettegola che spesso viene assunta, anche inconsapevolmente, nel proprio modo di comunicare. Nello stesso tempo il pet­tegolo contribuisce a portarla avanti, a meno che — come vedremo — non prenda la decisione di cam­biare rotta, di rompere con gli schemi abituali, per acquisire uno stile comunicativo nuovo, più ri­spettoso della vita privata dell'altro.

All'interno di questa « catena informativa » che permette al pettegolezzo di acquisire sempre maggior forza e di continuare la sua corsa, si gio­cano ruoli diversificati: « Si va dall'iniziatore, figu­ra difficile da definire e rintracciare, all'interprete, una specie di opinion leader che certifica, se non l'autenticità, almeno la rilevanza della notizia. Ci sono poi gli interessati, ovvero coloro che traggo­no un vantaggio dal pettegolezzo, quindi i divul­gatori, gli entusiasti che lo rilanciano con il loro convinto atteggiamento, fino ad arrivare ai resi­stenti, ovvero a coloro che si impegnano per di­mostrarne l'inconsistenza »[1].

Ma come nasce un pettegolezzo? Quali so­no le dinamiche che lo sostengono e lo alimenta­no fino a farlo diventare un dato acquisito nella comunità?

La risposta non è semplice, in quanto alla ba­se ci possono essere situazioni diverse, che a loro volta cambiano a seconda degli attori che entrano in scena. Inoltre, l'evoluzione di un pettegolezzo può avere tempi e modalità diverse in relazione agli ambienti in cui nasce o alle modalità adoperate per alimentarlo e mantenerlo in circolazione.

Per capire l'evoluzione di un pettegolezzo o di una calunnia possiamo riferirci alla celebre aria del Barbiere di Siviglia, di Gioacchino Rossini. Si tratta dell'episodio dove don Basilio suggerisce a don Bartolo di screditare e calunniare il conte. Nel testo scritto da Cesare Sterbini viene descritto, con ricchezza di immagini, l'evoluzione della parola ma­levola, in questo caso di una calunnia, dal suo esor­dio frivolo e apparentemente innocuo, fino al suo epilogo drammatico: «La calunnia è un venticello, un'auretta assai gentile. Che insensibile, sottile, leg­germente, dolcemente, incomincia a sussurrar. Pia­no piano, terra terra, va scorrendo, va ronzando. Nelle orecchie della gente si introduce destramen­te, e le teste ed i cervelli, fa stordire e fa gonfiar. Dal­la bocca fuori uscendo, lo schiamazzo va crescen­do. Prende forza a poco a poco, scorre già di loco in loco. Sembra il tuono, la tempesta che nel sen della foresta, va fischiando, brontolando e ti fa d'or­ror gelar. Alla fin trabocca e scoppia. Si propaga, si raddoppia. E produce un'esplosione, come un col­po di cannone, un tremuoto, un temporale, un tu­multo generale che fa l'aria rimbombar. E il meschi­no calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello, per gran sorte va a crepar »[2].

La lettura attenta del libretto ci fa notare il progressivo prendere forza della parola che, pas­sando di bocca in bocca, di luogo in luogo, si pro­paga e si raddoppia, fino a non poter più essere controllata. Diventa chiaro come tale evoluzione avvenga in quanto trova un terreno favorevole e accondiscendente. Il pettegolezzo infatti può con­tinuare a vivere e a diffondersi solo se trova allea­ti, collaboratori disposti a tenere alto il suo inte­resse, contribuendo alla sua diffusione.

Continuando la lettura di tale fenomeno e delle sue dinamiche, possiamo affermare che mol­ti pettegolezzi nascono da un fatto realmente ac­caduto, una situazione di vita di una persona o di una famiglia di cui si è venuti a conoscenza, un discorso o una semplice parola ascoltata, uno sguardo, un atteggiamento, un comportamento e così via. A volte si è stati anche protagonisti di ta­li avvenimenti o di determinati discorsi, oppure si accoglie quanto riferito da altri.

In alcuni casi la constatazione oggettiva del­le situazioni o la loro narrazione avviene in modo lineare e pacifico, senza sfociare nel pettegolezzo. Taluni infatti, per una correttezza morale e un grande senso della giustizia e della verità, riesco­no a condividere con gli altri le vicende delle per­sone, mediante una narrazione rispettosa del suo significato, mantenendosi al di sopra dei giudizi o delle critiche e quindi evitando di innescare mec­canismi comunicativi degeneranti. Ma non sem­pre le cose stanno così, in quanto le dinamiche co­municative spesso portano a esiti completamente diversi. Sappiamo infatti quanta fatica costa man­tenere alto il livello della comunicazione, conser­vando il giusto riserbo sulle questioni che riguar­dano la vita privata degli altri. Inoltre non bisogna dimenticare che in tale meccanismo entrano in gioco altri elementi: le fragilità umane, le abitu­dini contratte nel tempo, il proprio carattere, gli impulsi, le emozioni non controllate, le ferite o semplicemente una buona dose di cattiveria. Di conseguenza non sempre una situazione, un fat­to, una parola sono condivise in modo rispettoso e coerente, cioè come semplice scambio di infor­mazioni. Anzi queste spesso diventano oggetto di una personale interpretazione dove, per alcuni motivi che analizzeremo, il significato originale viene parzialmente o totalmente stravolto, ampli­ficato, cambiato, rispetto alle situazioni iniziali vissute o ascoltate dalla narrazione di qualcuno. Tale stravolgimento interessa anche l'ambito della comunicazione non verbale, per cui uno sguar­do può non essere colto nel suo vero significato, un atteggiamento o un comportamento possono essere fraintesi e così via.

Dobbiamo precisare che non sempre c'è l'in­tenzione di costruire una diceria con lo scopo di fare del male a qualcuno o di metterlo in cattiva luce. In alcuni casi, invece, questa ri-significazio­ne ha una chiara premeditazione malevola, volta a creare interesse, curiosità, novità, attorno alla vi­ta di qualcuno che non è presente, per screditare le sue scelte, il suo modo di vivere e quindi atten­tare alla sua reputazione. In questo caso parliamo di pettegolezzo maligno, fino ad arrivare alle for­me più degenerative della calunnia e della diffa­mazione.

Pertanto, se i pettegolezzi sono antichi quan­to l'uomo e se nel corso dei secoli hanno sempre trovato nuove strategie per diffondersi, non pos­siamo non sottolineare come tale fenomeno in questi ultimi decenni sia stato particolarmente am­plificato dall'avvento dei social network. In tali piattaforme digitali una notizia, un fatto, una cu­riosità vengono messi in circolazione in maniera esplosiva e in tempo reale, senza neppure imma­ginare le conseguenze che questo può provocare. Il passaparola digitale è talmente libero e senza controllo che facilmente può generare malintesi. Un fatto può essere cambiato, amplificato, stor­piato o anche totalmente stravolto, a discapito so­prattutto delle persone interessate che si ritrovano al centro di quello che possiamo chiamare « cortile virtuale », dove si viene presi di mira, of­fesi, calunniati fino all'estremo. Sono tante le sto­rie drammatiche che potremmo raccontare, fino ai recenti fatti di cronaca che hanno visto prota­gonisti adolescenti e giovani morti suicidi a cau­sa di questo terrorismo pettegolo e bullista[3].

Le cause del pettegolezzo

Addentrandoci nei meandri di questo feno­meno così pervasivo e tentacolare, ci rendiamo con­to delle molteplici cause che portano al nascere del pettegolezzo. Alcune di queste sono di carattere so­ciale, dovute all'ambiente in cui si vive, che spesso favorisce il nascere di tale modalità comunicativa deviata, come anche la continuità di quella che ab­biamo chiamato « tradizione pettegola ». All'inter­no di questa tradizione si possono rintracciare altre cause legate a fattori più personali, a predisposizio­ni caratteriali, che favoriscono il nascere di tale con­dotta. Pertanto il pettegolezzo costituisce il riflesso tangibile di un vissuto ferito e segnato da moltepli­ci contraddizioni. Un breve excursus può aiutare a sottolineare alcuni aspetti, che entrano in gioco nel­la dinamica del pettegolezzo, favorendone il suo na­scere, il diffondersi e il perdurare.

L’abitudine

L'usanza di parlare male di qualcuno rientra a pieno titolo tra le cause del pettegolezzo e si colloca tra quei fattori sociali e ambientali di cui ab­biamo parlato. L'abitudine, in quanto ci fa per­cepire come normale tale modo di esprimersi, narcotizza la coscienza morale, per cui non ci si rende conto del male che si sta compiendo e non si percepisce più il confine tra il bene e il male. Ne sono prova alcune espressioni ormai entrate nel lin­guaggio comune, che manifestano chiaramente que­sta anestetizzazione della coscienza: « Che male c'è? Tutti lo fanno ». « È più forte di me; neanche me ne rendo conto », oppure l'espressione proverbiale vol­ta a giustificare il pettegolezzo: « Parlare bene o ma­le di qualcuno, l'importante è parlarne ». L'abitudi­ne contiene un potenziale negativo che lentamente porta alla perdita della speranza, della gioia e dell'en­tusiasmo, lasciando spazio alla tristezza.

In ambito religioso l'abitudine è un grande male, perché produce lentamente un appiattimen­to della vita spirituale, che di conseguenza si tra­sforma in una serie di pratiche rituali, fredde, do­ve prevale la meccanicità delle parole e dei gesti, piuttosto che il sentimento di amore verso Dio. È la logica farisaica di chi vive la fede riducendola all'osservanza fredda e precisa delle regole.

Si può scadere nel facile pettegolezzo per abi­tudine, contribuendo — senza accorgersene — ad alimentare il chiacchiericcio su una determinata situazione o persona, non pensando alle conseguen­ze che ciò può causare. L'abitudine di parlare male degli altri crea un vero e proprio circolo vizioso, una malattia contagiosa difficilmente guaribile se non si prende coscienza delle sue dinamiche per­verse e distruttive. Ecco a tal proposito il pensiero di papa Francesco, in una meditazione tenuta a ca­sa Santa Marta: « Noi siamo abituati alle chiacchie­re, ai pettegolezzi. Ma quante volte le nostre comu­nità, anche la nostra famiglia, sono un inferno dove si gestisce questa criminalità di uccidere il fra­tello e la sorella con la lingua »[4]. Si sottolinea come i pettegolezzi siano diventati un'abitudine, un mo­do di esprimersi che rientra nella normalità dei di­scorsi, un vero e proprio stile di vita, la cui gravità non viene più percepita. Non stupisce che tali mo­dalità comunicative si riscontrino in quei contesti relazionali dove, al contrario, ci si dovrebbe custo­dire a vicenda. Mi riferisco alle famiglie, alle comu­nità cristiane, ai contesti lavorativi e ad altre forme di aggregazioni, dove spesso si verificano situazio­ni gravi, dovute alle gelosie, alle invidie e quant'al­tro, che diventano occasioni di critica e pettegolez­zo e le cui conseguenze ledono la dignità dell'altro, fino al punto da poter parlare di una forma sottile di « criminalità ».

 L’invidia

Essa costituisce indubbiamente una delle cau­se scatenanti del pettegolezzo. Si tratta di un sentimento che nasce con l'uomo stesso e che manifesta una forte personalità narcisistica, totalmente rivol­ta verso il proprio io. Solitamente l'invidioso è uno che non sa vivere insieme agli altri, perché non sa apprezzare il bello degli altri e non accetta che qual­cuno possa essere migliore o più capace. L'invidio­so, insomma, si tortura e soffre terribilmente se si accorge che l'altro ha più di quanto egli ha o è.

Nell'Esortazione apostolica Amoris laetitia, a questo proposito viene sottolineato come «l'in­vidia è una tristezza per il bene altrui che dimo­stra che non ci interessa la felicità degli altri, poi­ché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l'amore ci fa uscire da noi stes­si, l'invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il ve­ro amore apprezza i successi degli altri, non li sen­te come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell'invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per esse­re felice, lasciando che gli altri trovino la loro »[5].

L'invidioso quindi nega la fraternità e, prima o poi, mette in atto tutte le strategie possibili per eliminare l'altro, considerato come un rivale. È la storia di Caino che uccide Abele perché non sop­porta un fratello migliore di lui, i cui doni e sacrifi­ci sono più graditi al Signore (cfr. Gen 4,4-5). È la vicenda di Giuseppe che viene venduto dai fratelli perché invidiosi della preferenza che il padre ha nei suoi confronti (cfr. Gen 37,1-36). È la storia di tan­ti uomini e donne, che segna drammaticamente le relazioni fraterne, che spezza i vincoli familiari, che incrina i rapporti di amicizia, che distrugge la co­munione di un gruppo o di una comunità. Essa co­stituisce un grave peccato contro la carità fraterna, ma anche contro Dio, tanto che san Francesco nel­le sue Ammonizioni paragona l'invidia al peccato di bestemmia: « Perciò, chiunque invidia il suo fratel­lo riguardo al bene che il Signore dice e fa in lui, commette peccato di bestemmia, poiché invidia lo stesso Altissimo, il quale dice e fa ogni bene »[6].

L'invidia è capace di tutto, offusca la men­te, è piena di rabbia, di odio e rende capaci di met­tere in atto parole e azioni irragionevoli. E quan­do non può raggiungere i suoi obiettivi, ecco che si vendica sfoderando la sua arma più tagliente: il pettegolezzo in tutte le sue forme, purché l'altro in qualche modo venga colpito e messo in cattiva luce, offendendo la sua dignità con falsità, insi­nuazioni malevole, calunnie e diffamazioni.

 La ricerca del consenso

Un'altra delle cause che portano al pettego­lezzo è la ricerca smodata del consenso. Si tratta di un atteggiamento che riflette la mancata accet­tazione di se stessi e una insicurezza di fondo, che porta a ricercare continuamente l'approvazione al­trui, per sentirsi confermati nelle proprie scelte e appagati nei propri desideri. Chi cerca il consen­so degli altri è una persona fondamentalmente egocentrica, che ha bisogno di essere sempre al centro dell'attenzione, che non sopporta il con­fronto e la sana competitività. Spesso tale consenso viene ricercato anche attraverso modalità comu­nicative non opportune, dove le parole vengono usate per screditare l'altro, pur di apparire miglio­ri. Per cui il parlare male di qualcuno, attraverso le varie forme di pettegolezzo, permette di met­tersi in risalto, arrogandosi il diritto di dire una parola sull'altro, di proferire sentenze, di giudica­re, di criticare, fino ad arrivare alle forme estreme della calunnia e della diffamazione. Si tratta in fon­do di una forma di volontà di potere sull'altro, che si pretende di porre sotto il proprio controllo, se­guendo i movimenti della sua vita privata. L'obiet­tivo che si vuole raggiungere è quello di trovare nuove informazioni e, nel breve tempo possibile, perché si possa avere l'esclusiva di nuovi pettego­lezzi e quindi ottenere ulteriori consensi. Su que­sto tema trovo interessante il saggio di Stefano Guarinelli, dove vengono elencati i cosiddetti « in­gredienti psicodinamici » del pettegolezzo, e si pre­cisa come esso costituisca « una forma di potere. Piaccia o non piaccia, sembri o non sembri ecces­sivo ricorrere al termine stesso di potere, le cose stanno così. Ove potere, evidentemente, non cor­risponde necessariamente all'ambizione di giun­gere a ruoli di governo »[7].

Il rancore

Una delle cause più comuni che portano a parlare male del fratello è il rancore. È un sentimen­to molto diffuso, che nasce da una ferita dovuta a un torto subito, da una delusione, dal mancato chiarimento in seguito a una situazione vissuta male o fraintesa, da una malattia o da un lutto non accettati... Si tratta di un modo malato di vivere la relazione che, per vari motivi, si è incrinata e che si fatica a ricomporre. Esso si declina in mo­di diversificati e si manifesta come rancore verso se stessi, gli altri e Dio.

Quando il rancore viene covato lungamente nel cuore, intacca la qualità stessa della vita relazio­nale, in quanto procura un annebbiamento del giu­dizio critico. Le valutazioni sugli altri non vengo­no fatte nella verità e nella libertà, perché si è divenuti prigionieri del proprio punto di vista « ran­coroso »: tutto viene filtrato in modo restrittivo e negativo attraverso di esso. Il rancore porta a con­centrarsi in modo ossessivo su un determinato av­venimento, su un atteggiamento, su una parola non compresa, su progetti falliti, su aspettative non sod­disfatte, a tal punto da portare a prendere le distanze da tutti coloro che, in qualche modo, sono considerati causa del proprio malessere. Una cosa è certa: il rancore porta alla perdita della pace interiore e non permette di affrontare serenamente la propria vita, in quanto questo sentimento corrode la propria esistenza determinando, in alcuni casi, il sorgere di patologie fisiche e psichiche.

Tra le varie manifestazioni del rancore, ac­canto all'odio, alla rabbia, all'indifferenza, trovia­mo proprio il pettegolezzo, che possiamo definire come espressione verbale del rancore. Quando non si riesce a sanare una relazione, attraverso la ma­nifestazione dei propri sentimenti, la chiarificazio­ne, la correzione fraterna, pervenendo a un perdo­no sincero, è molto probabile che si attivi, anche inconsapevolmente, il pettegolezzo, la critica, la mormorazione. Si tratta di un modo sottile di ven­dicarsi del fratello, un inganno che fa più male a se stessi che a coloro ai quali è rivolta la critica. Infatti non di rado accade che i destinatari del rancore possono ignorare di essere oggetto di pet­tegolezzo, soprattutto quando le colpe loro addos­sate risultano non reali o presunte. Afferma papa Francesco: « Tante volte i nostri sbagli, o lo sguar­do critico delle persone che amiamo, ci hanno fat­to perdere l'affetto verso noi stessi. Questo ci in­duce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall'affetto, a riempirci di paure nelle relazioni in­terpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo »[8]. Il perdono pertan­to ha la meglio sul rancore, allontana la tendenza al facile pettegolezzo e nello stesso tempo permette di riacquistare quella serenità e quella libertà necessa­rie per costruire relazioni autentiche[9].

 La tentazione

Essa rientra a pieno titolo nella dinamica del pettegolezzo e ne è una sua causa. Dal punto di vista spirituale, possiamo parlare di una forma sot­tile di tentazione della lingua o peccato di parola che, attraverso il pettegolezzo, inietta il veleno del­la distruzione e della morte. Essa infatti pregiudi­ca la dignità di una persona, la serenità e l'unità di una famiglia, di una comunità; genera litigi, chiusure egoistiche, sospetti, fraintendimenti e malesseri di ogni sorta.

Non a caso la tentazione delle origini, alla quale hanno ceduto i nostri progenitori, è stata at­tuata proprio attraverso una parola ingannatrice, tagliente e suadente, che ha insinuato il dubbio sulla veridicità della parola di Dio. Non a caso il Diavolo viene chiamato « menzognero e padre della menzogna » (Gv 8,44), divisore, accusatore. Nel pettegolezzo questi tro­va un alleato formidabile per portare avanti le sue perverse macchinazioni. Credo sia importante non tralasciare questa lettura spirituale del pettegolez­zo come tentazione diabolica, per non rischiare di ridurlo a un fenomeno puramente sociale o psi­cologico e quindi ritenerlo solo conseguenza di fragilità psicologiche o inconsistenze caratteriali. Su questo punto non sono mancati interventi au­torevoli, come quello pronunciato da Paolo VI, circa l'azione ordinaria del diavolo che, in modo astuto, lavora indisturbato nel fertile terreno del­le fragilità e delle debolezze dell'uomo: «È lui il perfido e astuto incantatore che in noi sa insinuar­si per via dei sensi, della fantasia, della concupi­scenza, della logica utopistica o di disordinati con­tatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni, altrettanto nocive quanto all'apparenza conformi alle nostre strutture fisi­che o psichiche o alle nostre istintive profonde aspirazioni »[10]. Questo pensiero è stato ripreso da papa Francesco, nell'Esortazione sulla chiamata alla santità, dove si ribadisce che l'esistenza del diavolo è qualcosa di più di un mito, di una rap­presentazione simbolica o di un potere astratto; si tratta di un essere personale che ci tormenta e di fronte al quale non possiamo abbassare la guardia. Per questo il Papa invita a essere vigilanti e a re­sistere alle innumerevoli sollecitazioni del Mali­gno, impugnando le armi della preghiera, della pa­rola di Dio, dei sacramenti e della carità verso i fratelli. A tal riguardo annota: « Lui non ha biso­gno di possederci. Ci avvelena con l'odio, con la tristezza, con l'invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distrug­gere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché “come leone ruggente va in gi­ro cercando chi divorare” ( 1Pt 5,8) »[11].

 Le conseguenze del pettegolezzo

Possiamo con certezza affermare che le con­seguenze prodotte dal pettegolezzo vanno sempre molto al di là delle intenzioni di chi lo mette in circolazione, e ciò vale anche per chi pensa che qualche parola di troppo, in fondo, non faccia ma­le a nessuno. L'esperienza invece conferma che i pettegolezzi, anche quando sembrano pronunciati in modo innocuo e inoffensivo, producono sem­pre situazioni negative e incontrollabili, diventan­do come i mozziconi di sigarette ancora accesi gettati d'estate in un bosco. Questo perché il pet­tegolezzo rientra tra quelle parole o espressioni che in ambito linguistico vengono denominate performative, cioè parole che non hanno solo una funzione informativa o descrittiva, ma che, nel momento in cui vengono pronunciate, toccano profondamente la persona e la realtà modifican­dole nel bene o nel male. Non a caso comunemen­te si dice « fare pettegolezzi », e non « dire pette­golezzi », con un chiaro rimando al fatto che si sta svolgendo un'azione ben precisa. Quindi compren­diamo sempre più la pericolosità del pettegolezzo, mai innocuo, proprio perché realizza quello che dice, provoca conseguenze negative sul soggetto al quale è diretto, modificando anche le relazioni. In questo senso, sottolinea Francesco di Sales nella Filotea, « il maldicente, con un sol col­po vibrato dalla lingua, compie tre delitti: uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui che ascolta e toglie la vita civile a colui del quale sparla »[12].

Il pettegolezzo distrugge la buona fama di una persona, della quale viene compromessa la reputazione, provocando la nascita di so­spetti, di pregiudizi, fino al punto da intac­care la qualità delle relazioni che, in qual­che modo, subiscono delle trasformazioni. Si tratta di una dinamica non rara, che si ve­rifica soprattutto negli ambienti dove si vi­ve un forte clima di competitività. In questi casi la maldicenza diventa la chiara espres­sione dell'invidia che si nutre verso qualcu­no considerato più bravo, più brillante e quindi ritenuto un rivale che in qualche modo si deve mettere in ombra.Il pettegolezzo inquina l'ambiente e intossica la mente e il cuore perché si tratta comunque di un fenomeno tentacolare che progressi­vamente si allarga e va a contaminare i pen­sieri degli altri, stuzzicando la curiosità di sapere qualcosa di nuovo sulla vita privata di qualcuno. Spesso, all'interno di alcuni contesti aggregativi, si vive di pettegolezzi, non si riesce a innalzare il livello qualitati­vo della comunicazione, portandolo su ar­gomenti più edificanti. Così, a lungo andare questo clima degradato finisce per coinvol­gere tutti, anche chi vorrebbe restare fuori da determinate dinamiche.Il pettegolezzo blocca la spontaneità nelle relazioni e abbassa la qualità della vita. Chi percepisce di essere oggetto di maldicenza comincia ad attivare una serie di meccani­smi di difesa che lentamente portano a non avere più fiducia nell'altro, a non parlare più spontaneamente, a chiudersi in se stes­so per paura di essere criticato o frainteso. In alcuni casi, soprattutto per i soggetti più fragili, queste situazioni possono anche se­gnare l'inizio di varie forme di malesseri fi­no a sfociare in uno stato di depressione an­che Il pettegolezzo è un'arma a doppio taglio, in quanto le sue conseguenze ricadono non solo sulla vittima designata, ma anche su chi ne è responsabile o ritenuto tale. Infat­ti, chi è abituato al facile pettegolezzo o ad­dirittura viene eletto, per questa particola­re predisposizione, a essere il leader del gruppo, prima o poi paga il prezzo del suo comportamento, rimanendo sempre più so­lo. Perché a lungo andare il pettegolo comincia a diventare scomodo, inopportuno, pericoloso e quindi da tenere a debita di­stanza, in quanto lo si avverte come un ele­mento destabilizzante per il gruppo.

- Il pettegolezzo rallenta il progresso nella vita spirituale, personale e comunitaria perché of­fusca la dignità dell'essere figli di Dio, crea­ti a sua immagine e somiglianza. Se con il battesimo siamo diventati il tempio santo di Dio, tutte le nostre membra, compresa la lin­gua, devono essere messe a servizio di Dio e devono dare testimonianza del suo amore. Per cui tutte le volte che la bocca non si apre per rendere lode al Signore, ma per giudica­re e calunniare il fratello, noi stiamo traden­do la nostra vocazione e stiamo distruggen­do l'unità della comunità. Ogni pettegolezzo è un attentato alla comunità. Il parlare male dell'altro vanifica il cammino di fede in quan­to contravviene al comandamento dell'amo­re verso il prossimo, verso il quale dobbia­mo mostrare sentimenti di carità, di stima, di affabilità, fino al perdono incondizionato dei nemici e dei persecutori (cfr. Rm 12,14­21). Non ci può essere vita spirituale, né tan­to meno crescita spirituale, se non si prende coscienza del male fatto e non ci si lascia pu­rificare dalla misericordia di Dio. Infatti il sincero pentimento non solo cancella i pec­cati e ristabilisce l'uomo in uno stato di gra­zia, ma spinge ad assumersi le proprie responsabilità riparando il male fatto. E l'impegno diventa quello di riparare le pro­prie colpe chiedendo scusa alla persona ca­lunniata, ristabilendo, per quanto possibile, la reputazione della stessa[13].

 I rimedi al pettegolezzo

La prudenza non è mai abbastanza

Nel percorso di conoscenza di se stessi do­vremmo spesso esaminare la qualità e la modalità delle parole che abitualmente usiamo nelle nostre conversazioni. Considerare, ad esempio, quante volte il nostro modo di parlare è stato convenien­te o no, se ha contribuito a innalzare la qualità del­la conversazione, se ha insinuato dubbi sulla vita di qualcuno, denigrato, offeso. Si tratta di verifi­care il valore e il significato che diamo alla paro­la nel processo comunicativo. È importante chie­dersi se, prima di parlare, facciamo un prudente discernimento di quello che stiamo per dire o se piuttosto ci lasciamo guidare dall'istinto, dalla rab­bia, dalla leggerezza, dalle emozioni del momen­to, e finiamo per lasciarci facilmente contagiare dall'ambiente pettegolo.

In questa esperienza di discernimento un ruolo particolare lo riveste la virtù della prudenza, che è stata sempre considerata la virtù che regola e misura tutte le altre — non a caso gli antichi la chiamavano auriga virtutum (cocchiere delle vir­tù). Essa permette di distinguere, tra le cose che vorremmo dire e fare, quelle che portano al bene e quelle che portano al male, ciò che è secondo lo Spirito di Dio è quello che è contrario. Chi è pru­dente è anche sapiente, capace cioè di valutare at­tentamente prima di procedere, secondo quella lungimiranza che permette di prevedere le conse­guenze che possono scaturire da un determinato uso della parola. Per questo il Libro della Sapien­za dirà: « Ho conosciuto tutte le cose nascoste e quelle manifeste, perché mi ha istruito la sapien­za, artefice di tutte le cose » (Sap 7,21). Nel suo li­bro sul combattimento spirituale, a proposito del modo di regolare la lingua, Lorenzo Scupoli così si esprime: « Le cose che ti cadono in cuore per dir­le, siano da te considerate prima che passino alla lingua, perché di molte ti accorgerai che sarebbe bene che da te non fossero mandate fuori »[14]. La prudenza quindi educa a usare saggiamente le pa­role, a dare loro il giusto significato; insegna a sa­perle misurare, a saperle porgere, a saper attende­re il momento opportuno per esprimerle o per tacerle, secondo la massima sapienziale: « C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare » (Qo 3,7). Pertanto, riscoprire la virtù della prudenza signi­fica dare un orientamento preciso alla propria vi­ta, ai propri pensieri e alle proprie azioni, riappro­priandosi di quella capacità di riflessione e di discernimento personale che permette di agire se­condo il bene proprio e quello degli altri e soprat­tutto di distinguerlo dal male. Un confine che il pettegolezzo tende sempre più ad annullare e a confondere, avallando un modo di fare e di dire che sembra sempre più « normale », fino a diven­tare un costume di vita che certamente non rende ragione della verità della persona e delle relazioni.

L'esperienza conferma come ci lasciamo fa­cilmente coinvolgere nelle dicerie e nei pettegolez­zi e come spesso parliamo a ruota libera: tutto di­venta lecito e la menzogna finisce lentamente per sostituirsi alla verità. Tante conversazioni sono ca­ratterizzate da questo modo malato di comunica­re, si va oltre la constatazione dei fatti, si amplifi­ca qualche situazione, si aggiunge qualcosa di falso, si usa una parola allusiva, la cui falsa inno­cenza diventa capace di stuzzicare la curiosità dei presenti. In questi contesti le parole si degradano facilmente, fino a sconfinare nel pettegolezzo.

Cosa fare allora quando ci troviamo in tali si­tuazioni e ci accorgiamo della facilità con la quale si rischia di rimanere intrappolati in queste dinami­che perverse? Se già la prudenza permette di misu­rare e verificare le parole da dire, la stessa virtù può aiutarci a capire quando è il caso di intervenire per depotenziare il pettegolezzo e quando è convenien­te stare in silenzio, ma nel modo giusto. Due armi strategiche che possono aiutare a non rimanere in­trappolati nel fascino bacato del pettegolezzo.

 Depotenziare il pettegolezzo

È uno dei modi per contribuire a innalzare il livello delle conversazioni, scegliendo di far per­dere forza al pettegolezzo, evitando che il proprio intervento possa in qualche modo contribuire ad alimentare le dicerie, con domande curiose o ag­giungendo ulteriori parole ed espressioni allusive che lasciano percepire qualcos'altro, creando un ulteriore pettegolezzo. Di solito, infatti, si verifica un effetto domino: una parola perversa ne richia­ma un'altra e così via. Depotenziare il pettegolez­zo significa dare un nuovo corso alla comunica­zione, attraverso un nuovo significato dato alle parole. Significa immettere nella conversazione parole ed espressioni cariche di bene, che possa­no frenare la corsa della parola malata e bloccare il contagio. In concreto cercare di portare il discor­so su un livello diverso: cambiando argomento, concentrando l'attenzione su altre questioni, pos­sibilmente più edificanti. Anche la parola di Dio ci fornisce alcuni elementi concreti per contrasta­re il pettegolezzo. Così leggiamo nel Libro del Siracide: « Non contendere con un uomo chiac­chierone e non aggiungere legna al suo fuoco » (Sir 8,3). Mentre il Libro dei Proverbi sottolinea: « Per mancanza di legna il fuoco si spegne; se non c'è il calunniatore, il litigio si calma » (Pr 26,20). Sono testi molto significativi, che usano la stessa immagine per sottolineare la possibilità di dimi­nuire la forza distruttiva del pettegolezzo attraver­so l'uso sobrio e moderato delle parole, per non incrementare il fuoco devastante procurato dalla lingua. Pertanto lì dove qualcuno sarà disposto a immettere questo principio di bene, attraverso l'esercizio sapiente della parola, allora il pettego­lezzo comincerà a indietreggiare, a perdere forza, perché non troverà un alleato disposto a rilanciar­lo, permettendogli di continuare la sua corsa.

 Il giusto silenzio

Un'altra importante arma per depotenziare il pettegolezzo è il silenzio, ma bisogna essere ca­paci di comprendere quale silenzio adottare; non tutti i silenzi infatti sono uguali, in quanto ognu­no esprime uno stato d'animo ben preciso. Ci so­no silenzi carichi di gioia, di stupore, di attesa; al­tri di tristezza, di dolore; altri ancora di rabbia, di rancore, di arroganza. C'è il silenzio dell'esistenza credente come contemplazione e risposta di fede al mistero di Dio. Ma c'è anche il silenzio nel suo risvolto più deteriore, che si chiama mutismo, che non ha niente a che vedere con il silenzio vero: questo infatti non è mai muto, ma è portatore di una certa profondità. Dirà a proposito Romano Guardini: « Tacere non significa affatto essere mu­to. Il vero tacere è precisamente il correlativo del vero parlare: si appartengono l'un l'altro come l'in­spirazione e l'espirazione (...) il discorso che non implica relazione diventa un cicaleccio »[15].

Il silenzio da adottare per arginare il pettego­lezzo dovrà essere carico di una certa significativi­tà e non essere mai un silenzio sterile o muto, che potrebbe dire altro o essere frainteso. Non basta per­ciò stare in silenzio, ascoltando semplicemente i pettegolezzi degli altri, e pensare di non macchiar­si di alcuna colpa, per il fatto che non stiamo par­tecipando attivamente alla discussione. Questo sa­rebbe un inganno, una scelta che fa diventare complici, in quanto tale silenzio può significare as­senso di quanto si sta semplicemente ascoltando. Ci sono inoltre silenzi che dicono più delle parole, soprattutto quando sono accompagnati da gesti, da smorfie, da sorrisi velati, che lasciano intendere che si sta approvando quello che si sta ascoltando. In alcuni casi, quando il silenzio viene alternato da mezze parole o da espressioni quali: « Meglio che non parlo... », « Se la mia bocca potesse parlare... », « Ah, se sapeste.. ! », ciò fa nascere il sospetto di es­sere depositari di chissà quali verità o segreti ine­renti alla vita privata di una persona. Atteggiamen­to che andrà ad accendere negli altri la curiosità di sapere di più, fino a costringere a svelare situazioni e fatti privati che probabilmente erano stati con­fidati nel segreto o di cui si è venuti a conoscenza, e che da questo momento diventano di dominio pubblico. Sottolinea il Siracide 19,10-12: « Hai udito una parola? Muoia con te! Sta' sicuro, non ti farà scoppiare. Per una parola va in doglie lo stolto, come la partoriente per un bambino. Una freccia conficcata nella coscia: tale una parola in seno allo stolto ». Un chiaro invito a mortificare la propria lin­gua, a saper custodire le parole che abbiamo ascol­tato o che ci sono state confidate in segreto. Il si­lenzio, in alcuni casi, è meglio della parola, in quanto diventa rivelatore di una certa maturità uma­na e di quella profondità spirituale carica di amore e di compassione. Scrive sapientemente un autore contemporaneo: «A Babele ci si salva tacendo... Con il silenzio si attenua la forza devastatrice del­lo scandalo, si spuntano gli artigli della detrazione, si spennano le ali della calunnia, si smorza la vio­lenza dell'odio, mentre aumenta la forza difensiva nei confronti degli urti delle avversità »[16].

 La via della correzione

Quando si ha certezza di chi sia l'autore di pettegolezzi e dicerie o nel momento in cui si percepisce che i discorsi che si fanno in compagnia di amici, nei gruppi e in altri contesti aggregativi, stan­no degenerando e sconfinando nel pettegolezzo, allora bisogna provare a correggere. Se la situazio­ne lo consente, tale correzione potrà essere prati­cata anche sul momento, trovando naturalmente le parole e le modalità più adeguate. Comunque, è sempre preferibile la via della riservatezza e quindi la correzione fatta in modo personale, a tu per tu con il fratello o la sorella (cfr. Mt 18,15-18).

La pratica della correzione fraterna, condot­ta nella riservatezza e nella discrezione, evita di sbandierare le fragilità del fratello e di farle diven­tare oggetto di pettegolezzo e di critica. La corre­zione pertanto, se da un lato diventa un grande atto di carità, che recupera il fratello alla verità, nello stesso tempo diventa un deterrente al pette­golezzo, in quanto va a bloccare quel meccanismo che contribuisce alla diffusione del pettegolezzo stesso. Tale passaggio contiene anche una indica­zione molto importante, che dovremmo attuare nella correzione, e cioè la capacità di sapersi por­gere all'altro, misurando le parole, esprimendole nei tempi e nei modi più opportuni. Una modali­tà che suppone una grande capacità di discerni­mento e di pazienza per evitare di « mortificare inutilmente il peccatore ». Molto spesso, invece, il nostro modo di correggere diventa un tribuna­le, dove l'altro viene semplicemente accusato, ap­punto “spellato”, senza nessuna misericordia, co­sì da peggiorare la situazione[17].

 Stretegie virtuose

Vo­gliamo ora sottolineare alcuni atteggiamenti virtuosi da assumere nel proprio cammino per evitare di esse­re travolti dal male prodotto dai pettegolezzi. Si trat­ta di un cammino di fortificazione, per non cedere alla tristezza, allo scoraggiamento o a sentimenti di rancore o di vendetta, che potrebbero portare alla facile tentazione di combattere il male con il male. La battaglia invece deve essere condotta nel campo del bene,  con la poten­za dell'amore e della misericordia.

Essere pazienti

In questa lotta contro il pettegolezzo la pri­ma arma da sfoderare è la pazienza. Ce ne vuole veramente tanta! Un vecchio proverbio dice che « la pazienza è la virtù dei forti », eppure anche i più forti in alcuni momenti possono perderla, so­prattutto quando le situazioni diventano talmente insopportabili da portare all'esasperazione. Avere pazienza significa diventare capaci di rimandare la propria reazione alle avversità, sopportando il do­lore con animo sereno, controllando la propria emo­tività e perseverando nelle azioni. Ma avere pazien­za significa soprattutto educarsi ad avere uno sguardo nuovo, misericordioso verso chi ce la fa perdere. Questo in fondo è il significato dell'espres­sione « sopportare pazientemente le persone mole­ste », che tra tutte le opere di misericordia è indub­biamente la più dimenticata, oltre che fraintesa. Dimenticata, per la sua intrinseca difficoltà, in quan­to ci viene chiesto un puro atto di carità, un anda­re oltre i consueti modi di rapportarci con coloro che molestano; fraintesa, perché l'avverbio « pa­zientemente » non è ben interpretato, o forse, vo­lutamente accomodato, secondo il nostro modo li­mitato di concepire il tempo. Essere pazienti infatti significa dare tempo al fratello di ravveder­si, sopportandolo non una sola volta, ma continua­mente, senza rabbia e risentimento. Scrive papa Francesco, commentando l'inno all'amore di san Paolo: « Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l'altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com'è. Non im­porta se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L'amore comporta sempre un senso di profonda compassione »[18]. Questo non significa tollerare o giustificare il peccatore, ma andare oltre il suo er­rore e la sua fragilità così come fa la misericordia di Dio che continua ad amarci e ad aspettarci no­nostante le nostre continue infedeltà. Avere pazien­za nei confronti di chi, come nel nostro caso, ci mo­lesta con le parole, significa acquisire qualcosa della magnanimità di Dio, che ci permette di assu­mere quel « fattore cristiano » di cui parla Bonho­effer, intendendo ciò che è straordinario rispetto all'ordinarietà del nostro modo di fare: « È ciò che supera i farisei in una giustizia maggiore, il di più, ciò che va oltre... Dove non c'è questo fattore sin­golare, straordinario, non c'è nulla di cristiano »[19].

Sdrammatizzare

Questa « santa pazienza », da accogliere co­me dono che viene dall'alto, richiede anche un certo lavoro personale, perché non diventi un at­teggiamento passivo, bensì un'esperienza feconda di crescita umana e spirituale. Parliamo di quella pazienza attiva all'interno della quale si cerca di capire come stanno i fatti, di verificare la fonda­tezza degli stessi e di agire di conseguenza con la giusta capacità di attesa, imparando a sdramma­tizzare. E sì! Imparare a sdrammatizzare, per ridi­mensionare il problema e per evitare di far diven­tare quel determinato pettegolezzo il centro dei propri pensieri e della propria esistenza. In effet­ti, il tornare continuamente a rimuginare su quan­to si è sentito dire sul proprio conto, comporta un notevole spreco di energie, soprattutto psicologi­che, che viceversa potrebbero essere impiegate in altri ambiti e in modo molto più fecondo. In que­sto senso la pazienza attiva deve portare a lavora­re sui propri pensieri e sui propri sentimenti, per dirigerli verso nuovi orizzonti, soprattutto verso pensieri positivi di bene e di pace.

In questo percorso di pacificazione e di sem­plificazione non può mancare il momento della ve­rità, che deve essere condotto con intelligenza e franchezza, sia sul versante esterno sia su quello interno. Il momento esterno corrisponde alla lettu­ra della situazione che si è presentata e nella qua­le si è coinvolti. Essa serve a verificare la natura del pettegolezzo, per capire se è fondato su un fat­to realmente accaduto o è frutto di qualche frain­tendimento o semplice e fantasiosa invenzione. Il momento interno corrisponde a quello che potrem­mo chiamare presa di coscienza dei propri limiti, il riconoscere effettivamente di avere mancato in qualcosa, che c'è una colpa reale, sulla quale qual­cuno ha poi costruito una diceria. È il momento della purificazione del cuore, dell'umiliazione, del­la guarigione dai sensi di onnipotenza, dal sentir­si migliori degli altri. Questo duplice aspetto del­la verifica viene sottolineato nel libro del Qoelet, che invita a sdrammatizzare le dicerie, per evitare di sentirne qualcuna sul proprio conto, per poi guardarsi dentro e constatare la propria miseria: « Non fare attenzione a tutte le dicerie che si fan­no, così non sentirai che il tuo servo ha detto ma­le di te; infatti il tuo cuore sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri » (Qo 7,21-22).

Essere vittime di pettegolezzi paradossal­mente può costituire un'esperienza vantaggiosa e motivo di crescita. Essa può aiutare a mettere or­dine nella propria vita, individuando ciò che bi­sogna togliere o modificare, imparando con umil­tà a guardare più a se stessi che agli altri. Questa capacità introspettiva manifesta una notevole ma­turità umana e spirituale, che non ha paura di met­tersi di fronte alle proprie colpe per denunciarle in maniera risoluta e continuare il cammino con un cuore libero e purificato da ogni forma di ipo­crisia. Inoltre, se queste esperienze dolorose ven­gono vissute in un atteggiamento di fede, posso­no diventare occasioni preziose per radicarsi sempre più in Dio. Illustrando i benefici spiritua­li che possiamo ricavare dalle colpe altrui così scri­ve padre Jacques Philippe: « A volte è grazie a una delusione patita in una relazione con qualcuno, da cui molto (forse troppo) ci aspettavamo, che impariamo a tuffarci nella preghiera, nella relazio­ne con Dio e ad aspettarci da lui quella pienezza, quella pace e sicurezza che soltanto il suo amore infinito può assicurarci. Le delusioni che abbiamo nelle relazioni con gli altri ci fanno passare da un amore idolatrico a un amore realistico, libero e dunque finalmente felice»[20].

Bene-dire

In questo percorso di guarigione, volto- a contenere le conseguenze del pettegolezzo, non bisogna mettere in atto solo la strategia della dife­sa, ma anche quella dell'attacco che non è diretto a sconfiggere il nemico, ma a custodirlo, ad amar­lo, ad affidarlo al Signore perché sia lui a toccare il suo cuore. È la strategia dell'amore che si carat­terizza come preghiera di intercessione, non solo per coloro che soffrono e che vogliamo raccoman­dare al Signore, ma, nel nostro caso, per coloro che ci perseguitano e dicono male di noi, usando imprudentemente la lingua. Nel Discorso della montagna, Gesù raccomanda (Mt 5,43-48) questa forma di preghiera: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguita­no, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buo­ni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se da­te il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Non sarà stato un discorso di facile compren­sione, anzi avrà fortemente urtato la sensibilità di coloro che si ritenevano giusti in quanto fedeli al­le prescrizioni della Legge. È un invito a fare diver­samente rispetto alla mentalità tradizionale nel con­cepire il rapporto con Dio e con i fratelli. Siamo nella logica evangelica dell'amore verso il nemico, dove la Legge trova il suo pieno compimento. Si tratta della più grande provocazione di Gesù da­vanti alla quale avanziamo i nostri « ma », « però » « fino a tanto? ». Ci viene chiesto un atto straordi­nario che non rientra nell'ordine naturale dei no­stri pensieri e dei nostri comportamenti, dove ten­diamo in genere ad amare coloro che rientrano nel nostro orizzonte affettivo e che in qualche modo ci ricambiano. Amare i nemici rimane uno scan­dalo, e potrebbe persino dare adito a una sorta di complicità con il male da loro commesso. Eppure questo atteggiamento diventa il tratto distintivo dei discepoli del Signore che ci insegna a condan­nare in modo irresoluto il peccato, ma a mostrare compassione e misericordia per il peccatore. Per cui quel « Voi, dunque... », con cui Gesù conclu­de il discorso, apre orizzonti completamente di­versi, ci invita a un cambiamento di mentalità, ad assumere nuovi criteri di valutazione del fratello; ci invita in definitiva a entrare nella vita stessa di Dio, per cogliere qualche battito del suo cuore e per imparare da lui il vero amore.

Bonhoeffer, commentando questo brano di Matteo, sottolinea un aspetto particolare di questo amore incondizionato per i nemici, un amore che deve osare tanto, fino a diventare benedizione: « Se ci colpisce la maledizione del nemico perché egli non può sopportare la nostra presenza, noi dobbiamo alzare le mani per benedire: voi, nostri nemici, voi i benedetti del Signore, la vostra male­dizione non ci ferisce; possa la vostra povertà es­sere colmata con la ricchezza di Dio, con la bene­dizione di colui contro il quale voi vi ostinate inutilmente. Vogliamo senz'altro portare la vostra maledizione, purché voi riceviate la benedizione »[21].

Questo commento ci aiuta a comprendere il significato della benedizione, che non è semplice­mente un atto umano, ma scaturisce dall'incontro con Dio, il solo che può benedire le nostre esisten­ze, rendendoci capaci di diventare benedizione per gli altri. Ricordiamo che il primo atto che Dio com­pie sull'uomo creato a sua immagine è proprio la benedizione. Così infatti si legge nel libro della Ge­nesi: « E Dio creò l'uomo a sua immagine; a imma­gine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: siate fecondi e molti­plicatevi » (Gen 1,27-28). All'origine quindi c'è una parola di bene, una trasmissione di vita, un invito a fecondare, diventando benedizione per gli altri. L'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, porta in sé questo principio di bene, questa capa­cità di bene-dire, e in tal modo viene associato al­la stessa opera creatrice di Dio. L'idea biblica di be­nedizione comprende tutto il positivo dell'esistere e del vivere e quindi ogni volta che si benedice si crea, si trasmette vita, si comunica l'amore stesso di Dio: « La parola di benedizione contiene in se stessa la sua forza di attuazione, è di per sé effica­ce e irrevocabile. In questa prospettiva la benedi­zione non è tanto un bene-dire, quanto un bene-dare: trasmettere, comunicare una sorta di “energia di bene”, destinata a esplicarsi in molti modi nel­l'esistenza di chi riceve la benedizione »[22].

Allora la benedizione non è più una sempli­ce preghiera, un gesto, un rito, o come qualcuno la considera, un atto scaramantico per allontana­re chissà quali negatività; essa diventa una espe­rienza di comunicazione vitale, dove la stessa pa­rola viene chiamata in causa per il suo alto valore comunicativo. In questa prospettiva il parlare be­ne del fratello costituisce di per sé una straordi­naria benedizione, in quanto mediante essa si co­munica la bellezza di un Dio Padre che ama i suoi figli e per questo non può che dire e fare cose bel­le per loro. Per cui, quando si parla bene di una persona, si contribuisce a creare vita, a mantene­re viva una relazione, a custodirla, immettendo in essa un principio di bene, di pace e di armonia. Una parola buona e bella risana il cuore, infonde speranza, valorizza l'altro, invitandolo a dare il meglio di sé. Dire-bene promuove la vita, rinsal­da l'amicizia, contribuisce a creare stili di vita li­beri, sani e rispettosi della diversità dell'altro.

Viceversa il dire male e quindi il pettegola­re in tutte le sue declinazioni, esprime la realtà op­posta e introduce tra le persone un principio di morte, dove le relazioni vengono incrinate dal so­spetto, dal giudizio, fino a essere totalmente di­strutte. Questo perché, in riferimento al principio performativo, precedentemente sottolineato, la pa­rola non è mai la semplice pronuncia di un suo­no, ma porta in sé ciò che vuole esprimere e quin­di realizza ciò che dice. Una parola maldicente non sarà mai innocua, ma andrà a incidere negativa­mente sulla persona interessata e sull'ambiente, pregiudicando, in qualche modo, l'armonia delle relazioni.

Bene-dire, come capacità di dire e fare cose belle e buone per l'altro, costituisce una straordi­naria sfida per la società odierna, ma soprattutto per la Chiesa chiamata a manifestare l'amore di Dio attraverso segni concreti che la rendano sempre più credibile. Benedirsi reciprocamente diventa il cri­terio per valutare la maturità di una comunità cri­stiana che ha incarnato il messaggio evangelico della carità. Dice san Paolo: « La carità non sia ipo­crita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nel­lo stimarvi a vicenda » (Rm 12,9-10).

Ecco allora la parola d'ordine: « Gareggiare nello stimarsi a vicenda ». Questa è la strada da percorrere per chi vuole guarire dal male del pet­tegolezzo. Questo è l'antidoto alla maldicenza: ricominciare ad amare, a stimarsi, a considerare l'altro come un fratello che Dio ha posto sul cam­mino di ciascuno per ricordarci la sua stessa be­nedizione. La fraternità quindi diventa il luogo dove vivere e riconoscere la benedizione di Dio e nello stesso tempo essa costruisce la fraternità in tutta la sua bellezza, mediante quell'olio prezioso e quella rugiada, di cui parla il Salmo 133, che scendono dall'alto e portano la vita per sempre. Una parola vera e bella può creare fraternità, può cu­rare le ferite dell'anima, può impreziosire la vita, può ridare speranza. È questo il tempo di ridare dignità alla parola, facendole ritrovare la sua ge­nuina vocazione, quella di essere ponte e non osta­colo, portatrice di verità e non di menzogna, stru­mento di pace e non di guerra.

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[1] D.E. Viganò, Il brusio del pettegolezzo, Forme del discredito nella società e nella Chiesa, EDB, Bologna 2016, pp. 47- 48.

[2] G. Rossini, Il barbiere di Siviglia, Melodramma buffo in due at­ti di C. Sterbini, a cura di E. Rescigno, Ricordi, Milano 1988, pp. 64-65.

[3] Al riguardo cfr. Pontificio consiglio delle comunicazioni so­ciali, Etica in internet, Paoline, Milano 2002.

[4] Francesco, Omelie del mattino, vol. Il, Libreria Editrice Vati­cana, Città del Vaticano 2014, p. 8.

[5] Francesco, Amoris laetitia, Esortazione apostolica postsino­dale sull'amore nella famiglia, Paoline, Milano 2016, n. 95.

[6] Fonti Francescane, Ammonizioni, VIII, a cura di E. Caroli, Editrici Francescane, Padova 2004, p. 112.

[7] S. Guarinelli, La gente mormora. Psicologia del pettegolezzo, Paoline, Milano 2015, p. 138.

[8] Francesco, Amoris laetitia, n.107.

[9] Sul tema cfr. L. Pasqua, Dal rancore al perdono, Edizioni Rin­novamento nello Spirito Santo, Roma 2015.

[10] Paolo VI, Liberaci dal Male, in Insegnamenti di Paolo VI, X, Li­breria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1972, p. 1171.

[11] Francesco, Gaudete et exsultate, Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Paoline, Milano 2018, n.161.

[12] Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, Pao­line, Milano 1984, p. 221

[13] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1459, 2487.

[14] Lorenzo Scupoli, Combattimento spirituale, cap. XXIV, San Pao­lo, Milano 1992, p. 121.

[15] R. Guardini, Lettere sull'autoformazione, p. 132.

[16] M.G. Masciarelli, Abitare il silenzio, Dehoniane, Roma 1998, p. 61.

[17] Cfr. L. Pasqua, Fatta per amore. La correzione fraterna, Paoli­ne, Milano 2016, pp. 35-40.

[18] Francesco, Amoris Laetitia, n. 92.

[19] D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 1975, p. 132.

[20] J. Philippe, La libertà interiore. La forza della fede, della spe­ranza e dell'amore, San Paolo, Milano 2004, p. 71.

[21] D. Bonhoeffer, Sequela, p. 128.

[22] D. Mosso, Benedire, Elledici,Torino 1987, p. 7.

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