Articoli filtrati per data: Giovedì, 17 Settembre 2020

La prospettiva paolina dell’unione con Dio

Secondo l’insegnamento di Paolo, lo scopo della nostra elezione in Cristo, ancora prima della creazione del mondo, è di volerci «santi e immacolati al suo cospetto»; cioè siamo stati eletti per «essere alla continua presenza agli occhi di Dio» (Ef 1,4). L’elezione ordinata alla santità quindi ha il significato di «essere accolti da Dio nella nostra essenza eternamente eletta in Cristo» e di essere fatti capaci di stare davanti a Dio, dialogare e vivere in comunione con lui. L’essere santi si concretizza nella condizione esistenziale di «figli adottivi di Dio» (Ef 1,5) in Cristo.

Di conseguenza il fine e la ragione dell’impegno dell’uomo è di portare a compimento lo sviluppo dell’unione con Dio in Cristo. Al riguardo, la Gaudium et Spes fa la seguente affermazione: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste infatti se non perché creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore» (GS 19).

La dichiarazione della Costituzione del Vaticano II risulta in piena consonanza con il dato biblico, soprattutto quello incontrato nella Lettera ai Colossesi 1, 15-17 e agli Efesini 1, 3-4, il quale esprime chiaramente, che la vocazione dell’uomo all’unione con Dio non solo è per mezzo di Cristo, ma è partecipazione della stessa relazione naturale che circola tra Dio Padre e Gesù Cristo suo Figlio naturale. Cioè Dio Padre ci ha voluti in Cristo e per mezzo di Cristo per farci partecipi di tutto ciò che è Cristo, di ciò che è di Cristo e, di conseguenza, anche della relazione filiale esistente tra Cristo Figlio naturale e il Padre. Ciò significa che, per grazia, la nostra unione con Dio Padre è partecipazione della stessa unione di amore che corre tra il Padre e il Figlio e tra questi e il Padre, siamo introdotti cioè e coinvolti nella circolarità dello stesso amore che nello Spirito Santo circola dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre.

Ai riferimenti delle due lettere della prigionia si possono aggiungere altri testi neotestamentari che esprimono, altrettanto chiaramente, che l’unione di Dio con noi è della stessa portata di quella tra il Padre e il Figlio: «Come tu Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17, 21). L’effetto di tale partecipazione è che «le cose del Figlio non sono solo del Padre, e quelle del Padre non sono solo del Figlio», ma la ragione di essere del Figlio è perché siano anche di noi figli nel Figlio. Una testimonianza a conferma di ciò viene dall’ambito dell’esperienza spirituale; san Giovanni della Croce non esita ad affermare: «le anime possiedono per partecipazione gli stessi beni che Cristo Figlio di Dio possiede per natura»[1].

Dio mediante la grazia dell’elezione dell’uomo in Cristo per l’unione con sé si abbassa a tal punto che si mette a servizio dell’uomo, si fa suo partner, e gli conferisce una sua propria personalità per stargli davanti, che lo fa “uguale” a sé, e che non gli fa sentire cioè l’inferiorità. Dio, chiamando l’uomo all’unione con sé in Cristo, non solo gli dona di “stargli davanti”, di essere suo diretto interlocutore, ma gli fa un dono di cui niente è più grande, poiché la peculiarità e la straordinarietà di tale dono consiste, come abbiamo detto, nel donargli se stesso, quale suo proprio senso e pienezza.

Per questo non esiste creatura che sia coronata di dignità più eccelsa di quella dell’uomo.

La grazia della chiamata all’unione, costituisce quindi la meta definitiva dell’uomo, ed è per natura anche causa di tutto ciò che è l’uomo e di tutto ciò che Dio ha compiuto e compie nella storia della salvezza a suo favore. Tale grazia cioè è la ragione degli elementi costitutivi ed essenziali della sua struttura, di tutti i gesti salvifici che Dio ha compiuto e continua a compiere lungo tutto l’arco della storia, e di tutti i beni e doni che gli ha fatto e gli fa in Cristo per lo Spirito Santo: dalla creazione all’incarnazione del suo Figlio diletto, alla redenzione nel sangue del Figlio, all’invio dello Spirito Santo, alla istituzione della comunità del Signore risorto, al dono della parola, dei sacramenti, della preghiera e infine al dono della partecipazione allo stato glorioso del Figlio suo Gesù Cristo.

 

Caratteristiche dell’unione

L’unione è possibile solo tra persone. La persona, in quanto essere in relazione, può avere la piena comprensione di sé solo in riferimento all’altro diverso da sé, per cui si può dire che nessuno è fatto per bastare a se stesso, ma ciascuno riesce ad attuare realmente la propria identità solo nella comunione con l’altro. Una comunione alla pari.

Inoltre l’unione tra due persone esige necessariamente la reciproca appartenenza e mutua donazione. La donazione reciproca, però, è vera, ed è bene per chi dona e per chi riceve, soltanto se le due persone si appartengono.

Il contrario di questo consiste nel depersonalizzare l’unione e nell’oggettivizzare l’altro, consiste cioè nell’atteggiamento o intenzione di possedere o di farsi possedere dall’altro. Non si può parlare quindi di vera unione dove al posto della parità dei soggetti si verifica la disuguaglianza tra loro, o la riduzione di uno dei due a oggetto dell’altro: là dove è rispettata la diversità dell’altro e la si promuove, lì c’è la vera unione e la vera crescita dei diversi che si donano e si appartengono. La parità tra i due soggetti e la promozione della diversità sono talmente essenziali nella vita di unione che escludono ogni deroga. L’esclusione di deroga vale anche per l’unione tra Dio e l’uomo, nonostante l’abissale disparità tra i due. Il problema della disparità lo ha risolto Dio, amore onnipotente. Dio, cioè, per salvaguardare la legge del carattere personale dell’unione e l’esigenza dell’uguaglianza, ha voluto creare l’uomo a sua immagine, cioè come copia di se stesso, come se stesso per partecipazione. La legge intrinseca dell’unione esige reciprocità da ambo le parti, per cui se da una parte la volizione dell’uomo come immagine lo mette sul piano di Dio, dall’altra c’è anche l’esigenza che Dio scenda e si metta sulla linea dell’uomo. Tutto questo si è fatto reale e visibile nell’evento dell’incarnazione del Figlio suo Gesù Cristo. In lui Dio si rivela essere il Dio con gli uomini e in mezzo agli uomini. Però, parlando della struttura e della dinamica dell’unione tra l’uomo e Dio bisogna precisare che essa più che un’unione con e per, è un’unione in, che è la forma più alta dell’unione, poiché si tratta della partecipazione dell’unione che circola tra le tre divine Persone. Perciò, perché l’appartenenza reciproca tra Dio e l’uomo sia perfetta e piena bisogna che consista essere uno nell’altro: Dio è nell’uomo e l’uomo in Dio.

 

L’amore dinamismo dell’unione

La dinamica dell’unione tra Dio e l’uomo ha una fisionomia differente da quella che c’è tra l’uomo e il suo simile. L’unione personale nella reciprocità tra Dio e l’uomo ha origine nell’amore gratuito di Dio, e dalla decisione di Dio di donare se stesso all’uomo non per un bisogno ma per rendere l’uomo uguale a se stesso. Da parte di Dio nei confronti dell’uomo la gratuità è assoluta. Tra Dio e l’uomo, l’essere l’uno nell’altro è sempre ed esclusivamente a favore dell’uomo. Dio è nell’uomo non per possederlo ma per donarglisi totalmente e arricchirlo di sé, e l’uomo è in Dio, non per arricchire Dio, che sarebbe una pura assurdità, ma per prendere di lui e arricchirsi di lui. Il donarsi di Dio non solo è privo di compensazione, ma si configura come un uscire da sé fino a prendere la forma e la condizione umana. Ciò fa sì che il donarsi gratuito di Dio si risolve nella kenosi, nell’abbassamento. Tuttavia, la kenosi, derivante dall’amore, non è annullamento ma manifestazione dell’onnipotenza. L’abbassamento di Dio rivela e produce la divinizzazione dell’uomo e la sua trasformazione in Dio.

Per san Giovanni della Croce la trasformazione, considerata alla luce di 1Gv 3, 2, ha il significato di diventare simili a Dio: cioè precisa il Santo «non nel senso che l’anima acquisterà le perfezioni di Dio, che è  impossibile, ma nel senso che tutto ciò che ella è, diventerà simile a Dio, per cui si chiamerà e sarà Dio per partecipazione»[2].

Ciò significa che l’anima trasformata è stata rivestita della “forma” di Dio e che in lei, quindi, non ci sarà più niente che non sia di Dio e che non esprima Dio; e tanto risplende della luce di Dio, che Dio guardandola vede in lei se stesso.

L’anima è diventata, secondo l’espressione di Teresa di Gesù, lo specchio nel quale «apparve nostro Signore…, parendomi di vederlo in ogni parte della mia anima come per riflesso. E intanto lo specchio si rifletteva tutto nel Signore per una comunicazione amorosissima che non so dire»[3].

La dinamica dell’appartenenza e donazione reciproca può essere compresa nella linea della chiamata e risposta. Nel caso dell’unione tra Dio e l’uomo, però, non essendoci la parità di condizione, l’iniziativa della chiamata spetta a Dio e solo a lui: è lui che chiama donandosi, mentre il ruolo proprio dell’uomo è di rispondere, di obbedire liberamente all’iniziativa di Dio donandosi. L’uomo, benché creatura, è messo dalla chiamata autodonante di Dio nella condizione di rispondergli con il dono si sé.

La donazione di sé a Dio altro non è che la donazione di ciò che Egli gli ha donato. E l’uomo, per il fatto di essere rivestito da Dio delle sue perfezioni, non solo è fatto degno di presentarsi a Dio e stargli davanti come suo partner, ma è amato da Dio con lo stesso amore con cui Dio ama se stesso: in definitiva, si può dire che Dio amando l’uomo ama se stesso, oppure che Dio si ama nell’uomo.

Il fatto dell’unione con Dio, costituendo l’elemento costitutivo principale della struttura dell’essere umano, fa pensare che la realizzazione del cristiano non può che avvenire sviluppando il rapporto personale con Dio in Cristo fino al traguardo finale mediante l’azione dello Spirito Santo. Il cristiano camminando con fedeltà nell’unione con Dio realizza - perfeziona - se stesso, e dà testimonianza che solo Dio è il vero senso e scopo della vita umana. Tuttavia la “via” che il cristiano deve percorrere non può che essere Cristo: poiché se siamo stati voluti in lui per partecipare di lui, non è ipotizzabile altra via fuori di lui: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).

Siamo stati voluti infatti per avere la stessa forma di Cristo (cf. Rm 8, 29).

L’attività dello Spirito Santo nel cristiano è finalizzata a trasformarlo e conformarlo all’immagine del Figlio incarnato di Dio, a renderlo partecipe della sua filiazione naturale, così da poter stare davanti a Dio e rivolgersi a lui come a suo proprio Padre, essere amato da lui come suo vero figlio e fatto partecipe della stessa gloria del suo Figlio naturale, Cristo Gesù. Il compito della terza persona della Trinità è appunto d’insegnare ai discepoli il mistero di Cristo, di farglielo accogliere come senso e significato della loro esistenza, di provocare la loro adesione a lui, di istruirli riguardo al modo di essere suoi discepoli, di far assimilare a loro la sua mentalità, che è la stessa mentalità del Padre.

 

L’esistenza umana lacerata dal peccato

L’uomo, nonostante la sua origine divina e la sua chiamata all’unione con Dio in Cristo, ha assunto nei confronti di Dio un atteggiamento di sfida, di rivalità e di contrapposizione. La sua pretesa è di voler farsi un proprio progetto su di sé, alternativo a quello di Dio; cioè di realizzarsi sradicandosi da Cristo. Tutto questo significa rifiutare la propria oggettività costitutiva, cioè il proprio essere in Cristo e la relazione personale con Dio. Ed è questo un peccato radicale, la cui forza distruttiva colpisce anzitutto l’identità dell’uomo, il suo essere in Cristo che rimane profondamente sfigurato.

Inoltre l’uomo sperimenta in sé una lacerazione a causa del peccato delle origini. Nel sacrario intimo da una parte avverte la chiamata al bene, alla comunione e all’amore, dall’altro sperimenta la legge del peccato che gli impedisce di assecondare la chiamata divina. Anzi la legge del peccato gli fa sentire pungolante la legge della comunione con Dio in Cristo, per convincerlo dell’incapacità di sottrarsi alla «inesorabile regolarità del dover peccare e  del dover fallire», per convincerlo cioè che per lui non c’è più niente da fare, che per lui c’è oramai la sola realtà della morte.

L’uomo storico, dice Paolo, è totalmente prigioniero dell’ordinamento del peccato: «vedo un’altra legge nelle mie membra che si oppone alla legge della mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nella mia carne» (Rm 7, 23).

La morte di cui parla Paolo non riguarda la morte come fenomeno naturale, che ci sarebbe stata comunque anche senza il peccato. La morte di cui parla Paolo è la conseguenza della pretesa di fondare la sua esistenza su di sé, cioè su una base che non può dare vita, separandosi e sradicandosi in tal modo da Dio, che è il fondamento del suo essere e della sua dignità di uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. San Paolo esprime questo pensiero nella Seconda lettera ai Corinti: «Abbiamo ricevuto la sentenza di morte per imparare a non riporre la fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà ancora, per la speranza che abbiamo riposta in lui, che ci libererà» (2Cor 1,9-10). Quindi secondo Paolo la liberazione dell’uomo non è dalla morte fisica, ma da quella più pericolosa: l’autodistruzione di se stesso.

 

La libertà umana di auto decidersi per il proprio bene

Se è vero, come lo è, che il vero senso dell’uomo è comprensibile solo conoscendo il suo ultimo fine, e che l’uomo riesce a dare senso compiuto alla sua esistenza solo conseguendo il fine ultimo e definitivo, la stessa cosa si può dire della libertà umana, cioè che il senso, e quindi la natura della libertà umana sono comprensibili conoscendo lo scopo per cui Dio ha partecipato all’uomo la sua libertà. Se la ragione della provvidenza di tutta la struttura dinamica sta nel fatto che l’uomo esiste sì, ma non già totalizzato, allora anche la ragione della libertà sta nel fatto che all’uomo è affidato il compito e la responsabilità di costruire la sua esistenza nella storia e nel tempo. Compiendo quelle scelte e solo quelle che gli permettono di autocostruirsi e di raggiungere il fine definitivo per cui è stato voluto e chiamato da Dio ad esistere in Cristo.

Tuttavia lo stato d’incompletezza dell’essere dell’uomo coinvolge anche la libertà; per cui la libertà umana è, sì, data e ordinata a compiere le scelte che permettano all’uomo di realizzarsi, ma anch’essa giace nello stato d’incompletezza e ha quindi bisogno di diventare libera, cioè di crescere in libertà, con scelte orientate al proprio bene, non cedendo al condizionamento del peccato che orienta a scelte opposte. In altre parole la libertà umana può diventare libera e crescere in libertà non solo liberandosi dai condizionamenti esterni ed interni, ma soprattutto compiendo sempre e unicamente scelte che la determinano al bene. Ciò significa che la vera via della crescita della libertà e quindi della realizzazione e costruzione dell’uomo è quella della radicale e fedele obbedienza alla sua oggettività costitutiva: crescere in libertà, che è poi la vera autocostruzione dell’uomo, equivale a orientarsi in modo determinato e costante a Cristo. Allora diventare libero per l’uomo significa non porsi in atteggiamento autonomo e indipendente davanti a Cristo ma aderendo con vero e profondo spirito di obbedienza a lui.

L’obbedienza del cristiano, quindi, manifesta la natura e soprattutto la finalità della libertà come partecipazione a quella di Cristo nei riguardi del Padre (cfr. Gv 15,10), che in tutto ha compiuto la sua volontà; una libertà aperta, ricevente e totalmente obbediente.

 

Lo Spirito di Cristo, spirito del cristiano

L’invio dello Spirito Santo a noi a Pentecoste dà origine ad alcune novità di grande rilievo. Balza anzitutto l’aspetto di storicizzazione dello Spirito Santo, causata appunto dalla nuova relazione instauratasi tra lo Spirito Santo e la storia umana, e viceversa. È accaduto che lo Spirito ha assunto quella dimensione storico-temporale, che apparteneva soltanto al  Cristo terreno, e che dopo la pasqua appartiene anche a lui: si può dire che egli ha preso il posto del Cristo storico. Col mistero pasquale si è verificato un capovolgimento: il Cristo, divenuto Signore e asceso alla destra del Padre nella gloria, è uscito dalla storia e dal tempo degli uomini, lo Spirito Santo invece è disceso ed ha assunto, con modalità diversa, la dimensione storica, che prima era del Cristo.

Il dover «dimorare per sempre presso di noi» (Gv 14, 16) mette in luce un altro aspetto molto importante sia per la teologia che per la vita spirituale; riguarda il dimorare della persona dello Spirito Santo nel cristiano. Se infatti prima della pasqua si suole parlare dell’uomo come di un essere in Cristo, con la Pentecoste si deve dire dell’uomo che è anche un «essere nello Spirito».

L’affermazione più importante e più esplicita al riguardo si trova nella Lettera ai Romani 8, 9, ed è la seguente: «voi non siete nella carne, bensì nello Spirito». Il senso dell’espressione, nell’intenzione di Paolo, non è parenetico, bensì indicativo: in essa cioè Paolo parla non di un comportamento che il cristiano deve tenere, ma di ciò che egli è diventato mediante la presenza permanente dello Spirito Santo in lui; cioè Paolo fa capire che il cristiano esiste caratterizzato da una nuova connotazione, pneumatica appunto, per cui è diventato «un essere nello Spirito Santo» in quanto, dice Paolo, lo «Spirito di Dio» si è impossessato della sua esistenza e ne ha fatto la sua dimora permanente. La portata e la profondità di questa affermazione ha il senso di una definizione.  «Il nostro “essere nello Spirito” ha il fondamento nell’essere lo Spirito in noi. Lo Spirito si è impossessato di noi; si è appropriato la nostra esistenza come luogo in cui si dispiega la sua efficacia... Il nostro modo di essere può dirsi ora un “essere nello Spirito” perché lo Spirito si è dischiuso a noi esercitando in noi la sua efficacia ed imprimendo la sua direzione. Il nostro essere nello Spirito è il suo essere in noi, e viceversa. L’inabitazione dello Spirito in noi coincide con la nostra inabitazione nello Spirito»[4].

 

La dimensione cristologica dell’attività dello Spirito

Chi sottolinea in modo esplicito il carattere cristologico dell’attività dello Spirito Santo in noi è l’autore del Quarto Vangelo. Giovanni parla dello Spirito Santo come dell’altro Paraclito, poiché il primo è Gesù; così dicendo esalta l’intreccio vitale e il rapporto intrinseco tra i due. Lo Spirito quindi, in quanto altro Paraclito, non è stato inviato a sostituire ma a continuare il compito di Gesù, nel tempo della sua assenza.

Il compito che lo Spirito deve continuare a svolgere nei discepoli, nella Chiesa e nei singoli cristiani è di insegnare e di testimoniare. L’insegnamento dello Spirito nei discepoli, nella Chiesa e nei cristiani consiste nel far comprendere il mistero della morte e risurrezione di Gesù nei momenti più difficili, in cui la loro fede in Gesù è minacciata e ostacolata. Ma l’insegnamento dello Spirito non è tanto il prolungamento dell’insegnamento di Gesù, quanto insegnare Gesù stesso. Ciò che importa capire e accogliere è la persona di Gesù e il significato della sua storia tra gli uomini. Si direbbe che lo Spirito riprende lo stesso atteggiamento del Figlio, che non è venuto a dire parole sue e a cercare una gloria propria, ma a raccontare ciò che ha udito dal Padre: allo stesso modo si comporterà lo Spirito nei confronti del Cristo: “Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo manifesterà” (Gv 16, 14). Per cui, «l’insegnamento dello Spirito Santo non è ripetitivo. L’autentica fedeltà esige approfondimento e attualizzazione. Quella dello Spirito è una fedeltà che continuamente si rinnova, sempre giovane, capace di adattarsi alle situazioni che via via presenta la storia. Giovanni precisa: l’insegnamento dello Spirito è un “guidare verso e dentro la pienezza della verità” (Gv 16, 13). Dunque una conoscenza interiore e progressiva. Non un progressivo accumulo di conoscenze, ma un progressivo viaggio verso il centro: dall’esterno all’interno, dalla periferia al centro, da una conoscenza per sentito dire a una conoscenza personale»[5].

L’altro compito dello Spirito è la testimonianza riguardante la verità su Cristo nei discepoli e quindi in ogni cristiano. Secondo Giovanni, lo Spirito viene per i discepoli ma non per il mondo (Gv 14, 16-17), ed è stato mandato da Gesù presso i suoi discepoli perché fosse suo difensore in loro e difensore della loro fede in lui di fronte al mondo (Gv 15, 26). Lo Spirito, cioè, difenderà Gesù nella coscienza dei singoli cristiani, spiegherà loro la grazia di essere discepoli quando questi saranno esposti, per l’ostilità del mondo, al dubbio, allo scandalo e allo scoraggiamento.

 

Dimora e appartenenza reciproca tra lo Spirito e l’uomo

Lo Spirito di Dio e di Cristo, è diventato «lo Spirito che è in noi» (Rm 8, 9.11). Il senso di ciò è che lo Spirito, oltre a essere in noi come garante del Padre e del Figlio e testimone della verità su Cristo, è diventato Spirito nostro, per cui ci appartiene, e noi gli apparteniamo. Tutto questo perché tra lui e noi si è stabilita una indissolubilità talmente profonda da produrre un’appropriazione reciproca.

Il momento rivelativo e storico-temporale di questa realtà si verifica mediante la rigenerazione battesimale. Il battesimo è un evento dalla duplice dimensione: quella di intervento salvifico, di pegno con il quale al cristiano viene garantita la presenza dello Spirito Santo, della sua fedeltà e della sua costante attività nel formare il Cristo in lui e nel conformarlo all’immagine di lui, l’altra dimensione è quella di essere segno con il quale l’uomo manifesta visibilmente la sua risposta e adesione al mistero pasquale di Cristo e al progetto salvifico di Dio su di lui. Il battesimo è pertanto un avvenimento che abbraccia un orizzonte molto vasto: prima ancora di apparire come intervento soteriologico o di liberazione dal peccato, esso ha il significato di piena rivelazione al battezzato del progetto divino di salvezza su di lui a cui egli è stato da sempre destinato. Il battesimo assume, così, anzitutto il significato di buona novella, in quanto con esso il progetto di Dio su di noi acquista visibilizzazione e dimensione storico-temporale.

Però, nonostante ciò, non possiamo far passare in secondo ordine l’aspetto soteriologico del battesimo, il cui effetto è liberazione dell’uomo dal peccato e la piena riconciliazione con Dio. Il destinatario del battesimo infatti è l’uomo storico, cioè l’uomo la cui esistenza giace in una situazione oggettiva di peccato. Per questo, si attribuisce al battesimo anche il significato di rinascita o rigenerazione dell’uomo in Cristo mediante l’azione dello Spirito Santo, tanto che l’uomo uscito dal fonte battesimale risulta essere un uomo nuovo, una creatura nuova in Cristo.

 

Lo Spirito di Cristo è l’attuatore del progetto di salvezza in Cristo

Come lo Spirito ha iniziato a dare dimensione storica al progetto salvifico divino formando il Cristo uomo nel seno della Vergine Maria, così continua a far diventare storia il progetto salvifico di Dio formando in noi il Cristo e conformando noi a lui. Ma poiché Gesù Cristo non è solo fonte e mediazione attiva, ma anche destinazione ultima e definitiva, allora il compito dello Spirito Santo è proprio quello di realizzare il Cristo in noi suscitando in noi l’adesione obbediente e libera a lui. Per cui tutta la vita teologale, cioè lo sviluppo del nostro rapporto personale con Dio, si attua mediante lo sviluppo del rapporto personale con Cristo nello Spirito Santo.

 

Lo Spirito è l’artefice dell’unione trinitaria

Dio se da una parte dimostra la grandezza, anzi l’onnipotenza del suo amore nell’estremo abbassamento, nel sottoporsi alla kenosi dell’umiliazione più profonda, dall’altra ci fa capire quanto Egli consideri grande l’uomo ai suoi occhi e quanto grande è la considerazione e stima che ha di lui. La nostra meraviglia e il nostro stupore aumentano a dismisura se ci soffermiamo a contemplare il grado di intima unione amorosa che lo Spirito Santo instaura tra noi e le divine persone della Trinità. Infatti, se lo Spirito Santo si è appropriato della nostra esistenza trasformandola in sua dimora, ciò significa che egli è diventato inseparabile da noi, e che noi siamo diventati luogo delle sue operazioni intratrinitarie; quindi ciò che egli, prima del suo invio a noi, operava all’interno della Trinità ora lo compie in noi coinvolgendoci direttamente. Ma se poi pensiamo che egli dimora permanentemente in noi come l’amore sostanziale che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre, allora veniamo a sapere che egli ci dice e ci dà l’amore del Padre e del Figlio, ci dice e ci fa sperimentare quanto il Padre e il Figlio ci amano in lui. Ciò concretamente significa che dove dimora lo Spirito dimorano anche il Padre e il Figlio, e che è la Trinità tutta ad appropriarsi della nostra esistenza e a farla sua dimora; così, invece di ascendere noi alla Trinità, è stata la Trinità a discendere verso di noi e a diventare la Trinità con gli uomini. Noi pertanto non solo siamo diventati luogo dove le divine Persone compiono le azioni propriamente trinitarie, ma siamo anche coinvolti attivamente nella circolarità dell’amore tra le divine persone e delle azioni compiute dalle stesse divine persone: esse si amano in noi e insieme a noi, compiono le loro azioni in noi e insieme a noi.

Se colui che Dio ha stabilito fin dall’eternità di darci in Cristo come sorgente di tutti i doni e beni spirituali è l’amore sostanziale tra il Padre e il Figlio, allora possiamo dire che egli è in noi per dischiuderci il dono più alto: introdurci nel mistero della Trinità come nel nostro habitat vitale. La comunione trinitaria, così, non appare più un mistero che sta fuori di noi o al di sopra di noi, ma un mistero che ci tocca direttamente, che s’intreccia con il nostro mistero; siamo immersi in esso e ne facciamo parte. Così, possiamo dire con Elisabetta della Trinità che noi siamo il vero cielo di Dio, dove siamo invitati a contemplare l’amore che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre, che è lo Spirito Santo dimorante in noi.

 

Aspetto cristologico dei dinamismi teologali

Se Dio ha stabilito, con decisione irrevocabile, che tutto esiste e vive in Cristo, che tutto ci viene da Cristo e che tutti siamo destinati a diventare conformi all’immagine di lui, Figlio suo incarnato (Rm 8,29), allora dobbiamo dedurre che lui e soltanto lui può essere il fondamento dei dinamismi (virtù teologali) per lo sviluppo della vita divina in noi. Ricordiamo ancora una volta: tutto ciò che siamo e che abbiamo, lo siamo e lo abbiamo perché partecipiamo di Cristo.

Data la costitutiva ed essenziale connotazione cristologica del piano salvifico divino, pensiamo che le virtù teologali della fede, della speranza e della carità, più che come potenziamento delle facoltà spirituali del soggetto umano, vanno intese come partecipazione della vita divina in Cristo, come dono ordinato allo sviluppo del rapporto personale con lui, e servono soprattutto a plasmare il credente.

 

Aspetto pneumatico dei dinamismi teologali

Ci è stato inviato il dono dello Spirito Santo, che Dio già aveva stabilito nel suo eterno progetto salvifico di darcelo come fonte di tutti beni spirituali. Così lo Spirito, da colui che ha posseduto e condotto il Cristo durante tutto il suo ministero messianico fino al sacrificio supremo di sé sulla croce (Eb 9, 14) e alla sua resurrezione, è passato con la pasqua ad essere posseduto da Cristo, da diventare appunto Spirito di Cristo, e Cristo lo ha inviato a noi con il compito di realizzare in noi il suo mistero di salvezza.

Infatti chi meglio dello Spirito, avendolo egli concepito nel grembo della Vergine Maria, ci può insegnare “Cristo”, farcelo conoscere, cioè farci incontrare con lui?

Tutta questa realtà vitale che lo Spirito Santo opera in noi, è ciò che chiamiamo “vita teologale”; e i dinamismi che ne accompagnano lo sviluppo li indichiamo con il nome di “fede”, “speranza” e “carità”, sempre con riferimento diretto a Cristo.

 

Fede come affidamento a Cristo

Per ogni essere umano l’affidamento di se stesso all’altro, nel rispetto assoluto della irripetibilità e irriducibilità essenziale della diversità, costituisce la via sicura alla piena realizzazione di sé. Il fatto quindi che la persona umana, essendo fondata nella vocazione comunionale, non è fatta per bastare a se stessa, né a essere se stessa senza l’altro, induce a concludere che essa attua pienamente se stessa soltanto nella comunione con altri, cioè nel fare spazio in se stessa all’altro, nell’uscire da se stessa e affidarsi a lui.

Per il credente l’altro non può che essere Cristo, senza il quale esso rimarrebbe chiuso in se stesso; Cristo, quale suo fondamentale e vero “Altro”, che gli permette di scoprire la propria identità e di arrivare alla piena verità su se stesso; inoltre l’affidamento a Cristo genera e sostiene anche la comunione di fede con gli altri simili.

I mezzi che la fede mette a disposizione del credente cristiano, per usufruire salvificamente della presenza del Risorto sono la parola e i sacramenti, con essi e in essi Cristo, morto e risorto, per ogni credente diviene presente, riferimento obbligatorio e fonte di vita.

 

La speranza

La speranza è forza che sostiene l’uomo nel lavoro di costruzione della propria esistenza in Cristo, nel fare storia e riempirla di senso e di significato; è la finestra che lo apre sull’eternità, la risposta ai problemi che lo assillano e annebbiano la sua esistenza. La speranza, da una parte sta a indicare l’inaffidabilità delle certezze umane, dall’altra offre certezza e garanzia circa il vero valore su cui l’uomo è chiamato a poggiare l’edificio dell’autocostruzione, che è la persona di Cristo. Così la speranza è il dono di vedere e accogliere l’evolversi e il compimento dell’esistenza storica del Cristo come garanzia del futuro e della meta definitiva di ognuno di noi.

La speranza, per il fatto che ha la sua fonte in Cristo, con il quale l’uomo è legato da un rapporto personale intrinseco e da un vincolo indissolubile, insieme alla vita partecipa pure alla tensione del Cristo stesso verso la sua definitività, cioè verso lo stato glorioso che lo ha insediato alla destra del Padre. La speranza teologale è la forza che impedisce all’uomo di rifugiarsi nel passato e lo spinge oltre i confini del presente.

La virtù della speranza è il pegno e la garanzia che lo stato glorioso di Cristo è anche la meta definitiva per la quale l’uomo è stato voluto; per cui la risurrezione di Cristo ha il senso anche della piena rivelazione della vocazione dell’uomo. Il senso dell’uomo voluto in Cristo, infatti, è che egli partecipasse di tutto ciò che è Cristo. Perciò anche la meta definitiva di Cristo che è lo stato glorioso presso la destra del Padre diventa per partecipazione anche la meta definitiva dell’uomo.

E la speranza non è solo la rivelazione di tutto questo ma ne è anche l’anticipazione in questa esistenza. Infatti lo Spirito che Gesù ha inviato e che è stato effuso nei nostri cuori è in noi come la primizia e garanzia dei beni futuri, cioè come anticipazione dei beni che di per sé sono soltanto del mondo futuro. Paolo dice che Dio ci ha dato la caparra dello Spirito Santo (2Cor 5, 5) e che siamo stati sigillati per mezzo dello Spirito Santo: «non affliggete lo Spirito Santo, dal cui sigillo siete stati segnati per il giorno della redenzione» (Ef 1, 13; cf. 4, 30). Col concetto di “caparra” riferito allo Spirito Santo, Paolo ci vuole dire che Dio, dandoci lo Spirito Santo, ci ha dato «un acconto del possesso della salvezza», quindi della gloria futura; invece col concetto di sigillo riferito allo Spirito Santo, Paolo vuole dirci che lo Spirito ci è stato dato come «segno di protezione e proprietà escatologica»[6], che noi cioè viviamo già sotto il segno e la signoria escatologica.

Quindi lo Spirito ci è dato da Gesù perché noi non solo raggiungessimo la meta: «la risurrezione, la piena libertà dei figli di Dio», ma perché fossimo già immessi fin da ora in questa realtà, che di per sé appartiene solo al mondo rinnovato.

La speranza è l’affidamento del cristiano alla storia, esprime un vincolo e un legame indissolubile con la storia: egli cioè ha il compito di «sperare per sé e per il mondo». Il suo spera- re, cioè, il suo aver fiducia nello Spirito di Cristo glorioso, che è in lui e che lo guida, ha il senso di buona novella per il mondo, di annuncio con il quale proclama «c’è una via d’uscita, non tutto è chiuso, c’è un riferimento; oltre non c’è che il vuoto, il nulla»[7]. La speranza è l’allontanamento dello spettro del nulla e del fallimento totale. Il cristiano esiste nel mondo come una persona che spera, come persona fatta speranza dallo Spirito Santo per gli altri, come segno vivo e porta aperta al futuro; così, la sua esistenza di credente sperante diventa presenza della speranza stessa nel mondo; lo sperare del cristiano è regalare al mondo la speranza, è fargli il dono della certezza dell’aldilà.

 

La carità: amare come ama Cristo

Come già abbiamo detto diverse volte, ciò che siamo e ciò che abbiamo, lo siamo e lo abbiamo per partecipazione di ciò che è Cristo. Quindi partecipiamo di Cristo oltre l’essere, nella sua realtà ontologico-costitutiva, anche tutto il mondo dei suoi dinamismi teologali, necessari per la nostra crescita e sviluppo in lui. Perciò partecipiamo di Cristo la sua libertà, fonte della capacità di volere; partecipiamo anche della coscienza di Cristo, per cui possiamo scegliere in modo responsabile e in armonia con la destinazione ultima del nostro essere; di lui partecipiamo inoltre ciò che costituisce l’essenza e il vertice della pienezza dell’essere umano: cioè l’amore.

L’amore tanto è qualificante per la struttura dell’essere umano che è la causa e il fine di tutti gli elementi della struttura ontologica dell’uomo. La sua fondamentalità è la ragione anche della sua funzione di criterio valutativo per lo sviluppo e il cammino di maturazione della persona umana.

L’amore, cioè, visto in questa prospettiva, non solo si configura come elemento fondamentale e costitutivo dell’essere umano, ma costituisce la finalità di tutti gli altri elementi e dinamismi che appartengono alla struttura dell’essere umano: libertà, coscienza, volontà ecc. L’amore è causa di tutto e la ragione che tutto è ordinato a che l’uomo possa crescere nella capacità di amare.

Mentre nel discorso sulla fede la vocazione all’unione ha lo scopo di giustificare la necessità del riferimento all’altro che, nel caso del credente, è Gesù Cristo, qui invece ha lo scopo di rendersi conto della centralità del dinamismo dell’amore nella costruzione dell’unione: l’amore esiste come l’unica forza che fa crescere e sviluppare l’unione tra due persone, è il motore che imprime all’unione un movimento continuo e impedisce di fermarsi, di diventare statica. La centralità di tale dinamismo diventa più chiara e necessaria soprattutto quando l’unione assume l’aspetto qualificante di dono, di appartenenza reciproca e di rapporto indissolubile tra due persone: cioè quando è dono totale e incondizionato di se stesso all’altro nell’amore e per amore, e quando l’altro accoglie tale dono con amore e per amore. Da tutto questo deriva che ciò che meglio qualifica la struttura dinamica della persona umana e meglio esprime la forza che fa progredire il rapporto tra due persone è il dinamismo dell’amore. Anzi bisogna ammettere che l’amore, nella struttura della persona umana, esiste come legge cui essa deve radicale obbedienza: ciò porta alla conclusione che non può esserci motivazione che giustifichi le scelte e l’agire della persona umana diversa da quella dell’amore..

Da tutto ciò spicca ancora con più chiarezza la fondamentalità e l’essenzialità del rapporto con Cristo per lo sviluppo della vita spirituale del credente. Questo perché Cristo è l’unico fondamento vitale di tutto il piano salvifico di Dio, per cui niente può esistere, vivere e realizzarsi fuori di lui e senza il riferimento a lui.

Per un’ulteriore chiarezza sul carattere cristologico del dinamismo della carità, dobbiamo ricordare che Cristo s’identifica con la stessa carità o amore; egli è la carità di Dio pienamente manifestata, anzi è la carità di Dio diventata persona umana. Al riguardo, l’insegnamento paolino presenta il Cristo non solo come manifestazione della carità di Dio, ma come la stessa carità di Dio diventata visibile assumendo la forma umana; per cui credere in Cristo, per Paolo, è credere «alla carità che Dio ha per noi». Se è vero che tutto ciò che siamo e abbiamo, lo siamo e lo abbiamo perché partecipiamo di Cristo, questo fatto è vero soprattutto per ciò che concerne Cristo come fonte del nostro amore; questo fatto ci permette di asserire che anche l’uomo è “amore” per partecipazione. Penso che consista proprio in questo il vero contenuto dell’essere immagine di Dio in Cristo sua perfettissima immagine: perché anche noi, benché per partecipazione, fossimo amore come lo è lui. Infatti, se andiamo a considerare che la perfezione o santità di Dio sta nell’essere amore (1Gv 4, 8), allora anche
l’uomo, in quanto immagine di Dio in colui che è perfettissima immagine, Gesù Cristo, non può che trovare nello sviluppo dell’amore il vero senso della sua esistenza e la sua piena realizzazione.

La persona di Cristo, in quanto amore di Dio fattosi visibile, cioè in quanto amore che ha spinto Dio a uscire da se stesso e farsi uomo per essere l’intimo dell’uomo e condividerne la concretezza storica, insegna che l’amore è vero quando spinge la persona a uscire da se stessa e a mettersi a disposizione dell’altro, accogliendo anche il rischio che ne può derivare, cioè essere rifiutato e considerato nemico dall’altro a cui si fa prossimo.

Il mistero e la vicenda di Cristo insegna ancora che non basta amare gli altri, ma che bisogna amarli come li ama Cristo. La partecipazione all’amore di Cristo, non solo fa capire che il nostro amore è lo stesso amore di Dio fattosi visibile in Gesù Cristo, ma comporta anche sintonizzarsi sulla stessa logica del modo di pensare e quindi di amare di Cristo; quindi se il nostro amore è lo stesso di Cristo, anche il nostro modo di amare non può essere che quello di Cristo.

Ma la certezza della fattibilità, della attuabilità e della capacità di riuscire ad amare come ama Gesù Cristo ci è garantita dalla presenza in noi di quello Spirito Santo, che è Spirito dell’amore del Padre verso il Figlio e del Figlio per il Padre e, che per amore, ha formato il Cristo nel grembo della Vergine Maria e lo ha guidato a dare se stesso per gli uomini. Ebbene, in noi lo Spirito di Cristo esiste come Spirito dell’amore, lo Spirito dell’amore del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre; per cui è lui che non solo ci rende partecipi dell’amore di Cristo e ci fa amore, ma è in noi come amore, come forza che ci abilita ad amare come Gesù, con la stessa totale dedizione e gratuità di lui; egli c’insegna e ci dà il coraggio di uscire da noi e di diventare prossimo di chi è nel bisogno, di chi è emarginato, di chi non la pensa come noi; ci dà la forza di correre il rischio di affidarci anche a chi non solo non ci accetta, ma ci considera nemici da combattere.

Se nel considerare lo Spirito Santo come datore di vita, è emerso l’aspetto di fonte e di agente principale nella costruzione del cristiano, qui lo Spirito Santo come per- sona diventa il “modello” del comportamento del cristiano.

 

Lo Spirito, modello del cristiano

Lo Spirito Santo può essere preso a modello del dinamismo e del comportamento della persona umana.

Il concetto di persona, per gli occidentali, si identifica con quello di relazione: così in Dio (nel nostro caso nello Spirito Santo) essere persona significa essere relazione, essere in relazione. Per gli orientali, si può dire la stessa cosa. Anzi per loro, strettamente parlando, la persona esiste soltanto in Dio: l’uomo, per Evdokimov, ha soltanto la nostalgia di diventare persona,   e ciò avviene attraverso la comunione con le persone divine. È ancora Evdokimov a riassumere una costante tradizione orientale dichiarando: «La persona esiste per la comunione ed esiste essenzialmente per la comunione». È soltanto nel dono, nella comunione, nella condivisione che l’uomo, in quanto immagine di Dio, realizza la sua vocazione originaria. Tutto questo, possiamo dire, è vero in modo del tutto particolare in riferimento allo Spirito Santo. Egli, infatti, è definito e chiamato dai mistici e dagli autori spirituali “dono, amore, comunione, bacio, carezza, gratuità trascendimento”. Prendere lo Spirito Santo a modello della persona umana significa anzitutto sottoporre questa a un continuo processo di revisione e di conversione, perché l’egoismo è sempre in agguato e perennemente insi-dioso. Secondo un recente teologo dello Spirito Santo: «il modello trinitario e, in maniera specifica, il modello pneumatologico dell’essere persona rivela che l’essere persona comporta essenzialmente anche la capacità di tirarsi indietro e di fare-spazio-all’altro»[8]. Con questa espressione si evidenzia non una espropriazione, una scomparizione o una perdita di sé, ma una vera autorealizzazione di sé.

Di tutto questo, la vera immagine e ideale è la persona divina, in particolare lo Spirito Santo. Alla luce di essa vanno compresi, interpretati e risolti i concetti di responsabilità e di libertà.

Infatti, considerando l’ideale cristiano e dell’uomo in quanto tale, se c’è una cosa da escludere in modo categorico è l’isolamento. Ciò che invece va fortemente perseguito è la pericorési cioè la circolarità, la comunione, la comunicazione, l’aprirsi all’altro, il dire e dare sé all’altro. Alla luce del messaggio evangelico, l’esistenza del cristiano acquista il significato di “pro-esistenza”, cioè di un’esistenza per l’altro più che per se stesso. Questo è il vero anzi l’unico modo di diventare cristiano, o di diventare uomo. Al contrario, invece, se l’uomo si chiude in se stesso, non si costruisce in quanto uomo, non riempie di vero significato la propria esistenza, anzi si avvilisce, ricade su se stesso, e in se stesso rimuore. Questa è la lezione che viene dalla Trinità e da tutti coloro che hanno fatto proprio l’insegnamento del Vangelo; cioè coloro che hanno imparato a perdere la propria vita in favore degli altri: se si vuole trovare la propria vita, dice il Vangelo, bisogna perderla per il regno, cioè per la salvezza dei fratelli.

L’uomo spirituale

L’uomo in quanto configurato e conformato a Cristo dall’attività dello Spirito Santo, può essere considerato come manifestazione visibile di Cristo. Questo concetto è molto bene espresso dalla celebre affermazione agostiniana, secondo cui il cristiano non è soltanto colui che appartiene a Cristo, ma è anche Cristo: «ego christianus non solum sum Christi, sed etiam sum Christus», è il Cristo sperimentato e riprodotto mediante il vissuto quotidiano.

L’aspetto di crescita e di sviluppo del credente in Cristo sotto l’azione dello Spirito Santo orienta a considerare l’opera di personalizzazione della  vita cristiana come cammino verso la singolarizzazione cui il cristiano è stato chiamato e che lo Spirito attuerà in lui, se da parte del battezzato ci sarà un’adesione incondizionata all’azione dello Spirito. La singolarizzazione è la realizzazione di ciò che specifica un battezzato in Cristo da un altro.

Tutto questo accade per opera dello Spirito, il quale appunto è nel battezzato per fare di lui «questo particolare cristiano», distinto da qualsiasi altro discepolo di Cristo. Egli perciò va producendo nell’uomo nuovo in Cristo quella singolarizzazione che lo distingue e lo rende e fa irripetibile nei confronti di ogni altro battezzato e credente in Cristo.

 

Chiamato alla santità

Nella lettera agli Efesini Paolo precisa che l’unione dell’uomo con Dio avviene nella santità: «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità…» (1,4). Ma in che cosa consiste la santità di cui parla Paolo? Bisogna distinguere tra santità ontologica e santità morale. Ogni essere umano, in quanto creato ad immagine di Dio, è santo per costituzione ontologica. Mi spiego. Di per sé solo Dio è santo. Nella Sacra Scrittura, infatti, è santo ciò che è separato dal profano. Dio è santo perché è Dio è il trascendente. Dire che Dio è santo significa affermare il suo essere infinitamente e totalmente separato dall’uomo, e designa il mistero più intimo della sua persona. Ma è santo anche tutto ciò che entra in rapporto con Dio. E in particolare l’uomo, chiamato ad essere partecipe di Dio, anzi «della sua natura divina» (2Pt 1, 4) che è santa per essenza, è ontologicamente santo. È dunque in virtù di questo rapporto qualitativo con Dio che la santità acquista la valenza di elemento essenziale della struttura dell’essere umano e fonte della sua trascendenza nei confronti degli altri esseri creati.

La santità morale non deve essere altro che una risposta alla santità ontologica dell’uomo; la santità ontologica senza quella morale riamarrebbe inattuata.

In questa prospettiva la santità morale costituisce la diversità tra persona e persona.

Per  comprendere meglio la distinzione e il nesso intrinseco tra l’aspetto ontologico e quello morale ci si può servire del rapporto esistente tra il bambino e l’adulto. Sul piano ontologico dell’essere umano, tra il bambino appena nato e l’adulto non c’è alcuna differenza. La differenza tra di loro esiste sul piano dinamico o dello sviluppo. Poiché, mentre nell’adulto la vita umana si è manifestata in pienezza, nel bambino invece è ancora tutta in embrione e perciò tutta da sviluppare. Altrettanto si può dire della differenza tra la santità ontologica e quella morale. Sul piano ontologico, tra il bambino e il mistico o tra il peccatore e il santo non c’è alcuna differenza. Essa esiste sul piano dinamico dello sviluppo. Nel grande mistico la santità è giunta alla piena manifestazione col vivere santamente, mentre nel bambino battezzato essa è, ancora, tutta in embrione e nel peccatore è rimasta sepolta.

 Come l’agire, per ciò che riguarda l’essere, è il momento rivelativo della sua natura e  lo strumento del suo sviluppo, così per il cristiano (qui parlo di cristiano e non di semplice essere umano perché il primo ha coscienza, mediante la rivelazione divina, della sua chiamata) il vivere santamente costituisce il momento della manifestazione della santità ontologica e lo strumento del suo sviluppo per la piena attuazione. E ciò nello Spirito Santo che abita in lui e per mezzo dei dinamismi teologali di cui è dotato. Il cristiano, in virtù del battesimo, sa che nella sua concretezza storica non si appartiene più, ma appartiene al Signore, perciò è incalzato dall’imperativo di manifestare visibilmente con coraggio la sua appartenenza al Signore attraverso il vissuto quotidiano: per lui non esistono circostanze o situazioni in cui può pensarsi fuori del Signore, o che non gli sia richiesto di donarsi a Dio in Cristo.

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[1] SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico Spirituale B, 39,6.

[2] SAN GIOVANNI DELLA CROCE, 2Notte, 20,5.

[3] SANTA TERESA DI GESÙ, Autobiografia, 40,5.

[4] H. SCHLIER, La lettera ai Romani, 407-408.

[5] B. MAGGIONI, Il vangelo di Giovanni. Traduzione e commento, in AA.VV., I Vangeli, Cittadella Editrice, Assisi 1989, p. 1614.  

[6] Cf. H. SCHLIER, Lettera agli Efesini, pp. 99 s.

[7] G. MOIOLI, L’esperienza spirituale, p. 25.

[8] G. FROSINI, Lo spirito che dà la vita, p. 154.

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